Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: novembre, 2013

Movendo da “Inferno, Canto V”

 

chillida1

 

Viene a prendersi il sorriso di Dio
il mare
a ripetizione scaraventandolo
sulla sabbia
urlando nei giorni di libeccio
ricantando con rima fiorentina
le vorticanti menti innamorate.
Madreperlacea nobile eleganza
di Francesca: si screzia nella sua
voce
(ch’è andanza cadenzata dai balconi
sopra il Portocanale o dai tornanti
d’Appennino or dolci or precipitosi)
la Commedia.
Viene a prendersi l’Estate nel canto
e ha mani di sale, occhi di vento
per attraversamenti rapinosi
della mente viaggiante
stormente alla scogliera
lei poeta che sfida lo smottare
sfrigolante dei gironi, dei giorni.

 

 

 

Concatenazioni 1

maria lai 1

Avrei voluto ancora limare e ritoccare questa prima della serie delle Concatenazioni; ma, dietro la spinta emotiva di ciò che sta accadendo in Sardegna, anche stavolta non ho che parole e libri e immagini per dire la solidarietà e l’affezione ad una terra, ad un popolo.

I LIBRI E I TELAI DI MARIA LAI, LE SCULTURE DI COSTANTINO NIVOLA

1. C’è un luogo nella Barbagia di Ollolai che ha il nome di Orani. Risonanze misteriose, fascinanti, arbitrarie, lo so, e ariose: oracolo, orazione, Orano d’Algeria, os/oris :bocca che dice e che canta.

Nell’Ogliastra Ulàssai: ulivo, Ulisse, ultimo.

2. Maria Lai spiega che ha imparato da suo padre la regola delle 5 esse per la coltivazione dell’ulivo: sasso (l’ulivo ha bisogno di terreno sassoso per crescere forte e durare nei secoli), sole (è il sole che lo fa vivere), solco (ma è il lavoro dell’uomo che lo cura), scure (l’ulivo va sfrondato, ripulito, modellato), sale (l’ulivo ha bisogno del mare affinché i suoi frutti siano dolci).

3. Nel suo bellissimo Isolatria (viaggio nell’Arcipelago della Maddalena) Antonella Anedda ricorda Maria Lai e Costantino Nivola: nomi eroici, mitici, li definisce, come lo è il Maestro di Castelsardo, volto perduto nell’addensarsi del passato.

4. Tessere, intessere: quando Odisseo s’avvicina alla casa di Circe ode la maga cantare mentre ella lavora al telaio; all’opre femminili intenta la Maga, nel poema vinta dall’eroe, è memoria della grande Dea mediterranea, distorta e ridotta alla funzione di malefica ingannatrice domata e dominata dal maschio portatore della cultura indoeuropea, ma, se si risale alle origini, facitrice di civiltà e di pace, esperta conoscitrice dell’arte del tessere e si tessono abiti, tappeti, stoffe da usare in casa o nel rito, tessuti di cui adornarsi e si tessono anche i racconti, i canti. Maria Lai recupera la funzione non-subordinata del tessere, la connette con l’elaborazione della cultura e della memoria, la riscatta dalla plurisecolare condanna ad essere attività da gineceo inteso quale luogo di segregazione e di controllo della donna. Tessere, intessere: Maria Lai tende tra le mani con le dita aperte fili ch’ella contempla con religiosa attenzione. Con i fili dell’amicizia lega tra di loro le famiglie, le porte, le pareti di Ulassai, lega il paese alla sua montagna.

maria lai 2

5. Le migrazioni mitiche dei Sardi, la civiltà nuragica, i Fenici e i Romani sull’isola, l’era insieme luminosa e contraddittoria dei Giudicati, Eleonora d’Arborea, Catalogna e Spagna, la trasmissione da cantore a cantore di quest’abissale concatenazione di storie: Sergio Atzeni scrive, come posseduto dal dio del racconto, la vertiginosa bellezza di Passavamo sulla terra leggeri; già l’Apologo del giudice bandito aveva mostrato una Sardegna indagata con occhio non ingenuo, ma pure non dimentico della tradizione; il nuovo libro, donatoci pochissimo prima che lo scrittore scomparisse nel mare tanto amato e cercato, rapisce la mente del lettore, come Cent’anni di solitudine, come Paradiso di Lezama Lima, come Texaco di Patrick Chamoiseau, come Grande Sertão compie il miracolo di far rivivere l’arte dei rapsodi.

