Taccuino di Terra d’Otranto 1

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

Nel numero di settembre-ottobre del 2001 L’immaginazione di Piero Manni e Anna Grazia D’Oria pubblicava la prima parte del mio Taccuino di Terra d’Otranto; ne ripropongo qui i testi, cui faranno seguito le altre quattro parti (il mare, l’albero, la luce, nel pozzo delle visioni).

L’olivo segna la soglia, l’entratura, l’incominciamento. Un antichissimo recinto di muri a secco per le capre. La terra rossa. Sterpi adusti dalla Canicola.

Il labirinto non abbisogna di ciclopiche opre murarie. Basta la mente. 

La pietra.

 Ieu suntu la pethra (io sono la pietra) e sono anche la luce e il tempo.

Eme ‘o lisàri1 (io sono la pietra) e sono anche l’olivo e il mare.

Eme e placa (io sono la pietra) e sono anche la parola e la scrittura.

Suntu pethra, mare, àrvulu, tempu e cuntu 2”.

 Eccola che viene, è la grande Estate, è pietra accesa di caldo e d’inquietudine, è minaccia, è danza di veleno e di pozzo prosciugato, è la Canicola che sogna i suoi figli, è la Canicola luce nera, genera figli ossessi di sogni, i sogni diventano pietra, diventano nella pietra labirinto: pozzo, oscurità, inquietudine e caldo alito di fuoco, in spirale che s’innalza fino al cielo a generare la stella della Canicola.

E’ la grande Estate che viene, che ritorna, che pazzìa, è spirale di fuoco, inquietudine, oscurità e pozzo che ridiscende avventandosi sulla terra fatta polvere, sull’ossessione del sogno, è la stella della Canicola – essa ritorna in folate di fuoco, in serpenti velenosi d’inquietudine, figliamadre del Chaos, matrice delle visioni, radice delle ossessioni.

Nella penisola salentina, detta anche tragìa, il dio del vino e dell’ebbrezza, in forma di capro, guizzava tra pietrame e olivi, voglioso di udire storie.

E’ atto d’inimmaginabile bravura riuscire ad incantare il dio dell’ebbrezza con storie, fascinandolo con canti, avvolgendolo nella rete cangiante dei sogni.

La pietra e il sogno posseggono, nella Terra d’Otranto, il medesimo svolgimento: strato su strato, in accumulo, da ere troppo lontane per poter essere accolte nella memoria scritta dei Salentini, ma nella loro memoria sognante e visionaria strato su strato il sogno e la pietra si sedimentano.

 Venti fossili, segregati nel tufo dei muri, ricordano un mondo di prima dell’uomo.

L’acqua, dono raro e prezioso, quando cade dal cielo filtra nella permeabile pietra salentina, scompare dalla superficie e percorre gli invisibili sentieri all’ingiù nella roccia, fino a caverneserbatoio dove la siccità non ha dimora.

La pietra, madre amara e difficile, accoglie l’acqua e la mente, le segrega e le libera, le trasforma in olivi nodosi in resistenza e sonori ai passaggi del vento, in vigne tenaci di succhi vitali e vaste di grappoli promessi e attesi.

La pietra, che in epoche remote era stata luce e vento, chiudeva in forma di pareti le escavazioni di Badisco

: quella pietralabirinto divenne, per le creature che vi andarono ad abitare, vita e tormento, casa e sepolcro, viaggio e pensiero –

: sulle pareti segni apotropaici, forse narrativi.

Nella penisola tragìa, dove gli dèi si sentono in esilio rivelandosi ben di rado, antichissimi scalpellatori discendono nelle cave di pietra per riportarne blocchi che, uno sull’altro, costruiranno case da imbiancare a calce, nelle quali generazioni di Salentini staranno a sognare cieli di altri mondi.

Occorre la prensile e tenace qualità dello zoccolo di capra per muoversi nel bianco pietrame salentino, nel paesaggio incerto dei sogni, delle visioni.

Hanno rinvenuto, nelle terre rosse di Paràbita, pietre in forma di dea feconda, grandi seni e fianchi larghi, effigi di dea intuibile per rari bagliori promananti dalla sua lontananza – Musa-Sirena potremmo anche dirla, ossessione della mente.

A quella dea della pietra, alla sua vulva fonda d’acque perigliose ma fascinanti, naviganti dell’esistere tributavano il proprio saluto.

