Ripropongo qui un mio intervento (già pubblicato nel numero 26 dell’agosto 2012 di POETI E POESIA, Pagine editore in Roma) dedicato al libro di Camillo Pennati Paesaggi del silenzio con figura (Interlinea, Novara, 2012) ed intitolato “Natura e canto nella poesia di Camillo Pennati”.
Buona lettura a tutti gli ospiti di Via Lepsius.

Poesia, musica e pittura ci vengono incontro tutte insieme già nel titolo dell’ultima raccolta di Camillo Pennati: la parola, intuiamo, ci farà traversare paesaggi in cui predominerà il silenzio e dovremo attendervi o sorprendervi l’epifania di una figura.
Sùbito, in limine al libro, leggiamo una citazione da Pope nella quale si richiama la necessità di accordare temi e suoni tra di loro. Segue una nota d’autore (così ritmata ed elegante nelle scelte e negli accostamenti lessicali da risultare vera e propria poesia in prosa); in essa Pennati dà ragione delle sue scelte stilistiche e tematiche. Andrebbe riportata tutta, invero, ma mi provo a delinearne i punti essenziali: il poeta canterà gli accadimenti della natura nel tempo vero e non immaginario, nel cosmo che ci ignora; la natura, dotata di magnifica bellezza, compie se stessa nel fervido silenzio, essa è e non ha bisogno di dirsi, non necessita di tradursi in linguaggio; è pervasa da energia creativa che dà vita a molte forme, tra cui il corpo, anch’esso oggetto del canto poetico. Si sarà notato come Pennati stesso dia sùbito eco ai tre elementi costitutivi del titolo della raccolta, addirittura chiarendolo.
Forti di queste indicazioni, iniziamo la lettura. Ascoltando le parole preliminari di Pennati non ho potuto fare a meno di pensare a due autori per i quali la natura è oggetto di poesia senza che però essi indulgano ad alcun tipo di spiritualismo o misticismo: Lucrezio e Leopardi. E già sùbito la lirica d’apertura intitolata MENTRE L’ACCADIMENTO AVVIENE ha il sapore di un proemio e di una seconda dichiarazione d’intenti: “La mia è poesia d’accadimenti” scrive il poeta nella nota d’apertura già citata e qui egli mette in scena (non a caso uso la metafora teatrale) l’accadere della primavera che cela alla vista un nido che era invece visibile tra i rami spogli nell’appena trascorsa stagione invernale e nella lirica è tutto un andirivieni di voli, un germogliare impercettibile ma continuo di foglie, per giungere ai versi conclusivi: “(…..) non ci si accorge / e ancora meno in noi di ciò che nel contempo accade / mentre l’accadimento avviene che si è già compiuto” (vv. 13-15). Siamo dunque davanti ad una poesia che vuol essere presenza vigile al mondo e all’esistere, coscienza dell’essere hic et nunc, scrittura che nel suo farsi è atto di consapevolezza della mente; i fenomeni naturali stessi accadendo si rendono presenti a se stessi, vengono alla luce e si autoaffermano.
Nella lirica seguente (COME TRACCIANDO LUMINOSE ROTTE e si noti la bellezza di moltissimi titoli presenti nella raccolta) appare la luna e mi sembra un atto di coraggio da parte del poeta, data la svalutazione e finanche il disprezzo di cui essa è stata fatta oggetto nella nostra poesia da Marinetti in poi – ma, ribadisco, scorgo anche qui un nesso diretto Pennati-Leopardi (quante lune nient’affatto melense né sdolcinate né arcadiche nella poesia del grande Recanatese!) e, sdipanando questo filo, mi vengono in mente la luna di Sandro Penna, quella rossa di Sinisgalli, la luna dei Borboni di Bodini, la luna sopra Buenos Aires di Borges. Sotto la luna c’è il volo notturno delle lucciole in questa lirica di Pennati, quasi a ribadire che egli “scrive dai bordi della natura osservata – dopo anni immersi in grandi città” (parole del poeta nella nota in limine già citata), vale a dire che il presente libro è anche, e programmaticamente, lontano dalle realtà urbane, facendosi voce d’una realtà periferica, ma essenziale; aggiungo: non si tratta affatto di un libro passatista o nostalgico o antimoderno – tutt’altro! Quanta coscienza storica (e anche civile) c’è in Pennati, ma mi riservo di tornare più tardi sull’argomento.