6. Immagino Costantino Nivola rivolgersi all’amico Henri Cartier Bresson:

“Ho bussato alla porta d’una città meravigliosa

di pietre antichissime materiata

e piazze quadrate come cisterne

neolitiche

ho scolpito bassorilievi nei muri delle case

e i paesani stavano a guardare

ho visto mammelle e vulve nella pietra

perché sono figlio della terra

ti ho portato con me

perché sei figlio della luce

tu disegni con gli occhi ficcàti

nella Leica

io scolpisco con gli occhi incarnàti

nelle mani

immobili ci guardano

la matriarca e il patriarca

saliva della mia isola

seduti e nobili come

lo saranno stati ai tempi

dei Giudicati.

7. Una foto mostra Costantino Nivola issato sulle impalcature mentre traccia graffiti sulla facciata della Madonna de sa Itria di Orani e gli abitanti del paese lo guardano lavorare; commentano, gli danno consigli, lo interrogano e Nivola riporta come per miracolo nel cuore del Novecento l’artista-manovale che lavora in mezzo alla sua gente. Ho pensato spesso alle maestranze che lavorarono alle grandi cattedrali romaniche o agli edifici pubblici del Rinascimento: lavoratori spesso sfruttati, probabilmente, ma sapienti nella loro arte, coscienti di un ruolo (scalpellini, mosaicisti, carpentieri, vetrai …..), mastri appunto capaci di riconoscersi in un intento comune rappresentato dall’edificio in costruzione (la signora che ci accompagnò durante la visita al Duomo di Colonia ci diceva quanta fierezza sentano ancora oggi gli artigiani chiamati a curare le diverse parti dell’edificio).

 costantino nivola 1

8. Henri Cartier-Bresson diviene amico di Costantino Nivola, ne è ospite in Sardegna; insieme hanno già lavorato negli Stati Uniti, Costantino gli fa conoscere la sorgività di una cultura contemporaneamente antichissima e modernissima, lo accompagna nei lavatoi di pietra, nelle cappelle isolate tra i pascoli e tra le campagne, gli mostra la pietra che suona al passaggio del vento.

Costantino pareva cantare nella sua parlata sarda, avrà cantato anche parlando l’inglese, dicendo sea e trees e stone, pietre affioranti nel mare degli alberi.

9. I suoni della pietra, Pinuccio Sciola, è lui a scolpire le pietre che suonano, vibrare, voci della pietra, vento che sfiora la pietra (il vento traverso l’allineamento dei menhir a Kermorvan in Bretagna, giunge fin qui a Via Lepsius la voce di Celan). Mano che passa su pietra e pietra che sfiora la pietra: preghiera della pietra nell’immaginazione di Vladimír Holan, arcano linguaggio:

Paleostom bezjazy,

madžnûn at kraun at tathău at saün

luharam amu-amu dahr!

Ma yana zinsizi?

Gamchabatmy! Darsk ādōn darsk bameuz.

Voskresajet at maimo šargiz-duz,

chisoh ver gend ver sabur-sabur

theglathfalasar

bezjazy munay! Dana! Gamchabatmy!

pinuccio sciola

10. Elegia per legare

per sciogliere dall’odio

ma legare, legare alla pietra vivente

elegia per ricordare

e legare memoria con l’andare

sogno con l’intessere

elegia d’allegrezza

(non vorrebbe toni mesti Maria del legare)

elegia del respirare

con le mani il fare

con la mente l’andare

nodo a nodo nel filo non interrotto

camini del cuocere

e cammini del léggere

elegia per legare la mente alla montagna.