Usque ad silentium poemata sua traxit

(non logorream in semet glomeratam istam)

: omne iterum (tuttu ‘n’àuthra fiata) legendum

(s’ha leggìre) scribendumque est (e s’ha scrivìre).

Petra exercitia nostra vincit.

 Ovvero:

 Fino al silenzio (la pietra) portò i suoi poemi

(non questo scorrere confuso di parole aggrovigliate in se stesse)

: tutto dev’essere di nuovo letto e di nuovo scritto.

La pietra supera i nostri esercizi (intellettuali).

 Acqua di polvere, rossa, nelle fessurazioni del calcare, bianco.

(Il pensiero vide la pietra, la abitò, la amò. Vide che essa era un passaggio, che dentro la pietra si può entrare e viaggiare. Il pensiero imparò ad abitare la pietra, la scoperse viva e vivificante. Cominciò il canto,  lo chiamarono in una lingua antica e bellissima, perché , il capro, è animale consacrato agli dèi della siccità e dell’assenza, del racconto e della vigna, del desiderio e dell’attesa).

Poi vennero lo scalpello ed il pennello: la pietra fu scavata, abitata, cavata, dipinta, scolpita. Scoprirono che nella pietra c’è la luce, il tempo, la memoria, il mare.

Un paesaggio di terra rossa, sparsi olivi,

pietra bianca affiorante.

Linee euclidee di masseria fortificata.

Il pozzo dei serpenti.

 Linee rette, chiare e distinte: – masserie per il lavoro contadino.

Una città di morbida pietra emersa fuori dell’Era barocca.

ATLANTE DI TERRA D’OTRANTO chiameremmo la collazione di carte fantasigrafiche che descrivono una delle molte, possibili Hydruntinarum Terrarum.

Nei labirinti dell’urbanistica, dei sogni, del tempo, degli armadi, delle biblioteche, dei cassetti in quella città di morbido tufo è disperso l’ATLANTE. – Qualche traccia ne affiorerà anche in questo libro, forse.

Una città di morbida pietra, dunque, emersa, fenomeno tellurico o rigurgito della storia, fuori dell’Era barocca, accampata in mezzo ad un’arida pianura (terra rossa e pietra bianca affiorante. Sparsi olivi e luce).

Tenero tufo d’oro

e cupole dell’Era

barocca scantinati

di cartapestai antichi

come il Sole, il primo

estrafalarie sognatrici maghe

erboriste immaginifiche notti

da escavare come cave di pietra

cieli del Seicento e delle visioni

luce violenta per troppo di sguardi

stanze per libri di letteratura

fantastica teologici specchi

neri segnali e lune

dedaliche biforcazioni incognite

Lecce inquieta di libri inquieti

angeli insonni dalle ali di tufo

orologi a rote o mossi da automi

scalpellatori abili come orefici

cantatrici memoria

del prodigio ippogrifi

pitagorici dell’Era lunare

Santi naviganti in groppa a màchinae

volanti dentro sogni di filosofi

naturalisti e materialisti.

 . . . . . la pietra, dea delle cosmogonie, generava mondi . . . . .

* * * * *

Povertà di una terra, povertà della pietra, povertà della materia.

Bianco di calce nei paesi di Puglia, bianco delle petraie, bianco del cielo ossessionato da troppa luce.

Altezza delle stelle nella notte, altezza dei pozzi dentro la terra, altezza del calore d’estate sulla campagna.

Essenziale la terra, essenziale la pietra, essenziale la vita nei paesi di Puglia.

Si cammina con l’emozione di essere vivi che pulsa in gola, in gola pulsa l’emozione perché si sa che qualcosa, tra poco, accadrà, accadrà la scoperta o accadrà il dolore, il dolore accade perché ciò che si ama si allontana, si perde, dilegua, non dilegua l’attesa, l’attesa è batticuore, è batticuore l’attesa della scoperta, è scoperta l’amore e la luna e i colori, i colori sono e con i colori le forme sono – un uomo occhiavididiguardare guarda le forme e i colori, crea le forme e vorrebbe essere Mago come i Maghi delle fiabe e come i Magi della Caldea, o come Gregorio monaco ed erborista (viveva nella gravina assieme alla figlia bellissima e conosceva ogni recondito segreto delle piante della macchia mediterranea).

 Pensa il blu, per esempio.