Caratteristica di molti testi in questo libro raccolti è da un lato la riduzione al minimo della punteggiatura, dall’altro il prevalere dell’endecasillabo ipermetro (spesso classicamente scandito dall’accento in sesta e in penultima sede), ipermetria che ricorda talvolta anche le scansioni ampie e disciplinatissime dell’esametro, per cui la lettura si muove per ampie campiture d’immagini e di fatti naturali rappresentati, il testo risulta densissimo e molto complesso, simile ad un unico ampio movimento musicale: ho riconosciuto un grande rispetto per il lettore e forse un amore nei suoi confronti in questa scelta espressiva. Mi spiego: Pennati compone testi elaborati e stratificati (il che non significa né artificiosi, né boriosamente “colti”), offre al suo lettore il risultato di un lavoro indefesso sulla lingua e sul ritmo, anch’esso dovuto ad un amore che intuisco profondissimo per la lingua italiana che si ritrova esaltata nella sua bellezza e nelle sue possibilità espressive ed estetiche – a tal proposito ho raccolto a campione alcuni termini (buiore, algore, marcimento, planamenti, innervatura, coinvolgenza, accadenza, insolcandolo, il braciare ardente del tramonto) perché il lettore abbia almeno una vaga idea della preziosità e della competenza lessicale in Pennati; è una sorta d’inimicizia in atto nei confronti della sciatteria e dell’approssimazione dominanti nell’attuale linguaggio poetico italiano; Pennati lascia poi sedimentare i suoi testi, fedele al precetto catulliano del multum invigilare lucernis e dell’ arida pumice expolitum; i testi qui raccolti vanno dal 2003 al 2010 ed alcuni sono anche precedenti– mi espongo al ridicolo se affermo che la sua è anche una presa di posizione etica? Pennati considera i lettori interlocutori degni di rispetto cui offrire il dono della poesia. E si tratta, non lo nascondo, di un dono difficile, perché la poesia di Pennati è ardua, ha bisogno di fedeltà anche da parte del lettore che aumenterà il proprio godimento del testo poetico tornando più volte a leggerlo, scoprendone sempre nuovi dettagli, affrontandolo anche come una sfida all’intelligenza, sfida che pretende un destinatario non anestetizzato e non superficiale, ma a sua volta esigente, sdegnoso di sentimentalismi e facili effetti.

Osvaldo Licini: Amalasunta su fondo blu, 1955.
Avventuriamoci tra i versi di NOTTURNO: “Solo il lucore della luna / su un paesaggio lontano dal mare: / restare ammutoliti allo stupore / mentre la nostalgia riluccica / con il tremore immenso di sinuose / scaglie” (vv. 1-6); sottolinerei quella sorta di allitterazione della sillaba lu- (lucore, luna, riluccica) che è un’insistenza sul tema della luce, ma anche il ritornare del suono s– e dei nessi sc– e st– (solo, su, paesaggio, restare, stupore, nostalgia, immenso, sinuose, scaglie) che suggeriscono forse la connessione col silenzio e creano una forte suggestione musicale, ma non solo: il nesso consonantico st- lega insieme il restare, lo stupore e la nostalgia, il dolce scivolare del suono s- abbraccia l’immenso e le sinuose scaglie. Ecco: ho avanzato una proposta di lettura ritmica che il lettore può ripetere autonomamente in molti luoghi del libro, sia per prendere coscienza dello studio costante a livello sonoro e prosodico, sia dell’inscindibile connessione tra suono e concetto. “Sino alla baia che lambisce d’echi / dall’estremo curvarsi del mare / tra minuti interstizi di sabbia / le scintillanti scaglie sfrigolando / in arpeggiato arrovesciarsi / senza mai sosta ad ogni soffermarsi / d’ogni sguardo” (vv. 22-28): così termina la lirica, confermando l’esistenza di quell’affascinante complesso meccanismo musicale e verbale affidato a nessi consonantici ricorrenti, oltre che suggerendo un atteggiamento intellettuale e psicologico disposto allo stupore e all’ammirazione per il palesarsi e attuarsi dei fenomeni naturali.
“La natura si pensa intesa al suo silenzio / (…..) / ignora il suo manifestarsi qual portentoso evento / in me che osservandolo aggiunge allo stupore / l’enigma del comprenderne tra ciò che mi è / visibile allo sguardo e come la natura di là / da sé non si scorga ma avverta solo i suoi / volumi per quanta luce li circonda o sua / penombra” (vv, 1 e 8-14) scrive il poeta nella lirica LA NATURA SI PENSA, ribadendo la dicotomia tra la natura che non possiede un linguaggio verbale traverso cui esprimersi (non ne ha neanche bisogno) e l’uomo, dotato di sguardo che dunque permette all’intelletto la percezione degli accadimenti naturali e li rappresenta mediante il codice linguistico; la natura attua il ciclo stagionale grazie alle mutazioni della luce “(…..) con l’unica forza d’esistere / a sospingerla che non è cieca nel sostenerla / ma intende una pupilla che nella linfa informa / ogni sua previsione intrisa d’atomi e molecole / e sedimentazione organica” (vv. 19-23). Lo spirito democriteo e lucreziano informa questi versi ed essi esprimono bene la concezione che Pennati ha della natura: essa non è romanticamente “beseelt” (dotata di anima, come dicevano i Tedeschi), non è specchio dell’animo umano, bensì essa esiste in sé e per sé e l’uomo ne coglie la bellezza in quanto essa è κόσμος, “tutto ordinato”, ma, secondo Pennati, non finalisticamente ordinato: anche il nostro pianeta perirà, anche l’universo si distruggerà, trasformandosi.
