Un poema di argilla cardiaca (attraversando l’ABSE di Anna Maria Farabbi)

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

Io credo nella poesia.

E credo che la poesia non ha vinti né vincitori né graduatorie.

Io credo che la sua potenza sia disarmante (…..) Disarmante, appunto, perché scintilla nella sua nudità. (…..)

Io credo che le prefazioni non siano necessarie alla poesia.

A meno che non si radichino come torcia illuminante, innestandosi all’opera con la propria sostanza luminosa.

Io credo che la poesia abbia un petto splendido in grado di cantare da solo, intensamente, intimamente, verso chi è disposto all’ascolto senza distrazioni, corpo a corpo (Anna Maria Farabbi, Abse, Il Ponte del Sale, Rovigo, 2013).

Pur non essendo questa una prefazione, ma un attraversamento del libro di Anna Maria Farabbi che a sua volta è un attraversamento dell’abse (il nulla) e di un paese-mondo che la poetessa nell’abse ha incontrato, mi auguro di essere capace di ascolto concentrato, mi auguro che il mio corpomente sia capace di ascoltare, capire ed essere torcia luminosa. Certamente s’incendia il corpomente nel leggere e nel ripetersi ad alta voce le parole di questo libro (da tempo ho preso l’abitudine di ridirmi ad alta voce i versi che incontro, di provarne la suggestione ritmica, la necessaria e necessitata valenza sonora; ho imparato che se i versi non reggono alla lettura a voce alta è perché girano a vuoto, non sono necessari, si baloccano dentro un intellettualistico narcisismo senza bellezza). Conquista già la recisa affermazione iniziale: io credo nella poesia. Decisamente l’opposto di una linea poetica volta a restituire il parlato e la quotidianità considerata più banale, decisamente il contrario di una linea nutrita di scetticismo e forse di pragmatismo o ritenuto tale. Ma anche un’affermazione rischiosissima: il lettore si aspetta non solo di vedere comprovato un credo di tal fatta, ma anche di avere tra le mani un libro all’altezza di queste premesse.

Io credo nel credere.

Per credere faccio l’orto e il pane. E imparo ogni giorno a tacere lavorando, tessendo il tempo, accettandoloprosegue Farabbi. Da una riva mediterranea come questa di Via Lepsius non si può rimanere indifferenti a quel richiamarsi all’atto del tessere che, etimologicamente, è ben dentro il textum, il fare ed il risultato del fare che pertiene al canto più antico, al tessere che i rapsodi intraprendevano per cantare di Gilgamesh e di Achille e di Odisseo. Orto e pane sono poi un fare ed un tessere nella e della pazienza, nel e col tempo, nell’attesa e con l’attesa. Tutto quanto abbiamo perso, diventati clienti e frequentatori dell’ipermercato, abitanti metropolitani di spazi e tempi decisi da un’economia che ci possiede e che decide per noi.

Abito una casa sul fianco di un monte, ma anche una tenda e un tappeto.Sono stanziale, radicata negli strati minerali vegetali ignei e acquiferi dell’Appennino Umbro, e quasi in un foglio che si trasforma in polline; sono nomade per il mio andare, custodendo interiormente la matrioska. Ancora una volta Anna Maria Farabbi ribadisce il proprio status di poeta che per lei significa filiazione dalla terra e legame con la tradizione e, al contempo, nomadismo e sorellanza con gli elementi volatili come, in questo caso, il polline che vaga e feconda.

Siamo a pagina 10: Tereska, la bambina cresciuta nel campo di concentramento e fotografata da David Seymour nel 1948 in un centro psichiatrico polacco mentre sul nero della lavagna disegna la propria casa, ha una faccia che brucia e nevica nello stesso tempo, mi chiede di restituire il mio lusso, di essere onesta fino in fondo, di rispondere a voce alta del mio fare, del mio andare, della mia letteratura grassa che manca ancora di rispetto verso i poveri, i fulminati, le creature che con il proprio petto strappano il filo spinato, liberando i prigionieri. Quel che segue è una descrizione del cammino che si snoda tra la televisione “carnivora” e lingue radioattive che ogni cosa calcinano, tra teste umane che hanno terrore d’invecchiare e che hanno dimenticato “la gioia condivisa” così come la “cosa comune”: (…..) cammino tra le mascelle affamate dei governanti e il loro cervello autistico che ha perso il corpo e il popolo. Cammino tra chi scrive versi ignorando la poesia, mirando solo al riconoscimento. E davvero Anna Maria Farabbi non concede nulla al presenzialismo ad ogni costo, centellina i propri interventi coltivando la bellezza dell’amicizia e l’appassionata lettura dei testi altrui. Come in pochi altri casi c’è davvero qui una coincidenza totale tra ciò che si è e quello che si scrive e la scrittura è continuamente chiamata a rispondere di se stessa, a dar conto del proprio farsi, a scontare ogni eventuale momento di narcisismo o di vanità.

Creo i passi, respirando dai talloni, leggendo le impronte nella neve. (…..) Un piede dopo l’altro, sono qui, all’inizio del paese, davanti alla porta:

la porta senza porta (pag. 11).