11. Un velo di pietra, veste dispiegata come vela o riparo (la Madonna del Parto di Monterchi?), due mani, forse, o due seni appena accennati e Costantino Nivola sguardo mediterraneo (le Veneri paleolitiche? i cantori cicladici?)

costantino nivola 2

12. La mente raccoglie il tempo, ne intesse sulla parete le trame. Spesso Maria Lai dipinge parole sulla parete o su listarelle di legno, ella ama le parole della poesia. Ed era atto naturale dipingere o incidere parole sul muro: basta entrare in una moschea, osservare i basamenti degli edifici a Delfi. Nelle nostre città disumanate le parole sui muri si trovano nelle insegne commerciali o nei cartelli pubblicitari; forse nei graffiti è dato sorprendere, talvolta, la bellezza libertaria della parola scritta sul muro. Nell’arte di Maria la parola sta alla pari con la pietra il legno il metallo e il filo. Il grande telaio sospeso sulla fontana che canta di Nivola dentro il lavatoio di Ulassai usa anche il suono come materiale, cosicché l’arte esalta i materiali per costruire, la parola e il suono. Poi si ferma a riflettere.

13. Tra ruralità e metropolitanità, tra archetipico e digitale si dispiega quest’arte che traghetta il passato traverso il presente nel futuro.

14. Nei paesi d’Italia s’intesse

luce con pietra

pittura con poesia

paesi lavàti nel tempo

Maria Lai mente dolcissima

tesse intesse libri e fili di refe

nell’angolo assolato

tra Matrice e pozzo

benefiche streghe

necessarie streghe

dentro la tradìta modernità

Assunta Finiguerra

che danza amore

ed offesa d’amore

nel suo canto

così antico così ficcato

dentro il nostro noi

Sarà per ascoltare

e sarà per ritrovarci comunità

se andremo nell’angolo

di luna e latte

tra Matrice e pozzo

a bere

a conversare

a bere la conversazione

a conversare mentre tessiamo

intessiamo

parole e sguardi

fili di refe e carta

scalpello sulla pietra

affacciata sulla porta di casa

Assunta ci porge un bicchiere

d’acqua di pozzo

seduta su un’antica sedia

impagliata

Maria ci spezza un pane

con le mani

ruvide e dolci

sotto il lastricato della piazza

gli antichi pesci adagiàti

nella sabbia

incomparabilmente

più vetusta di Gerico.

15. Provo a portare nella mia lingua la voce di Paul Celan; essa dice di pietre-menhir allineate nella terra bretone, cosicché dal mare del Nord e dall’Atlantico fino nel Mediterraneo in catene d’eco risuona la sapienza del lavorare la pietra, innalzarla verso il cielo, riaffermare la chiarità della parola d’amore, della parola nell’amore:

LE LUMINOSE

PIETRE attraversano l’aria, le bianco-

chiare, le portatrici

di luce.

Non vogliono

discendere, né precipitare,

né colpire. Esse vanno

sù,

come le piccole

rose selvatiche, s’aprono così,

ti si librano

incontro, tu mia Silenziosa,

tu mia Vera – :

ti vedo, tu le raccogli

con queste mie nuove, con queste mie mani

d’ognuno, tu le poni

nella chiarità ritrovata che nessuno

deve piangere o nominare.

16. Ancora per Maria Lai, a mo’ di congedo:

Questa piccola donna timida

che s’avvia alla montagna

e lo scialle dell’antenata sulle spalle

trattenuto in gola dalle dita di sensitiva

questa minuscola viaggiatrice del silenzio

capinera dalle piume di vento

fatta oraun nome disciolto nelle sue opere

e un soffio levitante per i semi del pianoro

questa pellegrina minuta e tenace

antico volto materiato di tempo

e acuto sguardo

tessitrice di fili che illuminano le dita.