ENTRO QUELLA MOLECOLARE OSMOSI E CELLULARE DELL’ESISTERE è il titolo di un altro testo della raccolta, esplicito, come s’intuisce, nel raffigurare il mondo e il nostro vivere in esso secondo una visione che fu già democritea, ma comprovata dalle conoscenze scientifiche a noi contemporanee. Non esiste escatologia in questo libro, ma vivificante immanenza, ché è quest’ultima a spingere all’amore per la natura e a quell’atto di omaggio nei suoi confronti che è qui la poesia. Altrove viene infatti detto “(…..) l’uomo si inventa / il sovrannaturale poi che svuotato di silenzio / ignora la natura in sé del senso percettibile” (TRA TUTTE LE GALASSIE, vv. 12-14).
“È fatto interamente d’aria e movimento / il timbro e il tono del silenzio” (DEL SILENZIO, vv. 1 e 2) esordisce questa lirica stupenda per originalità concettuale e per la tramatura di rime finali (mai meccaniche) e rime al mezzo, omoioteleuti ed assonanze, oltre che per le preziose scelte lessicali: abissamento, portanza, per citarne un paio. Il silenzio non è, banalmente, assenza di suono, ma, anzi, modulazione ricchissima e cangiante di suoni e di volumi sonori; esso è attuazione dello stesso paradosso per cui si vorrebbe dire il silenzio, lo si rappresenta tramite i suoni verbali e lo si percepisce solo se esiste il suono. Il silenzio, anche del titolo della silloge, è l’accadere del fenomeno naturale, il suo attuarsi, il suo addivenire ad esistenza senza enfasi né proclami. E il modernissimo Pennati vivifica così l’insegnamento dei Presocratici (l’intero libro celebra il movimento, il divenire, facendomi pensare ad un poeta che amo moltissimo, anche lui segnato da suggestioni soprattutto eraclitee: René Char, nella cui poesia la natura è a sua volta presenza decisiva, alveo del pensiero e del canto).
Il pensiero poetante (direbbe Antonio Prete) in Pennati si manifesta in riflessioni sull’atto di osservare e descrivere, come avviene in LA DISGOMBRATA MENTE: “(…..) Segui / quel lento scivolare infinitesimale che prima / il foglio e poi la mano destra con cui scrivi / è già adombrato d’un meno luminoso meno / irraggiato sovrapporvisi. Seguine e scoprilo / con l’aderenza dei tuoi sensi intesa. Tu non sei nulla / in quel sistema che ti ignora” (vv. 7- 13), affermazione quest’ultima che nega la centralità dell’uomo nel mondo; il ricorrere poi nel prosieguo della lirica di termini quali accadenza, apparenza, consistenza, esistenza, che si richiamano tra loro e non sempre in sede di clausola finale, fanno pensare alla medesima sillaba finale prediletta dalla Scuola Poetica Siciliana e dalla poesia del Trecento toscano, quasi si trattasse di un richiamo alle origini, perché quella di Pennati è anche una lingua stratificata e consapevole della propria storia, non esibita, ma interiorizzata, è insomma una lingua letteraria e colta senza essere tronfia o narcisistica. Di contro agli stanchi o agli esasperati sperimentalismi Pennati propone una lingua ben consapevole di essere un codice artificiale rispetto agli accadimenti della natura, ma anche ricchissima e prodigiosa nel suo dispiegarsi musicale e lessicale, risultato d’un’ininterrotta tradizione votata anche alla realizzazione dell’atto poetico quale momento estetico.