Ora inizia l’attraversamento del paese (la prima porta, la bottega dell’acqua, l’osteria del buio rosso, la piazza, la scuola, la biblioteca, l’asilo, l’ospizio femminile, il cimitero) e leggendo (cioè attraversando) mi ricordo dei paesi aerei o scavati nel tempo, costruiti di pietra e di vento di René Char, penso alla sobria, nobile bellezza dei borghi di Castiglia come li canta Antonio Machado, rivado ai sondaggi di paesologia di Franco Arminio; ma anche l’attraversamento del Gobi nell’Anabase di Saint-John Perse o l’arrivo della madre in città in un racconto di Gianni Celati (Traversata delle pianure in Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano, 1985) mi s’affacciano alla mente: sono tutti testi che sondano il luogo da esplorare in quanto attraversamento della memoria personale e collettiva, discesa negli inferi della propria mente, geografia mobilissima e in continuo mutamento della propria interiorità.

Anna Maria Farabbi entra nella prima casa del villaggio (quella che fu abitata dalla sentinella e dalla sua famiglia) della quale è rimasta soltanto la porta piantata al suolo, il resto essendo stato sventrato e demolito dal tempo (pag. 12): Io sono una femmina che, chiedendo permesso saluto e accoglienza, entra in un paese sconosciuto con desiderio e rispetto. Un paese in mezzo all’abse. (…..) Passo la soglia richiudendo la porta dietro di me, cerimoniosamente. Sento la memoria e il presente di quel legnoche annuncia tutto il paese. // Mi volto. Vedo la faccia interna della porta: è una tavola di ciliegio, scritta minutamente. Mi avvicino per leggere. Penso che sia stata una mano a scriverla o l’erosione del vento o l’ustione incisoria della luce. Sfioro con un dito la scrittura: odora, emette suoni. E qui penso a Maria Lai, a quello stesso atteggiamento di religioso rispetto nei confronti della pietra, del legno, dell’acqua e delle opere umane del passato; rivedo i molti legni inscritti dalla piccola grande artista di Ulassai, ante di porte e di finestre, perché è vero: su di esse le nostre mani che quotidianamente le aprono e le richiudono, i passagi del vento e della pioggia, la luce scrivono un ininterrotto poema. E questa scrittura ha un odore (legno, vernice, acqua piovana, muschio, vita) e molti suoni.

Seguendo gli odori: nella bottega dell’acqua (il vecchio mulino): In un odore intenso di pane, qui vive la vecchia mugnaia che aggiusta orologi, crea meridiane, clessidre di acqua, insegna ai bambini la conta del tempo, vende, affitta balsamari e conchiglie. In una minuscola bottega nel quartiere a ridosso dell’Acropoli di Atene due anni fa ho visto un anziano orologiaio riparare con lenta, precisa pazienza le lancette dell’orologio di mia moglie, cosa che da tantissimo tempo non ho più visto accadere in Italia (lo racconto e lo associo al testo di Farabbi non per esprimere la vieta nostalgia per “il bel tempo semplice passato”, ma per dire la paziente cura che ancora oggi talvolta è possibile sorprendere anche all’interno del mordi e fuggi, dell’usa e getta in cui spesso è stata trasformata, ad esempio, la stessa Atene turistica). E in questo paese dentro l’abse ho incontrato una mugnaia che macina la farina, cuoce il pane e aggiusta orologi, imprevedibile associazione che trova la sua ragione nella pazienza che si apprende proprio dallo scorrere del tempo e la lingua italiana conosce la metafora dello scorrere che infatti si concretizza nell’immagine delle clessidre ad acqua e del mulino la cui ruota è mossa, presumibilmente, da un torrente. Ritorno a Ulassai, al lavatoio comunale nel cui interno uno dei grandi telai di Maria Lai è sospeso al soffitto e, sotto, scorre letteralmente cantando l’acqua della fontana sonora di Costantino Nivola: il paese nell’abse di Anna Maria Farabbi è anche ogni paese d’Italia dove la mente contemplante salva e protegge la bellezza che promana dalla tradizione?

Le pagine che seguono sono una sorta di diario che scandisce alcuni giorni fondamentali dell’anno; la poesia spesso immaginifica dell’autrice perugina imprime nella memoria immagini di notevole forza:

(…..) i piedi nudi di Nureyev

non lui     solo i suoi piedi      danzano luminosi (pag. 18);

io pesto e prego

lavorando la parola responsabile (pag. 20);

che io mi immerga ogni giorno

nella tua acqua amniotica (pag. 21).

Trovo straordinari quei piedi, isolati dal resto del corpo, che danzano luminosi; in una foto di Annie Leibovitz ho visto i piedi simili a pietre scolpite dagli elementi di Baryshnikov, poderosi nodi di tendini e dita; apprezzo che la parola poetica voglia e debba essere responsabile di se stessa; la maternità viene celebrata senza retorica ricordando l’immersione e il liquido amniotico, dipanando dunque il tema del’acqua.

