L’ultima apparizione di José Bergamín
ha l’aspetto, sarei tentato di dire, proprio di questo libretto di Ginevra Bompiani (Nottetempo, Roma, aprile 2014), una di quelle opere esili e leggere capaci di lasciare nel lettore un’indelebile impressione di eleganza, un’inamovibile suggestione e gratitudine, profonda gratitudine per l’incontro. E nostalgia: avremmo voluto incontrare anche noi Bergamín, frequentarlo, passeggiare con lui nelle strade del Marais o di Madrid, mangiare alla tavola di un ristorante il gustoso caldo de la casa, godere una giovinezza illuminata dalla fine ed ironica sapienza dell’intellettuale spagnolo. Mi viene in mente che è molto appropriato il nome della collana cui questo libro appartiene (i sassi) dal momento che i piccoli libri, sobri ed eleganti, offrono spesso una leggerezza di scrittura che, à la Calvino, rimanda invece ad una densità concettuale e narrativa di altissimo livello, consistenti sassi di bellissime forme. E mi ricordo anche della strofa finale di una poesia di Charles Simic che parla proprio di un sasso:
Ho visto scintille schizzar via
quando due sassi sono strofinati,
forse là dentro non fa così buio;
forse c’è una luna che brilla
da chissà dove, spuntando magari dietro un colle –
un chiarore appena sufficiente a decifrare
quelle strane scritte, mappe stellari
sui muri interiori.
(Sasso, in Hotel Insonnia, Adelphi, Milano, 2002, pag. 25, traduzione di Andrea Molesini).
Ma torno al libro di Ginevra Bompiani, al suo racconto di quando, con Ana, Florence e Giorgio (gl’inseparabili amici di allora) frequentava il sulfureo scrittore e in realtà, al di là dell’apparenza, sono proprio Ana e Flores, assieme a Bergamín, il fulcro dell’azione, perché sono le donne, assieme all’esercizio dell’intelligenza e della scrittura, all’arte della tauromachia e alla danza, la sorgente dell’energia vitale che, prodigiosa, attraversa la vita di José rendendolo così necessario per i suoi giovani amici.
Il vero tema del libro è la capacità della parola di riportare in vita il passato, di scavalcare il tempo trascorso e regalare alla mente la possibilità (forse illusoria, ma generatrice d’un melancolico piacere) di riassaporare per qualche attimo felicità passate. Il lettore non riesce a sottrarsi al fascino del racconto, né all’eleganza del ritmo narrativo: sembrano coincidere qui l’abilità di scrittura dell’autrice e lo spirito di “don Pepe” Bergamín perfettamente rievocato, cosicché l’ultima apparizione è anche il rimaterializzarsi d’un tempo felice vissuto tra il Marais e Madrid spesso a cena, o nelle lunghe camminate, il gruppo dei giovani amici raccolto attorno alla personalità magnetica del Maestro.
Le pagine di Ginevra Bompiani si distendono tutte come accompagnate e benedette dallo spirito di don Pepe che non a caso tesseva le lodi sia dell’arte della danza che di quella del torear, da lui concepita quest’ultima come metafora dell’esistenza e come raffinato esercizio d’eleganza e di coraggio. Ne possedeva moltissimo lui per primo: il coraggio lucido e coerente di opporsi al Franchismo, il coraggio di accettare l’esilio due volte (la prima dopo la fine della Repubblica), il coraggio di appoggiare come firmatario di un manifesto-appello lo sciopero dei minatori delle Asturie (e cade qui il secondo esilio, lo scrittore accompagnato alla frontiera con la Francia privato dei documenti), il coraggio di rimanere fedelissimo repubblicano anche nella “nuova” Spagna di Juan Carlos, il coraggio infine di andare a vivere nel Paese basco e scrivere intrepidi articoli rivoluzionari in favore dell’indipendenza dei Baschi. Il testo di Bompiani non è infatti un luttuoso ubi sunt, ma un atto di gioiosa restituzione di anni bellissimi ed appassionati capaci di regalare ancora adesso luce e libertà. La conoscenza del filosofo è stata “un’escursione termica” e le sue “mani sottili e bellissime” sembrano essere l’immagine concreta del tessere con castigliana agudeza y arte del ingenio quei giuochi di parole e quegli aforismi che l’hanno reso famoso, ma nel racconto di Ginevra Bompiani emerge, bellissimo e commovente, il tema del corpo di Bergamín, necessario luogo tramite il quale si manifesta e l’energia intellettuale e, appunto, la grazia e l’eleganza del pensiero, un pensiero di danzatore che sa con rigore controllare ogni muscolo e mostrare la bellezza del corpo vivo ed in movimento (della mente viva ed in moto perpetuo) o di un toreador che, intrepido e consapevole, si para davanti alla morte, corteggiandola (e beffandola) con l’armonia dei gesti, con una sfida sempre rinnovata e raffinata.