Leggendo poi SPAZIO E TEMPO (due concetti fondanti del nostro conoscere il mondo, due concetti reinterrogati e riconsiderati anche dalla teoria della relatività di Einstein e dalla fenomenologia) il mio pensiero è andato a Giuseppe Bonaviri, grande scrittore-poeta mai abbastanza letto malgrado la sua estrema originalità: “l’altura”, la “curvatura”, le “turbolenze temporali”, la “geologica emersione”, la “gravitante coesione”, la “vastità spaziale”, l’ “orbitante ruotare” della lirica di Pennati rammentano le occasioni e gli accadimenti delle opere di Bonaviri, pure lui sedotto dalle leggi fisiche e matematiche che reggono l’universo, così da farne il movente dei suoi romanzi e della sua poesia, rendendo anche il linguaggio scientifico generatore di poesia, ritrovando in parte quell’originaria coincidenza tra poesia e scienza che intuiamo nei frammenti giunti fino a noi dei poemi di Empedocle o di Parmenide. Ma è lo stesso Pennati ad aver dichiarato in passato che gli Eleati e Leibnitz e Bertrand Russell e Popper e Wittgenstein, tra gli altri, sono sue fonti d’ispirazione assieme alle recenti scoperte scientifiche. Non illegittimo mi sembra poi pensare a Sinisgalli, altro grande intellettuale ben edotto in ambito scientifico e determinato a contemperare (e in maniera non dilettantesca né improvvisata) le “due culture”, come si suol dire con infelice espressione.

Mario Giacomelli, Paesaggio
Seguendo la scia di questo discorso in SALPA UNA NUBE leggiamo: “Salpa una nube / nell’oceano azzurro e ne dirupa a scia / il suo pescaggio d’ombra // ora che adombra / scivolando il foglio su cui scrivo / senza lasciarne traccia // che non sia di tempo / e movimento e altra sostanziale sinopia” (vv. 1-8), ragion per cui è lo scrivere stesso ad essere accadimento e divenire, il foglio si svela doppio della nube in cielo e questa poesia delle nubi mi richiama alla memoria una raccolta di Mariella Bettarini, DELLE NUVOLE, (Gazebo, Firenze 1991) in cui la poetessa scrive nella premessa di aver composto il libro “spinta da ciò che spinge e muove da sempre il fare poetico: l’osservazione, la constatazione di ciò che esiste, la contemplazione, lo stupore, e poi la lunga dimenticanza e ancora l’osservazione, la meraviglia, il rapporto cangiante fra ciò che appare e ciò che – di quanto appare – non si conosce, ossia l’ignoto, l’inconoscibile e via via, circolarmente ma anche spiralicamente. Non dissimile, credo, nella sua origine, la passione dello scienziato, del biologo, del chimico, del botanico, dell’astronomo. (Perché, allora, tanta sussiegosa distanza, tutt’oggi, da parte di alcuni letterati, fra il proprio fare che essi credono esclusivo, sacrale, segnato dal dio o dal demone, nei confronti della apparentemente più fredda ed esatta e “terrena” scienza? errore di presunzione, di scarsa penetrazione nell’evidenza della unità del tutto. Nell’unità delle culture)”. Parole migliori per attraversare il libro di Pennati non si potrebbero trovare e ricorderei che il nostro autore, nella sua originalità già evidenziata agli esordi da un poeta come Sereni, era stato introdotto all’Einaudi proprio da Italo Calvino, lo scrittore italiano che tra i primi ha creduto nelle connessioni necessarie tra letteratura e scienza; altri autori che potrebbero venire in mente leggendo questo PAESAGGI sono, secondo me, il Montale degli OSSI DI SEPPIA e lo scabro paesaggio ligure, il Lorenzo Calogero che s’immerge nella contemplazione della natura della sua Calabria e il Lucio Piccolo anche lui straordinario mago del linguaggio che osserva il mare e le montagne di Capo d’Orlando, declinandoli secondo effetti cromatici talvolta vicini a quelli di Pennati; ma è forse in ambito anglosassone (tra l’altro Pennati ha vissuto a lungo in Inghilterra) che si rintracciano affinità ancor più convincenti: Ted Hughes poeta di indimenticabili figure di animali rappresentate nella loro oggettività di esistenti, senza implicazioni morali o religiose, senza ricadute allegoriche o simboliche – e, più di tutti, direi il Wallace Stevens di NOT IDEAS ABOUT THE THING BUT THE THING ITSELF (NON IDEE DELLA COSA MA LA COSA IN SÉ) e delle molte altre liriche che tematizzano il rapporto tra poesia e realtà, tra oggettività e sua rappresentazione artistica; non escluderei poi da questa riflessione sulle interconnessioni tra i poeti Yves Bonnefoy e Francis Ponge (quest’ultimo forse il riferimento più ovvio dall’area francofona).