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I piedi di Baryshnikov nella foto di Annie Leibovitz

Nell’osteria del buio rosso accade qualcosa di simile ad un atto di cannibalismo: i musicisti e l’oste divorano/cantano la poesia di Anna Maria Farabbi (in questo caso Larosaneltango), mentre per baratto la viaggiatrice s’ha otto coppe di vino: Immergo le mani dentro il vino poi lascio le mie impronte digitali sul quaderno: le mie firme rupestri (pag. 27). Abse è, direi, un libro che vuol superare la distinzione tra generi letterari: c’è la poesia che si scrive in versi, quella che si distende in unità metriche molto più ampie del verso della tradizione, c’è il passare in rassegna e il render conto di tutta la propria produzione poetica precedente, c’è il rendere visibili le ragioni e le strutture solitamente nascoste del libro (un po’, mi si perdoni il paragone forse singolare, come Piano e Rogers hanno fatto al Beaubourg, rendendo visibili le strutture abitualmente celate degli edifici: Abse si apre con la trama e la carovana di sale / preistoria del poema, chiudendosi con perché ho nominato abse questa opera, ma strutturandosi anche come un diario poetico ed esistenziale, con un genere quindi che mette a nudo gli abissi interiori e costituendosi pure come una carta topografica fatta di parole, suoni, immagini).  Solo dieci pani (LietoColle, Faloppio, 2009) si chiude con la riproduzione anastatica di un testo manoscritto sigillato da un’impronta digitale, forse simile all’impronta della mano aperta che i nostri antenati hanno lasciato nel buio delle grotte. Qui potrei allora giocare con l’espressione “era digitale”: se in tal modo s’intende il tempo presente fortemente improntato (appunto) dall’informatica e dal web, la poesia di Anna Maria Farabbi insiste da sempre sulla matericità dello scrivere, anche in termini di carta, matita, contatto del corpo col quaderno, traccia fisica dello scrivere, segno/impronta del dito, individuale ed irripetibile, fisicissimo nel suo incidersi e restare.

mi chiamo annamariafarabbi        vengo dalla terra

scrivo argilla e parlo aria         accendo il fuoco per cuocere

le parole e mangiarle con te (pag. 32);

il dichiarare il proprio nome (déclarer son nom direbbe Char) troverà un bilanciamento sul finire del libro quando l’autrice, percorrendo il cimitero del paese, scoprirà la lapide di un suo antenato e dirà: Pietro Farabbi due secoli fa è stato deposto e pianto qui. Sulla sua pietra abitano licheni. Pioggia e aria hanno divorato il suo nome. Non serve. Insegnano a me che non serve (pagg. 129 e 130) e nelle pagine tra l’osteria e la piazza si dispiega questo fare poesia che è anche cuocere il pane, sporcarsi (ed è un sacro sporcarsi, un battesimo)con la terra le mani, che è anche un fare l’amore con tutta la gioia fisica che lo determina e che ne deriva (ti entro in bocca mentre a occhi chiusi mi pensi / pane e corallo alla tua lingua – pag. 31; ci rovesciamo sul prato          rido / bagnata – pag. 34).

L’Africa permane in me, intensa e smisurata così come la poesia (pag. 35). Abse è un libro di spazi e di silenzi, di ritmi del respiro e di pronunce perfettamente cadenzate, per questo supera gli schemi della prosodia tradizionale e, dal punto di vista tipografico, ricorre talvolta a spaziature tra le parole più ampie rispetto all’uso, proprio perché Anna Maria Farabbi aveva bisogno di una partitura capace di indicare una traccia di questo dire, respirare, cantare. Rileggo più volte lo stesso testo, presto orecchio agli echi che permangono e, ancor di più, ai silenzi dentro il verso: c’è qualcosa di affine alla musica di Aarvo Pãrt e di Giya Kancheli, meditanti suoni, pregnanti silenzi, attese e balzi della voce a scendere (dentro la terra, dentro la memoria) e a salire; qualche volta mi sovviene il Canto della terra di Gustav Mahler o la concisa, abissale cadenza vuoi di Frédéric Chopin, vuoi di Anton Webern. Certamente anche lo spazio sonoro dell’eremo e il canto liturgico hanno la loro parte, non dimenticando, forse, la grande lezione degli Spazi metrici di Amelia Rosselli.

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Eduardo Chillida: Gravitación

L’arrivo in piazza, dopo aver attraversato un pezzo di paese ricordando l’Africa dove s’impara l’immensità e la compresenza di vita e morte, significa sbucare in uno spazio che comprende tutto il mondo e dar conto di sé al mondo: Sono pronta, com’è giusto, a rispondere: delle mie scelte, della mia poiesis, interiore e pubblica. E a correggermi. Anna Maria Farabbi mette l’orecchio a ventosa per terra e, nell’ascolto dei passi presenti e passati, dell’accumulo degli andirivieni, nella percezione anche acustica dell’identità stratificata dello spazio pubblico e comune avvia altri percorsi alla poesia. Agorà spazio aperto ed aggregante. In piazza convergono le voci di chi ha vissuto il terremoto dell’Aquila e di chi ha esperito la shoah a Mathausen, dei monaci tibetani che continuano a darsi fuoco per protesta contro il governo cinese e delle streghe condannate al rogo all’alba della modernità, di un barbone a Venezia e di un’anonima madonnara. Ricopio qui quest’ultimo testo: Che tutti gli abitanti del villaggio, tutti, si stendano qui, in piazza, uno accanto all’altro, ognuno con in petto il proprio io e il proprio dio.