Per un’amicizia

capra

Racconterò spesso della Terra d’Otranto da qui, da Via Lepsius, dove il Mediterraneo respira nella sua ampiezza spaziale e temporale. E dedico questo post al mio amico fraterno Pasquale Fracasso, artista riservatissimo e discreto e a sua moglie Silvia, alla loro splendida bambina Anna.

Pasquale proviene da un antico paese del Capo di Leuca, Alessàno, che deve il suo nome all’imperatore bizantino Alessio Comneno, tra l’altro indirettamente presente in una delle poesie cosiddette “storiche” di Kavafis (Anna Comnena); l’anima di Alessano, così come quella di tanti paesi salentini, è greco-medievale, materiata di vicoli lastricati di pietre piatte, larghe e lucidissime, di case a corte e di balconi: i paesi generavano se stessi in forma di ventre materno, sia per proteggersi da eventuali assalti militari, sia, soprattutto se sorgevano sul mare o nei suoi pressi, dai venti e dalle intemperie, ivi compreso il caldo canicolare che, da giugno in poi, vi imperversa.

Posseggo più di un dono fattomi da Paquale: le pietre, ad esempio. La pietra è stata spesso argomento di conversazione per noi: siamo nati entrambi in famiglie contadine le cui case erano costruite di tenero tufo imbiancato a calce ed abbiamo passato le nostre estati in campagna – la campagna salentina trabocca di pietra bianca, è il risultato di una plurisecolare faticosissima opera di sbancamento manuale del terreno per poter conquistare conche di terra rossa entro cui impiantare olivi o vigne o su cui coltivare il tabacco, in questo affine alla Liguria, tra l’altro; con quelle pietre di riporto furono costruiti i muretti a secco e le pajàre, esse pure edifici di pietre assemblate a secco entro cui ricoverare gli attrezzi o se stessi in caso di maltempo, spesso abitazioni in cui dormire nelle lunghe, torride estati di lavoro. E proprio mentre scrivevo queste pagine con la memoria riandavo alla voce di Fiammetta Giugni che canta la pietra e i muri a secco della sua Valtellina, la civiltà di un paesaggio dove l’uomo, con umiltà, sapeva incontrare la Terra ed assecondarne le leggi.

Pasquale cerca le pietre, le lavora fino a raggiungerne l’anima luminosa, lavora a sottrarre – quando sceglie e comincia non può prevedere il risultato cui sarà giunto. Le pietre che mi ha donato ricordano le ossa levigatissime di animali preistorici e le curvature dello spazio-tempo; a rigirarle tra le mani si vede la luce lampeggiare sulla loro superficie che, lo ricordo, è rimasta celata per millenni. Ci sono pietre nere che provengono dal Capo di Leuca e sono antichissima lava condensata, ché là sotto giace un vulcano spento e ce ne sono di quelle raccolte nei campi della Lombardia e del Salento, quindi memori del lavoro contadino (questo mi fa ricordare che qualche tempo addietro Pasquale aveva montato sul pavimento dello scantinato nella casa dei genitori le lame da rottamare di vecchi aratri: anche in questo caso sembrava di contemplare la colonna vertebrale di un animale preistorico, ma, soprattutto, a me sembrava di avere innanzi l’immagine della colonna vertebrale piegata e sfruttata delle migliaia di contadini della nostra terra, invecchiati precocemente per la fatica del lavoro).