Eravamo partiti da una lirica sulle nubi, esauriamo ora l’argomento con l’aiuto di un’elencazione: NUBI (terza lirica della prima sezione); SALPA UNA NUBE (tredicesima lirica sempre della prima sezione); NUBI (ottava lirica della terza sezione); NUBI DEI PIÙ SVARIATI GRIGI E ARDESIE (dodicesima della quarta); NUBI IN ALTURA (sedicesima sempre della quarta); intravvedo una sorta di simmetria e comunque di richiamo tra i componimenti da me enumerati, sono persuaso che la distribuzione dei testi all’interno della raccolta obbedisca ad un’architettura precisa e non resisto alla tentazione di leggere i PAESAGGI anche come un poema, non soltanto come una raccolta di testi poetici; amo pensare a questo libro come ad un universo traverso il quale si viaggia, approdando a luoghi nuovi e al tempo stesso in consonanza con gli altri luoghi già visitati, un cosmo in divenire incessante, per cui la poesia è anche una sfida a seguire e a restituire il fieri della realtà: interessante il caso dei due componimenti titolati entrambi NUBI e che hanno identico attacco: “Stive: quel loro frammentare intersecando / il dilagare di monotonie d’azzurro / in sovrapposto intridersi” per svilupparsi poi con lievi variazioni l’uno rispetto all’altro, trattandosi a volte di una diversa scansione metrica, altre volte d’un leggero spostamento del singolo vocabolo, altre ancora di una differenziazione più propriamente lessicale. Pochi decenni addietro Luigi Ghirri fotografò le nubi lungo l’arco di un intero anno e il risultato fu una collazione di 365 fotografie (una per ogni giorno dell’anno appunto) che risulta essere un immenso cielo in tantissime, a volte minime, variazioni: c’è un nesso con questi testi di Pennati? Forse sì, se si pensa che l’idea del poeta è quella di dar conto del variare, a volte anche impercettibile, dell’accadimento e che uno dei primi atti istintivi che si compiono guardando dalla finestra o uscendo di casa è proprio quello di alzare lo sguardo verso il cielo.
IN TUTTA LA SCANSIONE ILLIMITATA DELL’ISTANTE potrebbe soccorrerci in tal senso: “C’è un po’ di Francia qui tra gli svettanti pioppi / e quegli squarci azzurri da rimembrarne tra le nubi / (…..) / commoventi tele tra il figurarsi e l’astrazione / d’una visione innamorata adesso nell’assistervi / (…..) // Così che l’arte nella bellezza della sua astrazione / è per natura in quella sua tensione / che ignoriamo una contraddizione / nel raffigurarne le forme per modellatura / senza inchinarci silenziosamente a ciò che / in meraviglia di là da noi l’esiste / e la struttura. Immersi e stupefatti di contemplazione. / Godendone per avventura / il perdurarsi della sua immanenza” (vv. 1-2; 13-14 e 20-28). È una vera e propria analisi dell’atto estetico nel suo farsi e nelle sue ragioni.
I versi “(…..) di come noi nella biosfera / spore non siamo né polline né plankton né lichene / ma degli alieni che andiamo immaginando i soli / qui avviati a una demente invasività d’autoestinzione / dov’è terrore dovesse mai sorprenderci nel tempo / un solo istante di silenzio come precipitando / in un immane abisso a vorticare di sconvolgimento / e a vuoto e forsennatamente urlando” (DI COME NOI NEL COSMO, vv. 25-32) ribadiscono la distinzione tra natura ed umani, “alieni” addirittura entro una natura che vive ed esiste di per sé, senza finalismi, autosufficiente, la cui consapevolezza è leopardianamente ferma e lucida nella mente del poeta, non è un cupio dissolvi per intenderci, ma è capace di dare ulteriore valore al suo osservare gli accadimenti naturali, al suo intessere versi su versi, i quali assumono talvolta i toni della poesia filosofica di tradizione rinascimentale: “Il tuo silenzio schiuso al volto mi innamora / poi che a quelli in consonanza mi ingloba. // Intendo il tempo anche e la notte e l’aurora / e la luce che tutto svelando incastona” (TRA QUELLE RIAFFIORANTI CONNESSIONI DEL VISSUTO, vv. 1-4) e mi riferisco in particolare a clausole tipo “intendo”, appunto, oppure altrove “dico”, “vedo”, “sento” che servono a rimarcare la dimensione anche concettuale di questo poetare, il suo rivolgersi all’intelletto, il suo usare la parola per tessere trame di pensiero prima ancora che di sentimento, stabilendo una distinzione sempre presente e consapevole tra la voce poetante e il fenomeno osservato e descritto. Ma il componimento su cui ci stiamo soffermando è, soprattutto, lirica d’amore, declinata secondo la poetica di Pennati, ovviamente, per cui il corpo dell’amata e l’unione amorosa vengono rappresentati tramite il susseguirsi delle immagini, essendo anche il corpo elemento naturale e il silenzio dell’amore anch’esso accadimento, ossia, come ricorderete, riuscita dei fenomeni naturali all’esistere, loro presenza a se stessi: “Poi che il silenzio mai è la solitudine / a colmarne il senso in pienezza di suono / e così il suono in tanta plenitudine di senso” (vv. 35-37).