Il corpo steso si ricongiunge alla madre. Organicamente – anonima madonnara, La Verna, 1542 (pag. 42). Periodicamente torno a sfogliare i Canti orfici, qualche volta mi abbandono alla suggestione della voce di Carmelo Bene che recita Dino Campana: La Verna è un luogo campaniano e, con Faenza, la Falterona, Marradi ovviamente, Genova, Bologna ci restituisce un itinerario traverso l’Appennino tosco-emiliano dove i borghi sono fatti di pietra a vista, i tetti di ardesia, muri e torri medievali sono spesso ancora intatti; vi vagavano attori e saltimbanchi, madonnari e madonnare, venditori di biancheria per il corredo, arrotini ed ombrellai (anche poeti forse pazzi, sicuramente assetati di libertà). Ecco: il paese nell’abse ha molto in comune con quei luoghi e con quei personaggi dell’Italia di Campana, ma (ed è questa ovviamente un’idea tutta mia, forse balzana e assai ridicola) anche con i borghi di Toscana che avrà attraversato Pinocchio, certamente il Pinocchio di Comencini, se ripenso a quelle sobrie piazze tra Municipio e Chiesa anch’esse tutte di sasso, vicoli in leggera salita, strette scalinate scavate nelle mura o tra torre e borgo che si vedono nel film e che raccontano una sobrietà di vita antica. Ma il paese nell’abse è, per me, anche Erto di Mauro Corona e Casarola di Attilio Bertolucci, Pieve di Soligo di Andrea Zanzotto e San Fele di Assunta Finiguerra, Asiago di Mario Rigoni Stern e Chiusaforte di Pierluigi Cappello, Serra di Lerici di Paolo Bertolani e Mineo di Giuseppe Bonaviri, tutti quei paesi-linguaggio, insomma, quei paesi-memoria dove la vita della gente, spesso dura e faticosa, possedeva nobiltà e valore, si guadagnava rispetto e considerazione, si esprimeva nei riti di una comunità e nelle architetture sobrie ed armoniose di chi non dimenticava il proprio legame con la terra. Sarà per questo che quella madonnara può, fin dal cuore del Cinquecento, imparentata forse con la genia antica delle streghe, invitare la gente a ritrovare e riconoscere la propria appartenenza alla terra. In quanto poeta Farabbi lega sempre in maniera indissolubile la propria femminilità alla scrittura e, per tramite della scrittura che è anche fatta per l’oralità (anzi, credo che ci sia una leggera preferenza per l’aspetto orale della poesia) si riconosce appartenente ad un’ininterrotta catena di generazioni di donne che conservano e perpetuano la coscienza dell’indissolubile legame con la terra e con la natura, con la generazione e la nascita.

Altro centro nevralgico del paese è la scuola: morti per il crollo della loro scuola costruita con la sabbia del mare i cinquanta bambini abruzzesi nel 2009, seduti per terra e vestiti di stracci i bambini pakistani di Dana, raccolti attorno ad una dolce signora i bambini nel reparto di lunga degenza di un ospedale. Trovo scritto a pag. 43 e poi 44 e raccolgo, sottolineo con la matita: vado a scuola anche dagli analfabeti quando la loro cultura orale trasmette sapienza. (…..) La mia maestra elementale mi guarda dall’angolo del mio studio interiore: dice non in lingua italiana non in dialetto ma nel non verbale. Dice animale vegetale minerale e io rumino. È una maestra che insegna gli elementi, ciò ch’è essenziale ed irrinunciabile, ciò che costituisce la vita e il suo essere maestra elementale rima con animale, vegetale, minerale. Ed è nelle pagine successive che il dialetto umbro e la trasposizione in italiano si snodano a specchio l’uno dell’altro, nobile ed arcaico il suono chiaro dell’umbro, la stessa lingua dell’Assisiate e di Jacopone, anche se i temi e i modi di Farabbi sono forse più contigui al Cantico delle creature. E si coglie forse un paradosso: Abse appare anche come un libro-partitura, come traccia che volentieri annullerebbe se stessa in favore di una versione orale, sentita come più vera e sincera: Penso alla cultura orale delle campane, alle creature che si raccolgono attorno a un batocchio e ascoltano. A coloro che, per comunicare, accendono falò in cima ai colli, ai monti, ai fari di terra tra le dune del deserto. Di popolo in popolo, di paese in paese (pag. 138, pressoché in conclusione del libro). Non è la negazione della cultura scritta, ma la consapevolezza dell’impoverimento di quest’ultima senza l’antica, vasta cultura orale che aveva nelle montagne, nelle campagne e lungo le rotte marittime i propri spazi di diffusione; è il riconoscimento dell’insufficienza del segno scritto, del suo bisogno di essere detto da una voce, completato da gesti e da altri segni; è il riferirsi alla poesia come performance orale e partecipata dai suoi ascoltatori (Alceo, Saffo non componevano “a tavolino”, Alcmane era voce dell’intera comunità).