Le pietre del mio amico posseggono un’anima pitagorica, mi piace immaginare, perché sono così armoniose e sostanziate di una geometria morbida ed elegante che ama contemporaneamente il triangolo e la curva. Talvolta mi sembrano astronavi capaci di varcare proprio la curvatura dello spaziotempo, talatra citazioni essenziali della scultura cicladica. Ha ragione Michelangelo Zizzi quando afferma che una delle radici della cultura pugliese è pitagorico-mediterranea, ancora oggi, nell’era cosiddetta digitale. E una delle pietre di Pasquale è un sottilissimo velo che si avvolge, pur rimanendo dischiuso, attorno allo spazio, un’altra conserva onde come di luce-acqua rappresesi per sempre.

 pietra a pietre b

pietre c

Con una tecnica tutta sua che trasforma piccoli cartoncini in lastre reagenti alla luce, Pasquale ha ideato la serie Segnare l’invisibile. È come se le vernici azzurre, verdi, bianche, porpora, gialle lasciate colare sulla superficie cercassero di rendere visibili tracce del muoversi perpetuo della luce e del pulviscolo atmosferico. È una tecnica che alla mia mente richiama il tracciamento delle particelle sub-atomiche: se ne elaborano tracciati e campi d’azione, ma (Heisenberg docet) mai riusciamo ad individuare in modo certo e definitivo la particella stessa che sembra consistere piuttosto del suo moto e degli effetti del moto stesso (lucreziana intuizione della struttura del nostro universo e salutare: abolendo il principio dell’assolutezza dei fenomeni, intuendone il loro costante divenire si diventa forse più inclini a cercare e ad accettare le connessioni e la pluralità delle posizioni, delle prospettive).

Credo poi che il mare, l’eterno mare delle nostre eterne estati infantili e giovanili, irrompa in queste lastre di leggerissimo cartoncino, suggerendo di sé l’ondeggiare di acqua e di luce contro il fondale. Si potrebbe benissimo essere seduti in una barca e guardare la luce che attraversa l’acqua marina: segnare l’invisibile è il tentativo di vedere ciò che forma non ha né vuole avere, la cui paradossale forma (tutta mentale e visionaria) è proprio il suo non avere alcuna forma cristallizzata.

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Anche la luce è tema ricorrente per noi; la nostra, come quella di Carmine Abate, è “terra tra i due mari”, cosicché la luce ha un suo ciclo intensificato e riflesso dal doppio specchio dello Jonio e dell’Adriatico. Segnare l’invisibile è, ovviamente, un’utopia: il tentativo è quello di intuire l’invisibile, di supporlo – è probabile infatti che seguiamo tracce, simulacri spesso anche ingannevoli, fantasmi.

Scrivevo poco fa della pietra tenerissima di cui sono fatti i nostri paesi: è di pietra leccese questo vaso da lui lavorato al tornio cui il mio amico ha poi aggiunto una fascia di ceramica colorata con tecnica affine a quella del segnare l’invisibile. L’accostamento di materiali diversi (ha creato sculture di pietra e metallo da sospendere alla parete, ad esempio) è una sua peculiarità; ricordo di avergli visto in casa, anni fa, un ramo di flessibile nocciolo ch’egli aveva aperto per gran parte della sua lunghezza inserendovi una bottiglia di vetro; il ramo era stato richiuso con alcuni giri di corda. Mi era piaciuto quell’accostamento tra la forma naturale e flessuosa del ramo e la luce-aria contenuta dal vetro, materiale che accoglie in sé la naturalezza dei minerali che lo sostanziano e l’artificiosità del lavoro umano che li modellano; era come se la linfa che dalla terra sale nei rami si fosse fatta una bottiglia disposta ad accogliere e trasmettere messaggi. Non sarà un caso se amo smisuratamente gli alberi sui quali fioriscono pietre di Giuseppe Penone.