Da non dimenticare: merli, usignoli, lucertole abitano questo libro e a conferma del fatto che si tratta di una raccolta anche musicale sovvengono LUCERTOLA I e LUCERTOLA II in forma di variazione sul tema, là dove QUEL FULMINEO SOTTRARSI, di nuovo animato da una guizzante lucertola, conclude in una sorta di trittico la prima sezione del libro.

Mario Giacomelli (dalla serie fotografica “L’infinito”).
Seconda sezione intitolata FRASEGGI GRAVITANTI DEL SILENZIO; in essa è contenuto il testo DELL’IMMERSIONE NEL TEMPO: SONETTO che del sonetto classico conserva solo i 14 versi e forse la sentenziosità (shakespeariana?) degli ultimi due versi, mentre per il resto ne constatiamo l’ipermetria che ben rispecchia “(…..) del tempo / accadimenti impercettibili all’insensibile sguardo / che non ne scorge i nessi e il lento provenire / in mutamenti (…..) / Eppure è qui che siamo / immersi e anchilosati ne aborriamo il nuoto” (vv. 7-10 e 13-14) perché gli umani possiedono cognizione del tempo, benché se ne lascino attraversare senza neanche accorgersene, o vi nuotino dentro, salvo poi averne improvvisa ed amara coscienza quando il tempo concesso all’esistere già volge alla fine. Come si può notare Pennati affronta temi antichissimi con la coerenza ferrea del proprio stare nel mondo e del suo poetare.
Si alternano le stagioni e bellissime si susseguono le immagini che descrivono il paesaggio e il cielo nel loro mutare incessante “di transizione in transizione / dove accadendo è sempre in accadere / già accaduta del suo stesso avvenire” (DI QUA DALL’IRIDE, vv. 27-29).
QUI DOVE L’ARIA NE PROFILA IL MOVIMENTO è altra lirica d’amore che rinnova il sospetto che, pur in modo nient’affatto dichiarato né evidente, le origini della lirica italiana possano costituire un richiamo significativo; non c’è la donna angelicata, non c’è alcuna prospettiva teologico-mistica, ovviamente, ma tutto comincia anche qui con lo sguardo proseguendo in “(…..) ogni più intensa / congiunzione tra desiderio ed attrazione / in quel commosso e seducente accadimento qui / dove l’aria ne profila il movimento ancora / rapinosamente penetrante del respiro” (vv. 11-15). Come in Dante o in Cavalcanti, poi, anche nella lirica amorosa di Pennati l’aspetto intellettuale del rapporto amoroso è decisivo, l’atteggiamento speculativo essenziale. Ribadisco che si tratta, penso, di un modo nuovo ed originale di modulare il tema amoroso all’inizio di questo nuovo secolo, in un tempo cioè in cui tutto, in poesia, parrebbe essere già stato detto; uno dei molti motivi per leggere ed amare questa raccolta è proprio la sua capacità di essere originale pur nel solco di una solida tradizione e di un consolidato mestiere che recupera in maniera innovativa l’inusitata ricchezza lessicale dell’italiano, impiegandola per intessere una tramatura poetico-immaginifica che non è per nulla mimesi della natura, ma invece un dire che equivale ad un creare tramite il linguaggio nel mentre si porta alla coscienza l’accadimento.
E l’amore è Leitmotiv di questa sezione del libro, da LONG ISLAND alla successiva SULLE SINUOSE COSTE DELLA CARNE, ove il corpo amato è anche paesaggio e che è costituita da un unico ardito e compiuto movimento dal primo all’ultimo verso, in una sospensione del respiro che ridice l’amore e la passione: “La pelle ambrata contornante il corpo / è come brace che riaccende amore / a suscitarne l’addentrato senso e insieme / quel reciproco tremore” (vv.1-4). Ma poi, inaspettata e violenta, irrompe la tecnologia umana: LA MERAVIGLIA DEL TRAGITTO è in realtà un percorso traverso un paesaggio avvelenato e violato dall’uomo ed automezzi, autostrade offendono “paesaggi / d’antica natura preesistente smangiati / ai margini della magia” (vv. 4-6); peggiori ancora sono gli “ultrasonici aviogetti che solcano rotte di cielo / in vivisezioni di guerra” (vv. 8,9) mentre sui fiumi cadono o non cadono piogge la cui frequenza è determinata dall’inquinamento umano; unica speranza la linfa che, malgrado tutto (ma non è certo che ci riuscirà) vivifica e vivificherà il pianeta agonizzante a causa dell’uomo. È a questo che mi riferivo quando ho scritto che la poesia di Pennati evidenzia anche una coscienza civile; senza proclami reboanti, con l’umiltà della parola squisita e sapiente, leggiamo una condanna recisa di uno dei crimini più gravi che la nostra civiltà va perpetuando ormai da moltissimi decenni ai danni della terra e di sé stessa. Viene così alla mente lo Zanzotto agguerrito nel denunciare e nello stigmantizzare le offese al paesaggio italiano.