Continuo a copiare, uso il computer, ma nell’immaginazione lo faccio con una penna in un quaderno di docile carta: L’abise lguaderno e la lengua nme (…..) me scrive lsilentsio (la matita il quaderno e la lingua in me (…..) mi scrive il silenzio – pag. 46); la mi lengua sciucca a lcanto bucco / vol gì a scola (la mia lingua asciutta ha il canto vuoto / vuole andare a scuola – pag. 49), lia         cè        me sona jossi ntra che camino / la luce nti piedi spaura ta me e ta chi m’acompagna / quan che mafermo scuperchio la testa // e lblico // lia, la poesia: / confessione ta la maestra (lei         c’è       mi suona le ossa mentre cammino / la luce nei piedi spaventa me e chi mi accompagna / quando mi fermo scoperchiando la testa // e l’ombelico // lei, la poesia: / confessione alla maestra – pag. 50); nnè che io so la poesia / la poesia è lia           e è tlà // s’io so esse vota / m’entra // lia (non è che io sono la poesia / la poesia è lei         e è là // se io so essere vuota / mi entra // lei – pag. 55); ldialetto ldiceva lmi babbo            e lmi babbo / ce lò ncorpo // si fo cadé la lengua nterra / m’esce (il dialetto lo diceva il mio babbo          e il mio babbo / ce l’ho in corpo // se faccio cadere la lingua in terra / mi esce – pag. 56); tocca gì a scola dl’ascolto (bisogna andare a scuola dell’ascolto – pag. 60). Anche quando dice “io” questa poesia è agli antipodi del soggettivismo e del solipsismo dei molti narcisi poeti che adornano la scena; se il punto d’avvio è un sentire dell’io, il percorso e l’approdo (quando quest’ultimo c’è, visto che si tratta d’una ricerca senza fine) sono un apprendere ed un mettersi in dubbio costanti; da qui derivano il proprio senso la scuola, la maestra e il dialetto paterno e la poesia non si configura come il numinoso che afferra la sua adepta, ma come la sostanza materiale e fonica al tempo stesso che s’offre a chi, umilmente, la cerca e la sa vedere/sentire.

Entriamo adesso nella biblioteca assieme ai cani di strada e ai bambini; l’edificio è scoperchiato ed il pavimento è fatto d’erba: Manca il tetto, perché durante la lettura si abbia consapevolezza del cielo. Di quanto l’io e la scrittura siano minima cosa, non tutto. Ha un pavimento di fossili tra l’erba (pag. 61). Esistono, per fortuna, biblioteche davvero speciali nei libri che ci capita di leggere: c’è quella accogliente e nella quale si risolvono i destini di un ragazzo e di un vecchio in Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki e c’è quella appassionante come un poliziesco, fitta d’indizi in Possessione di Antonia Byatt; c’è la biblioteca di Babele e quella del Nome della rosa; e poi c’è Alessandria stessa, la città per eccellenza della Biblioteca. Nel paese nel cuore dell’abse la biblioteca appartiene davvero a tutti, aperta, addirittura scoperchiata e radicata nella terra e nella storia geologica della terra.

So dal sangue che il mio poema è qui

sotto il pavimento di questa biblioteca

nei magazzini sotterranei sotto

le fondamenta italiche del paese.

Che è incastrato tra le ossa

e i minerali del neolitico raggiungendo a ritroso

la vita di mia sorella ossidiana (pag. 62).

Appartenendo a tutti, la biblioteca accoglie pagine di diario le più diverse: insisto ancora a leccare con la mia lingua il mio abisso – da diario di bordo, pag. 64 oppure: Vengo dalla cultura della madre / che soffia polline fosforico dentro il buio di ogni grotta / e riconosce uguali ebrei palestinesi preti di cristo / tu e io nessuno escluso / (…..) / Io sono la bimba o sono la rosa del rogo / nella striscia infernale di Gaza / durante questo eterno assassinio di massa – da diario di un sogno emorragico: da Gaza al resto del mondo, pag. 67. Appartenendo a tutti la biblioteca raccoglie le storie di tutti, accoglie anche il sangue versato da chi lotta per la propria libertà o è comunque vittima della violenza, in primo luogo i bambini.

(…..) ho bisogno di leggere / la polpa del mondo / e di sentire il corpo delle lingue, da diario di una analfabeta, pag. 70: attraversare l’abse di Anna Maria Farabbi significa attraversare, di nuovo, un linguaggio che fa tutt’uno col corpo ed anche riapprodare ad un’Umbria situata dentro un’antichissima linea di successione che è etrusca, latina e poi italiana così legata al corpo della terra-madre, al succedersi delle generazioni, ad un canto di matrice liturgica (e non intendo soltanto in direzione cristiana: si pensi, ad esempio, al vasto repertorio del paganesimo latino quando celebrava il variare delle stagioni e voleva propiziare il raccolto).