Altro nostro argomento di conversazione è la fotografia: grazie al mio amico ho scoperto Giacomelli e Ghirri, preziosissime fonti d’ispirazione per la mia scrittura. La foto di grande formato della capra sugli scogli di Leuca è uno dei doni che Pasquale mi ha fatto all’inizio della nostra amicizia; meravigliosa resta per me questa capra che curiosa guarda il fotografo, pur avendo innanzi a sé l’illimitatezza del mare di Leuca; sul retro c’è, scritto a mano, il titolo della foto: Tragìa, l’isola delle capre. All’origine del mio Taccuino di Terra d’Otranto c’è anche il mio amico con le sue creazioni e ci sono i nostri conversari attorno ai temi che il Taccuino stesso sviluppa.

Per esempio il legame tra la Terra d’Otranto e la Grecia: paesaggio, tradizioni, prestiti linguistici, il griko stesso. Proprio in una chiesa della Grecìa, luogo dove la nostra grecità e la nostra latinità si armonizzano da secoli senza confliggere, Pasquale ha scattato la foto di questo pannello in pietra intagliata:

 grecìa

La Grecia riverbera ancora, intensa, dal di là del Canale d’Otranto e dal pozzo del tempo fino a noi. Quale dono per il mio amico da qui, da Via Lepsius, ho voluto tradurre René Char e questa riflessione sulla Grecia resistente (il testo venne scritto durante la Seconda Guerra mondiale da un resistente quale omaggio ad un popolo resistente ed appartiene alla raccolta-capolavoro Fureur et mystère) ch’è anche meditazione sulla Grecia eterna e sottolineo che l’arte di Pasquale si nutre di letture suggestive, che sono spesso nostre letture comuni: sempre lui mi ha fatto conoscere i libri di Antonio Prete ed uno me l’ha regalato, quel bellissimo Prosodia della natura nel quale tanto posto c’è per la poesia inarrivabile di Char, e poi c’è Jabès ed ultimamente a lungo parlavamo, entrambi ammirati, di La vita dei dettagli di Antonella Anedda, densissimo libro vasto e ricco, dal quale raccogliere a piene mani.

Ma ecco come ho provato a traghettare l’altissimo testo di Char in italiano:

INNO A BASSA VOCE

 L’Ellade è la riva dispiegata d’un mare geniale da dove si slanciarono incontro all’aurora il soffio della conoscenza ed il magnetismo dell’intelligenza, insufflando eguale fertilità in poteri che parvero perpetui; più in là essa è un mappamondo di singolari montagne: una catena di vulcani sorride alla magia degli eroi, alla tenerezza serpentina delle dee, guida il volo nuziale dell’uomo, libero infine di riconoscersi e di morire uccello; è la risposta a tutto, anche all’usura della nascita, anche alle svolte del labirinto. Ma di questa terra massiccia fatta del diamante della luce e della neve, di questa terra che non imputridisce sotto i piedi del suo popolo vittorioso sulla morte eppure mortale per evidente purezza, una ragione straniera tenta di punire la perfezione, crede di occultarne il mormorio delle spighe.

O Grecia, specchio e corpo tre volte martire, immaginarti è ricostituirti. I tuoi guaritori appartengono al tuo popolo e la tua salute è nel tuo diritto. Il tuo sangue incalcolabile io lo chiamo il solo vivente per il quale la libertà ha smesso di essere malata, che mi rompe la bocca, lui dal silenzio ed io dal grido.

Taccuino di Terra d’Otranto 1

Nel numero di settembre-ottobre del 2001 L’immaginazione di Piero Manni e Anna Grazia D’Oria pubblicava la prima parte del mio Taccuino di Terra d’Otranto; ne ripropongo qui i testi, cui faranno seguito le altre quattro parti (il mare, l’albero, la luce, nel pozzo delle visioni).

L’olivo segna la soglia, l’entratura, l’incominciamento. Un antichissimo recinto di muri a secco per le capre. La terra rossa. Sterpi adusti dalla Canicola.