Possedere tutto il blu del cielo e tutto il blu del mare, soprattutto saperlo moltiplicare. Scendeva, reggendosi a delle corde, lungo la bianca scogliera di Polignano e ne cavava un blocco di pietra. Stava sulla spiaggia di scogli di Leuca, dentro una delle cabine di mattoni che, agli inizi del XX secolo, hanno costruito per farci arrivare il mare affinché le signore potessero prendere il bagno non viste. Nella cabina saliva il mare, gli raggiungeva i fianchi, scavava nel blocco di pietra di Polignano. Poi prendeva con le dita il mare, lo metteva nel suo scavo che diventava blu, fondo blu del sogno, blu come è blu l’amore.

Andava con la sua pietra dal cuore blu sotto il braccio, se ne andava lungo l’Adriatico e vedeva le lunghe petroliere, i pescherecci panciuti, la luna che sorge dai pozzi di Costantinopoli e sale alta nel cielo delle Puglie, bottiglie galleggianti nel mare piene del blu di Morandi e dell’azzurro di Cosmé Tura: prendeva quegli oggetti e li metteva nel cuore blu della sua pietra bianca.

Se ne andava sul suo monopattino per la Statale delle Murge. Nel cuore blu della bianca pietra metteva il trenino elettrico, ossami di arcaici animali, i suoi occhi, Les fleurs du mal, il desiderio rosso di creare un’infinità di universi, fogli su cui schizzava ricci di mare alici lutrini polpi pescispada ricciole scampi triglie ( …) Sul monopattino se ne andava, la pietra bianca dal cuore blu, il rosso desiderio di creare universi all’infinito.

 Pensa la spirale, per esempio.

E’ il moto circolare che si alza o che si abbassa, è il ritornare ciclico delle stagioni, (ma la nuova estate non è l’estate passata), è l’attorcersi dell’olivo al vento del mare, della colonna sugli altari barocchi, della passione d’amore che s’avvolge s’avvolge in circoli di fuoco e che deve bruciare divampare bruciare.

La spirale è il moto in giù del pozzo verso l’acqua, della trivella che cerca la falda viva, del secchio appeso alla corda gettato nella cisterna ad attingere acqua.

A spirale discende il pensiero avvitandosi nelle densità della materia, nelle oscurità della materia, nelle opacità della materia, nell’antico labirinto.

A spirale discende il pensiero.

 Pensa il bianco, per esempio.

Quando seppe il suo destino di filosofo delle forme e dei colori prese una pentolaccia sbreccata e vi bollì la calce, la bianca calceluce di Puglia. Si svitò la mano e la ripose in un cassetto. Con la calce aveva fatto una mano nuova. Se la avvitò al posto della vecchia. Adesso andava in giro con la mano di calcebianca e con quella raccattava di tutto: vecchi aerei rugginosi abbandonati ai margini dei campi d’aviazione, remi di legno dipinti a fasce gialle e rosse, acquasantiere di marmo scheggiato, pompe da spalla per il solfato di rame che hanno un lungo becco orientabile, enormi viti verticali dei torchi per la spremitura delle olive, alberimotore di vecchi camion, poltrone da barbiere, macchine da caffé a leve, bacinelle di rame o zinco ( . . . . . )

Se ne andò ad abitare sul limite di un deposito all’aperto di treni in demolizione, di aerei che non avrebbero volato mai più, di camion fermi ormai da anni.

Fu lì, in quella lontanissima provincia della vecchia Europa colonialista, che la sua mano-di-calce-viva creò la cosa meno essenziale ed economicamente meno produttiva, manchevole d’ogni profitto e parassita: arte.

Pensa il cerchio, per esempio.

E’ la giostra nelle feste di paese, è il circuito dei binari del trenino elettrico, è la magica regione di terra dentro cui l’alchimista traccia i simboli del cosmo. Giro, girotondo, quant’è bello il mondo, io non mi nascondo, terra, terrantìca, dura è la fatica, luna, lunamìca, fa’ che te lo dica, scendi, scendi in tondo, bacia, bacia il mondo, vieni, vieni batticuore, dolce batticuor’amore, dolce dolore d’amore, antica sapienz’amore!

 . . . . . un vento colmo di aspettazione e di sabbia recava notizie dal mare . . . . .

 

1 Si tratta di parole in grico, come viene chiamato il dialetto greco parlato in alcuni paesi della Terra d’Otranto.

2 In salentino: Sono pietra, mare, tempo, albero e racconto.

L’ultima parte vuol essere un omaggio a Pino Pascali (1935 – 1968).