Proseguendo nel ricopiare scrivo note a margine: prendo in prestito un libro per leggere / le impronte digitali della mia comunità, da diario di un vecchio lettore, pag. 71: ancora le impronte delle dita, della mano!

lasciandomi il sale // dentro l’interiorità del mio corpo sulla lingua / la sua bianchezza abbagliante / (…..) / perché dentro il suo liquido amniotico / tornassi feto           ovulo / e rinascendo pescia parlassi acqua, da diario di me montanara dopo l’incontro con il mare, pag. 80: ere geologiche, biologia di una lunga filiazione, memoria delle cellule.

Nell’attraversare questo libro mi convinco sempre di più che non ci sono in esso periferie o angoli più o meno secondari, ma ogni luogo sembra essere centro ed uno dei centri più toccanti è il diario di me madre dedicato a Peppino Impastato (pagg. 84 e 85), il resoconto di una fiaba-ninnananna cantata al proprio bambino per farlo addormentare e sognare, ma nel quale il pensiero va ai bambini dei lager, dei campi profughi, dell’ospedale da campo di Emergency nel Sud Darfur, a Peppino Impastato (mi schiero scalza in piazza            con tutto il corpo / a fianco di mio fratello impastato // il suo squarcio di sangue nella neve / mi comanda la parola / l’onestà l’integrità la resistenza / la giustizia e il diritto per tutti alla bellezza – l’esplicitazione del cognome che è anche participio passato del verbo impastare >corpo impastato di carne e sangue, terra e violenza, coraggio e ricordo, neve e grido< dona una forza particolare a questi versi e la rivendicazione del diritto per tutti alla bellezza >che coincide con la giustizia e con l’onestà< ha un ascendente illustre ed autorevole nelle parole quasi conclusive dei Feuillets d’Hypnos di René Char: Dans nos ténèbres, il n’y a pas une place pour la Beauté. Toute la place est pour la Beauté).

La casa di Andrej Rubliëv è neve non si vede / non si leggono le scritture dei piedi e delle mani / che attraversano la neve / né l’oro ustionato delle icone / l’io è bianco (pag. 87). Balugina di nuovo la spiritualità russa, la rilkiana consapevolezza del profondo senso religioso che impronta un popolo che possiede familiarità con la vastità dello spazio e con il rigore di vita e di pensiero imposto dalla lunga presenza del bianco nel paesaggio; ripercorro con gli occhi della mente le sequenze del film di Andrej Tarkovskij, l’ascetico viaggiare e digiunare e dipingere del monaco-pittore più silenzioso della storia, la sua lotta corpo a corpo contro il narcisismo e la vanità, il suo tentativo di evaporare, di dissolversi completamente, esecutore, non autore d’icona.

Le pagine che seguono sviluppano con la capacità immaginativa che è peculiare alla poesia di Farabbi uno dei temi in essa più radicati: la percezione femminile del mondo e della scrittura, l’orgoglio della propria femminilità, la consapevolezza psicologica, storica, culturale di essere, in quanto donna, portatrice di valori e di una forma mentis altra, alternativa, non subordinata o tesa a sostituirvisi, ma altra rispetto a quella maschile o, almeno, a come quella maschile è stata elaborata ed imposta negli ultimi millenni: mi spalanco in un’unica lingua femmina / dentro cui improvvisamente incendio           ori nel rosso (da diario del risveglio, pag. 76). Se forse è vero che la poesia “del corpo e sul corpo” è diventata negli ultimi anni di moda, il caso della poetessa perugina è uno di quelli al di sopra di ogni sospetto, sia per ragioni cronologiche (La fioritura notturna del tuorlo è del 1996 e credo che la grande ondata di poesia “al femminile” e “sul corpo” sia seguente), sia per l’estrema coerenza stilistica e tematica, linguistica ed etica che fanno dell’opera di Farabbi un punto davvero alto nella ricerca poetica nella lingua nazionale e in dialetto, anche se sarebbe ora di riflettere seriamente, e non da posizioni pregiudiziali, sul fatto che molti dei libri più compiuti e convincenti degli ultimi anni siano stati proposti da donne, ognuna di loro perfettamente consapevole della propria poetica e della propria visione del mondo, ognuna di loro ben riconoscibile per timbro, stile, contenuti. E il femminile è, per Anna Maria Farabbi, anche contestazione puntuale di un potere e delle sue sanguinose risultanze; L’ostia nell’abse piccolo concerto per arpa eolica (pag. 88) celebra così i venti convenuti da tutto il mondo a scalzare privilegi, abusi, ipocrisie messi in piedi dal potere maschile; recita un passaggio del testo: Il pruga ha distrutto, di continente in continente, i tre orci vuoti della cultura maschile: dogma verità e potere. Si può allora riscrivere il Padre nostro (pag. 97) sottolineando l’appartenenza nomade dell’umanità e che la parola “nasce dalla cultura della tenda”, concludendo a chiare lettere che si canta la madre (bellissimi i versi La tenda nomade non ha chiave / ma tappeto          ombra          e asse cosmico); si può cantare la circolazione del sangue, la diramazione delle arterie, l’aorta e il cuore che è contemporaneamente ossidiana, argilla, terra; si può prendere la propria testa e posarla a terra affinché s’addormenti e divenga uno dei tanti semi nel suolo (a differenza di quanto accade nella poesia di Celan, nella quale pure esiste la consuetudine di rappresentare parti del corpo >la lingua, l’occhio, la mano, lo stomaco< separati da tutto il resto e come dotati di vita propria, qui l’apparente frammentazione del corpo umano dice dell’appartenenza alla natura e della volontà di ricongiungersi con il tutto-materia, mentre nell’opera celaniana tale frammentazione allude quasi sempre proprio alla disintegrazione sia reale del corpo >il campo di sterminio< che metaforica dell’io squartato, annullato, privato di punti di riferimento).