Il labirinto non abbisogna di ciclopiche opre murarie. Basta la mente.  Leggi il seguito di questo post »

Da questo medioevo

Non riesco e non voglio dimenticare quello che è accaduto il 3 ottobre nelle acque di Lampedusa; da queste pagine che sono anche uno sguardo sul Mediterraneo non posso non ripetermi che questo straordinario mare è tomba per migliaia di migranti; ripenso spesso alla giovane donna che i sommozzatori hanno ritrovato nel ventre del barcone ancora legata al suo bambino dal cordone ombelicale: aveva cercato per sé e per lui una speranza, si era decisa ad affrontare un viaggio ed una traversata infami ed umilianti che noi Europei non riusciamo nemmeno ad immaginare, dimentichi delle emigrazioni massicce dei nostri nonni e bisnonni, dimentichi dei milioni di profughi provocati dalle guerre che abbiamo scatenato sul nostro continente e dalle guerre attuali in giro per il pianeta cui, direttamente o indirettamente, partecipiamo. Ce ne stiamo rinchiusi nella nostra fortezza da medioevo tecnologizzato.

Per ricordare quella giovane mamma e il suo bambino, e con loro tutti i migranti morti in mare, ascoltando il canto commosso di Eleni Karaindrou e di Maria Farantouri, mi rivolgo alla voce di un antico, Simonide di Ceo, del quale ho provato a tradurre in maniera molto libera il lamento che Danae, rinchiusa nell’arca assieme al piccolissimo Perseo, sussurra in preda al terrore per le onde che minacciano di inghiottirla assieme al figlio.

Quando dentro l’arca

di magistrale fattura

il vento violento

e le onde irose del mare

la gettarono nel

terrore

non senza lacrime il volto,

ella, carezzando il caro Perseo,

sussurrava: “O figlio,

quale angoscia mi preme!

Ma tu ignaro dormi

il placido sonno

nel crudele legno

sigillato con chiodi di bronzo,

tu disteso nella notte senza luce

e nella tenebra opaca.

Sul tuo capo non odi

l’onda profonda trapassare

né l’urlìo del vento,

tu che giaci, bello il viso,

nella veste di porpora.

Se tu concepissi paura di ciò che

orribile

ci aspetta

porgeresti il piccolo orecchio

alle mie parole.

Ma io dico dormi, figlio,

e dorma il mare,

dorma il male immane:

un mutamento appaia,

o Zeus, mandato da te;

e se temeraria è la mia preghiera

e contro la tua giustizia,

perdonami”.

L’antico poeta canta di un’arca di splendida fattura: pensiamo invece ai barconi stracolmi e malsicuri con cui queste persone (non clandestini: persone, ognuna con la sua storia, i suoi affetti, i suoi pensieri, le sue speranze) giungono in prossimità delle coste europee. Danae ed il suo piccolo si salvarono ed anche loro erano stati scacciati dalla propria terra senza che avessero scelto una tale sorte: da anni moltissimi migranti annegano invece nelle acque delle nostre vacanze.

Aggiungo la voce di Annamaria Ferramosca; figlia di una terra tra due mari, terra d’approdi e d’emigrazioni (il Salento), la poetessa canta con la limpidezza che le è propria il sentimento di fraternità e di comune appartenenza all’inascoltata patria-màtria mediterranea.

Mediterraneo

Marina Serra. Assalto
di un’alba nitida, capace
di spingere i monti d’Albania
fin qui, sotto il balcone
Posso toccarli quasi
fianchi verdi e radici
intrecciate alle mie
Da costa a costa
scintillano di senso le correnti
lu rusciu de lu mare
canta in mediterraneo

Potevo essere nata su quei monti
e mia madre avermi lavata nel canale d’Otranto
nutrita con zuppa d’alghe e filastrocche di Lushnje
potevo trovarmi in quella barca
così traboccante di speranza
che i fianchi non reggevano al rimorso

Mi trovo in quella barca, sono
albanese, pure
messapicagrecaegizialibica
il mio sangue è incontro d’onde
paziente e antico
(continua a mescolare
questo inascoltato mare)”.