Fu proprio con una danza che ci salutò molti anni dopo, sulla porta della sua casa di San Sebastián, a ottantotto anni, quando per congedarsi da noi che non riuscivamo a staccarci e a prendere le scale, pensando che era l’ultima volta, ci disse: “Sapete che cosa farò appena ve ne sareti andati?” e si mise a ballare un piccolo flamenco, battendo nelle mani alte sul capo due nacchere immaginarie. E poi ci salutò: “A domani, a domani…” Mentre partivamo di lì a un’ora e lui moriva due mesi dopo (pag. 13).
Le mani di Bergamín e, aggiungo io, quelle indimenticabili di María Zambrano, sua cara amica con cui intrattenne una notevole corrispondenza: reticolo nodoso di vene quelle di lei sulla magrezza dello scheletro, così come prosciugato, non aveva un filo d’aria sotto la pelle, tutta l’aria era fuori, soffiata via dalle labbra strette, e lo circondava come un folletto (pag. 18) appariva don Pepe. Ha una qualche coerenza il fatto che si affacci alla mente l’esile figura del Quijote? Forse sì, se Unamuno, nel suo saggio straordinario, ne consacra a giusta ragione l’essere il Cavaliere dalla triste Figura incarnazione di una Spagna eterna e manifestazione del sentimento tragico della vita. E gli ascetici Santi del Greco? E i muri consunti, lirici e tragici di Tàpies?
Sono anni, quelli rievocati dal libro di Nottetempo, di emozioni scaturenti dall’amicizia e dall’esercizio della parola, accesso quest’ultima a piani spirituali molto alti. Il tempo, come spesso accade, non è stato forse accondiscendente: Forse abbiamo tutti fuggito l’emozione a un certo punto e perso l’incanto. Perché l’emozione è dolorosa, soprattutto dolorosa, e con l’andare del tempo, soltanto dolorosa (pag. 13).
Ma la mente sa conservare, la parola restituire, pur dentro la memoria e nella nostalgia: Pepe disegnava il suo autoritratto, con il quale firmava le dediche, con due tratti di penna che rappresentavano un uccellino indomabile. Due tratti di penna bastavano al suo autoritratto. Quanti ce ne vogliono per un ritratto? (pag. 21). Stando al libretto di Ginevra Bompiani molte di più, ma, in fondo, non tantissime se chi scrive è a sua volta in stato di grazia: 22 paginette custodite in una copertina di leggera carta ruvida di un rosa graduato da un tono chiaro in alto e via via più scuro procedendo verso il basso, un libretto agile da portare con sé e quel settecentesco uomo disteso il cui braccio sostiene il capo protetto dal cappello a larghe falde che è il logo della Casa editrice (ha gli occhi chiusi e sogna? Oppure medita? Oppure ascolta la lettura o il racconto di un invisibile lettore / invisibile lettrice?)
Abbiamo vissuto vent’anni sotto i suoi occhi. Non ci ha mai presi sul serio. Non ci ha mai parlato gravemente, se non di poesia. La poesia, come la religione, gli permettevano di far scaturire dalla lingua quei giochi d’acqua di cui la sua conversazione era così ricca. Quei giochi, li prendeva sul serio. Non la vita, non le creature di Dio, non le continue catastrofi dell’esistenza, non le crudeltà, le empietà, le passioni: solo la lingua e i due luoghi in cui raggiunge i limiti estremi di verità e menzogna: la poesia e la politica, Dio e il diavolo (pag. 23). Se mi è concesso dirlo, questo sasso mi sembra gettato proprio contro la volgarità e la rozzezza intellettuale e psicologica imperanti. I giochi di don Pepe sono di una senechiana serietà perché toccano il linguaggio e il senso dell’esistere, le ragioni profonde dell’appartenere alla polis e le pratiche tutte umane del bene e del male, il rapporto dell’uomo con Dio e col diavolo. Lorca, Alberti, Malraux, Buñuel furono non a caso suoi amici, quando necessario anche bersaglio dei suoi strali o, come nel caso di Lorca, oggetto della sua accorata compassione.
Max Brod, scrive in conclusione Ginevra Bompiani, per descrivere Kafka, ce lo fa vedere mentre attraversa una camera dove dorme il padre del suo amico. Con un gesto leggero alza le mani e mormora: “consideratemi un sogno”. Con la stesa grazia ironica e leggera Pepe si rivela, mi pare, nel ricordo che ho di una festa andalusa, direi nel 1969, dove in mezzo a giovani che ballavano, si mise a ballare da solo, con un melone fra le mani. Il melone era la sua ballerina. “Le donne per dovere, i ragazzi per piacere e il melone per delizia”, dice un proverbio arabo. Il suo ballo eretto, elegante, è la cifra di cui era il solo a conoscere il segreto, per fondere, in un’essenza unica, la comicità e la grazia (pag. 27). A suggello del lavoro c’è una data: Parigi, 11 novembre 2007. Ecco: un racconto pienamente bergaminiano lasciato decantare e donato ai lettori dopo un’accorta maturazione, lettori tutti che sicuramente hanno almeno un periodo della propria vita da ricordare quando la grazia (nella sua doppia accezione) di un’amicizia ha saputo illuminare fatti e cose, luoghi e pensieri.