A questo punto della lettura incontriamo il verso “e il chiù di giorno e di notte l’assiolo” (L’IRIDATO PAESAGGIO, v. 5) che spinge a chiedersi quanto Pascoli sia ancora presente nella poesia italiana. Intendo il Pascoli che, forzando la lingua nelle sue intrinseche sonorità, la sottrae a codici ormai invecchiati e languenti e il Pascoli che canta la natura nel suo manifestarsi, non certo quello del lacrimevole autobiografismo. Procedendo nella lettura mi convinco sempre più, infatti, che il poeta abbia disseminato nella raccolta rimandi più o meno velati a poeti studiati e forse amati.
“Ed è natura: / nulla di elucubrante tra escatologie / e torturanti guerre // tra dilaganti corruzioni / e l’ingordigia di ricchezze svenando / tutte le vene del globo // e in demenza contaminando / le correnti dell’aria” (ED È NATURA, vv. 25-32). Trascrivo questi versi anche quale exemplum per evidenziare la ricorrenza del participio presente, del gerundio e degli aggettivi dimostrativi quale naturale portato di questa poesia e di questa poetica dell’accadimento, così come lo è l’uso dell’indicativo presente.
La verità è che ci si dovrebbe soffermare su ogni lirica per apprezzare insieme la tessitura verbale sapientissima; SI ESISTE QUI, ad esempio, è tutta giocata sui richiami dei sostantivi in -ento, quali “concepimento, evento, intento, assentimento, nutrimento, aderimento” distribuiti anche stavolta non in rima, ma sia alla fine che all’interno dei versi, per cui si produce una melodia fatta di richiami, echi, memoria del suono che torna a prodursi in sede diversa dalla precedente e poi, intuìto l’andamento della lirica, attesa del ripetersi del medesimo suono, quasi una sua anticipazione psicologica nella mente del lettore.

Mario Giacomelli (dalla serie fotografica “A Silvia”).
Entriamo ora in un gruppo di liriche raccolte nella sezione BOGLIASCO LINES 2 (BOGLIASCO LINES 2000 è il titolo della seconda sezione di MODULATO SILENZIO, Joker Edizioni, Novi Ligure, 2007, il penultimo libro del poeta) e tutta dedicata al mare.
Contestualmente alla lettura di PALA D’ALTARE A BOGLIASCO colgo l’occasione per sottolineare quanto il blu, assieme al verde, predomini nella tavolozza cromatica dell’intero libro; la lirica su cui ora brevemente mi soffermo tematizza proprio il blu, quello stesso “sotteso blu” e “sotteso azzurro” che anche come lemma ritornerà in liriche successive alla presente e saranno muscari, fiordalisi, più avanti (in NUBI DEI PIÙ SVARIATI GRIGI E ARDESIE) l’intera tavolozza dei toni di blu a imporlo alla coscienza di chi legge dopo che esso si era affacciato ripetutamente nelle liriche precedenti: “In un radioso azzurro nel circondante buiore / di gromme o in quel blu a sfondo risaltante / tanto d’un tratto di cielo quanto d’un meno / incrostato braccio di mare fors’anche procelloso / (…..) / E più mi ha preso e di stupore impressionato / quest’incantato episodio come d’azzurro squarcio / d’una maliosità riverberante / (…..) / mentre l’azzurro e i nembi in fulgido contrasto / eccolo il vero portento di lassù a incombere / dall’immanenza di un cielo cosmicamente spassionato” (vv. 1-4, 16-18, 21-23); nei versi che non ho citato viene descritto l’episodio raffigurato sulla pala (il miracoloso salvataggio per intervento divino di una barca dal naufragio) e sottolinerei che il presente è l’unico caso, in tutto il libro, in cui oggetto della poesia non sia un paesaggio o un accadimento della natura, ma per dir così un manufatto umano. Seppure non in senso assoluto, questo componimento si trova vicinissimo al centro fisico ed aritmetico del libro (56 testi lo precedono, 39 lo seguono) e si conclude con versi epliciti che negano l’intervento divino nella salvezza della barca, ma sottolineano la decisività dell’istinto di sopravvivenza dei marinai unito alla loro intelligenza nel saper cogliere l’attimo giusto per porsi in salvo dal perire.