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Nel Duomo di Colonia

Avviciniamoci all’asilo: esso e i frammenti che rimemorano l’infanzia diventano il luogo del paese e l’espressione lirico-memoriale del proprio nascere e schiudersi alla vita: dentro il tuo poema cardiaco usa tutto il corpo: / lavora in te perché c’è sempre comunque / una meraviglia (pag. 100). E se il padre veniva rammentato nelle pagine precedenti come il malato terminale accudito dalla figlia negli ultimi giorni di vita o come colui che, ancora bambina, non voleva che ella diventasse poetessa (o, come preferisce dire Anna Maria Farabbi “una poeta”), adesso sono (di nuovo) la maestra e la nonna guide amorevoli ed autorevoli. In una pagina del paese-nell’abse la nonna guida la nipotina attraverso il regno dei morti, entrambe sdentate: la nonna anziana, la nipote piccolissima. Innegabile la bellezza di un testo come:

dentro il palmo della nonna

le vene hanno i pesci

vedo perfino la morte

di un salmone

mentre deposita le uova nel suo cuore (pag. 109).

Il femminile è sapienza, forza, protezione, trasmissione di quella stessa sapienza, accoglienza, ospitalità, radice che nutre l’umano nella natura, sentimento religioso, svincolato da appartenenze, benché forte sia l’identità cristiana, ma non dimentica quest’ultima dell’ascendenza che, fino a risalire all’Europa antica, valorizza il culto della Grande Madre Terra (anche in tema di copertine per i propri libri la redazione del Ponte del sale sa compiere scelte magistrali: si tratta di libri sobri, eleganti, con illustrazioni solitamente afferenti alla tradizione figurativa mediterranea ed antico-europea; in questo caso, in bellissimo rosso e quasi a tutta pagina, è raffigurata Demetra in trono che regge la fiaccola ed un fascio di spighe di grano e di papaveri da un piatto corinzio).

abse

Ricordo nella breve, intensa raccolta Solo dieci pani la pagina stupenda dedicata al rosone della chiesa che orienta la preghiera notturna – rosone e rosa, elementi d’etimologica affinità, pregnanti simboli della bellezza generata dal congiungersi di natura e di divino, di umano e di contemplazione.

L’ospizio femminile è poi il luogo del vuoto necessario, talvolta inaccessibile, talaltra fecondo, talvolta tragico (le donne affette da parkinson o alzheimer, il dissolversi dell’io). Chiamo la madonna acefala / (…..) / maternità sororità filialità una e trina      liquida / amniotica             nel flusso cardiaco dell’aorta. Ave. E Farabbi può allora chiudere questo suo testo come in un sospiro-preghiera: ave / madrìa (pag. 120) (Mario Luzi aveva chiamato Màtria la sua Siena) ed essere la montanara, la pastora, la ballerina, la down o interloquire con la nana, riconoscendo in ogni esistenza più o meno lunga, certamente segnata dal dolore e dalla gioia, ora ghermita dalla vecchiaia, la sapienza altissima dell’esistere. La faccia di una delle ospiti si può leggere come fosse una mappa cosmica / (…..) / Dice che non è più carne          ma argilla / dentro cui sono scritte le coordinate celesti. / leggendo le linee nazka con Maria Reiche / ho imparato il significato delle rughe / nel volto delle vecchie / e nel mio (pag. 126). Esiste un portfolio-capolavoro di Mario Giacomelli intitolato Ospizio che con poetica, umana partecipazione fotografa la vita all’interno di una casa di riposo per anziani ed esistono le foto dell’artista di Senigallia scattate tra le colline marchigiane: terra e volti, solchi e rughe, calanchi e tratti del mento, degli zigomi, delle sopracciglia.

giacomelli ospizio

Mario Giacomelli: ospizio.

giacomelli paesaggio

Mario Giacomelli: paesaggio.

Ed ora l’ultima tappa: il cimitero. (…..) La becchina sciamana di Montelovesco mentre li sotterra e li traduce // È un orto. Un campo magnetico di energie. (…..) Un gong d’oro nella notte apre le interiorità della matrioska. (…..) Il mio poema è semplicemente un ritmo nell’abse (pag. 127) (a chiudere definitivamente il libro, a pag. 140, Farabbi scriverà: Tacere permette il ritmo). Tutte le pagine finali del libro sono una meditazione attorno alla morte, il luogo geografico-simbolo è il cimitero di Montelovesco su una cresta dell’Appennino umbro, cimitero che è un frutteto selvatico (pag. 129) – Montelovesco è il medesimo luogo-eremo-spazio della meditazione che nutre la poesia di Solo dieci pani, il paese d’origine del padre della poetessa tra Gubbio ed Umbertide, la culla del dialetto impiegato in questo libro ed anche nell’altro splendido Adlujè (Il Ponte del Sale, 2003). Proprio il padre torna ad essere tenero, inerme oggetto del canto della figlia che ne ripensa il tempo della malattia e della morte: Non sapevo più chi fossi davanti a quell’uomo in combustione. // Che a baciarlo, diventato una piccola fragilissima architettura ossea di uccellino, vuota e risuonante, a trovarlo sconosciuto in una forma trasfigurata di guscio quasi vitreo quasi niente, e toccarlo non più con le labbra con le dita ma con il dentro (pag. 131).

È un atto di pietà e un riconoscersi questo canto che accoglie in sé la memoria dei morti e s’innesta ai molti canti che in ogni luogo del pianeta onorano i morti: il seppellimento dei morti, l’onore reso alla loro memoria è alle origini della civiltà e della cultura. Ogni volta che prendi la parola / convochi i tuoi antenati / verso cui devi rendere conto / (…..) / Scriverai il tuo poema umilmente con la lingua nell’argilla / perché sei poeta animale femmina / povera selvatica ed eretica // sui fondali del cimitero di Montelovesco vive / il tuo unico matriarcale nido / tu migra lontanissimo ma abbi la sapienza di tornare (pag. 132); è il campo dei miracoli – non era allora così peregrino il mio accostamento a Pinocchio? C’è riconoscibile, dunque, nella storia immaginata da Collodi il nostro appartenere ad una terra comune per storia, lingua, sentimento e memoria così come in questo libro l’appartenenza dapprima umbra ed appenninica si fa italica e poi universale ed infatti nel campo dei miracoli qui nell’abse, che non è però il campo dell’inganno e della credulità, i bambini il 21 di marzo scoperchiano l’erba e con l’orecchio a terra ascoltano gli zecchini muoversi, così come Farabbi stessa in più di un punto del libro ha messo l’orecchio a terra per udire l’invisibile e questo campo dei miracoli è tra cuore e polmoni e gli zecchini sono altrove (pagg. 129 e 130): perché la poesia si forma innanzitutto nell’ascolto e nell’attenzione. La sapienza sembra infatti appartenere alla sciamana-becchina e, ripercorrendo a ritroso il libro, ogni volta che riaffiora l’idea della femmina-sapiente e guida (la madre, la nonna, ad esempio) non si può non pensare alle scritture altissime di Assunta Finiguerra e di Ida Vallerugo (autrici in dialetto: è un caso?)

le ho consegnato le chiavi di casa

e quelle del mio poema di argilla cardiaca

per poter entrare nell’erba

con una danza femminile leggera senza lutto

con un respiro femminile leggero senza lutto (pag. 134).

Ma l’attraversamento sta per finire: Esco dal paese. Credo sia inverno perché nevica. (…..) // Mi siedo su una pietra di confine. Apro la matrioska che Paola Febbraro mi ha regalato prima di morire, la sfoglio come una cipolla cosmica. Ha le stesse qualità della conchiglia: diffonde onde sonore (pag. 138). Eccoci giunti a capire il senso della matrioska già comparsa più volte nel libro; il ricordo dell’amica carissima, sobrio e commovente, si schiude in un oggetto-metafora di assoluta pregnanza: aprire, sfogliare, diffondere.

Infine le due pagine in cui viene cercato il perché del titolo dell’opera: Il titolo per me è la soglia sensibile, il guado che contamina i piedi di un lettore per sempre, l’annunciazione della sostanza interiore. Essenziale, fulminante, duraturo.

L’abse è concetto, storia etimologica, concatenazione di suoni. A quanto scrive Anna Maria Farabbi aggiungerei le ipotesi che abse si possa connettere con abyssum o con ab se, allontanarsi per sapere ritornare, appunto, rinunciare a sé per accogliere il mondo, sapere l’abisso e guardarci dentro.

Mi congedo da qui, da Via Lepsius, dal libro di Anna Maria Farabbi imprimendomi nella mente il suono bs, quello dell’ape, creatura che ha già imbastito i suoi voli sapienti attraverso il paese appena attraversato. Il suo linguaggio, articolato in dialetti, in minime variazioni a seconda delle razze. Ascolto la sua danza utile: nel buio dell’alveare, visibile dentro un minimo squarcio di luce, per tradurre alle compagne la destinazione del proprio volo. I fiori lontanissimi. Il quarto e ultimo libro delle Georgiche è il canto d’api, la sapienza è, nel paese in mezzo all’abse, delle api, esseri solidali e migranti, possessori di linguaggi minimamente variati tra di loro (bella metafora delle lingue umane) e i fiori, bellezza e nutrimento, pur lontanissimi sono meta del loro girovagare.

E infine annoto, da pagina 137: mi è rimasto solo questo uovo sonoro.

Bene. Cercherò altri libri, altre uova sonore.