VENTO DI LIBECCIO è un vero e proprio pezzo di bravura nell’impiegare lingua e ritmo per mimare il moto ondoso sottoposto a raffiche di libeccio, mentre SEASCAPE celebra la bellezza ed il fascino del grigio sia del cielo che del mare, aggiungendo stupendi tocchi pittorici alla raccolta. Nota: il titolo inglese non è un unicum nel libro, anzi sono presenti anche tre liriche scritte in inglese; pure in questi casi il verso tende ad essere ampio, ritmo e temi potrebbero essere avvicinati alla concettosità di talune liriche elisabettiane o a quelle dei poeti cosiddetti metafisici, ma direi che si esplica qui anche un’affezione alla lingua nel cui universo sonoro e culturale Pennati ha vissuto per molti anni, senza trascurare il forte interesse che il Nostro ha per la ricerca di sonorità e musicalità nel verso e nel testo, per cui la perfetta padronanza della lingua inglese gli offre l’opportunità di modulare con altri suoni i temi a lui più cari, concludendo addirittura col latino (“donec auferatur luna”) il componimento CRESCENT MOON AND THE WORLD BELOW a conferma di una ricerca costante a livello fonico. In AVANTI QUEI NOTTURNI DI USIGNOLI l’italiano viceversa transita nell’inglese dell’ultima strofa quando si parla degli usignoli dell’isola di Manhattan, quasi per un’intima necessità ambientale e per riaffermare quanto questo libro sia un cammino traverso il linguaggio, indefessamente votato alla tramatura delle più ardite architetture verbali.
Ed eccoci all’ultima sezione, SCIE DEL SILENZIO. Vorrei focalizzare l’attenzione su GENOVA: “Fu il suo angiporto e il suo ospedale a espormi / da solitario principiante al brusio di un penare / brulicante tra quelli allora vivi nelle divise / dei liberatori e i tanti a campare di espedienti. / Quei giorni in cui assistevo la degenza di mia madre” (vv. 26-30) rarissimi versi di carattere autobiografico, discreti, ma anche capaci di dire quanto legata alla storia sia questa poesia che non cerca la natura quale fuga o anestetico; grazie alla sua meditazione intorno alla natura essa è anzi ben dentro la contemporaneità.
Quod erat demonstrandum: DI LÀ D’OGNI DEMENTE SCEMPIO ha le movenze d’un’invettiva contro gli “evoluti primati” che soli sanno escogitare guerre e devastazioni, assieme all’avvelenamento della “cotica terrestre” (eloquente sintagma tutto pennatiano) e GLOBO è un vero manifesto ecologista espresso in termini molto forti e recisi.
Ritorna il senso del mutare continuo e dello scorrere in almeno due testi: “Ciascuno nell’avvolgente percepire il proprio esistere / per immersione e per trasalimento” (PER IMMERSIONE E PER TRASALIMENTO vv. 22,23) e “come a sentirsi immersi nell’accadimento. / Come a sentirsi infusi dell’avvenimento” (SOTTESO BLU, vv. 40 e 41, titolo che è già di un’importante silloge pennatiana e non a caso: l’aggettivo “sotteso” è una ricorrenza nel lessico del poeta: la poesia è anche esplorazione di una realtà non sempre immediatamente percepita o percepibile).
E infine la fragile, isolata corolla di pervinca si mostra allo sguardo dell’autore intristito dal peso d’una “pressante angoscia” (lo scempio del pianeta, la tracotanza dei potenti, l’infelicità di milioni di esseri umani). Stiamo sfogliando le ultime pagine della silloge ed affascina pensare che quel fiore blu (il blu, di nuovo!) possa essere senhal della poesia fragilissima e sperduta dentro la violenza del presente, ma capace di “trasportare in seduzione a trasalire”. In tali termini anti-sentimentali si esprime il poeta che continua a scrivere “di mari ansanti tra le coste del globo e nuvolosità cangianti mentre dall’alto si appalesano, senza per ciò volerlo, ad un terrestre sguardo, dell’accadere del cosmo che ci ignora, lo so di loro e in commozione quanto per mio stupore ne esprimo per versi intrisi come di stesure astratte e modulanti musicalità, le stesse visuali contemplando” (dalla nota d’autore in esergo a PAESAGGI già citata).