
FRAULISSA SAVOLINO PREDICE IL DESTINO DI SUO FIGLIO.
Può cominciare da qui la scrittura:
qui giungere poi qui ricominciare:
nell’aria riarsa del Campo de’ Fiori.
Testardo e coraggioso chisto figlio
saprà la vertigine del pensiero
e l’esilio da terre serve, buie
d’ignoranza. La sua carne (la mia)
innervata di una lingua a vocali
piene, saporose, guaglione ‘spierte,
brucerà al fuoco chiaro del sapere
e al fuoco nero del boia.
Quisto leggo nella sua saliva
di caruso, ch’è saliva terrosa,
figliata per il mio ventre dalla
cisterna cumana e dal foco liquido
del Vulcano: pace mai.
Fuìre ‘n gropp’a muli stanchi per
gole infide d’Appennino cupe
sotto stelle ‘nfinite (màtria vera
del sapiente) – (la libertà la grido
in Italiano).
S’inverava la profezia in Campo
de’ Fiori sul corpo violato, tolto
alla mente, alla scrittura, offeso.

SEQUENZA DELLO STORPIO
Ti ricordo, Maestro, nel crepuscolo
dei miei giorni ancora colmi di libri,
d’amore ardenti, come m’insegnasti
che dev’essere ordita tramatura
di vita, d’intelletto, di sapienza.
Cavalco l’ippogrifo alato della
mia anca sciancata che mi fa deforme
nel corpo brutto, storpio – ma immenso
era, è il richiamo degli spalti arditi
degli universi, dei mondi: specchianti
spazi – e ho imparato: ch’io sia Atlante,
Ariele, Marco Polo e tuo copista.
Ti trasformasti fuoco, pietra lavica
nell’ore feroci di Roma, l’aulika.
Di nuovo Ti ho sognato, Accademico
di nulla Accademia, Maestro, luna
e delle solitudini così
come dell’ansia insonne di esplorare
(labirinto di gallerie cumane,
macchinàrie di cappelle ipogee).
Nella veglia mi segui, nei suoi passi,
Tu strada, scalinata, andito stretto
che chiamano se stessi “inquietudine”.
Quando cominciò tutto? Col finire
dell’infanzia è cominciato: venisti
nei sogni e nei libri dello sciancato
che nessuno guarda e che fa mestieri
da servo per la fonda dei velieri.
Nella stanza che fu frantoio affatico
la macchina-per-la-stampa poiché
l’intolleranza cresce e l’ignoranza
premendo alle pareti della stanza.
Stampare dunque, libri ecco diffondere
come rete che ricopra l’Europa:
i miei libri per voi, amici di Londra
e di Cracovia, di Valladolid
e di Francoforte, di Sarajevo…..
I vostri libri (oh quanto attesi!) che
mi raggiungono nell’insonnia atlantica,
atlantica perché sogno le Azzorre.
Scrivevi nella mente, passeggiando –
copiavi a penna, come fiammeggiando.
Te nne se’ gghiuto, Magister, luntano
‘e Vittenberga luterana, libera –
T’invitavano le strade d’Europa
e l’abitudine a dormire sotto
il respiro alto di caudate Artemidi –
per Europam te duxit scientiae sitis:
Copernicus et Faustus et Durerus
non furono soltanto amati nomi
ma anche moti del cuore che desidera –
amor di fiamma viva, m’insegnasti
in una delle Tue tre lingue madri –
uogne libro stà ccà e me canta ‘e Te.
Im Schneebett der Sprachen – come la neve
che accoglie i nostri passi, poi li beve.
Europa fragrante di biblioteche
ancora sconosciute ed invitanti.
Come i chierici antichi vesto gli abiti
pesanti e varcando a piedi passaggi
innevati qui mendico accoglienza
sulla soglia profumata dei libri:
laciami entrare, custode del varco,
sarà di nuovo nascita all’inizio
del libro, del respiro – ad imparare.
Apprendista copista per sporcare
le dita emozionate d’ossessione
scrittoria: il giorno non basta operoso,
dovrò bere la notte più lontana,
sorprenderne la neve antelucana.
Amo città di guglie, fiumi e cuspidi
dove si parlano lingue sinuose,
stratificate e sontuose. Vaneggio
di terre dalle marezzate cupole
pagane, capolavori di un Dedalo
marinaio dell’aria, saltimbanco
delle nubi – il cannocchiale, Maestro,
il cannocchiale, laico occhio curioso,
meravigliosa protesi alla mia sciancataggine,
s’affisa antidogmatico geografo
di poli, di equatori, di orizzonti
ultimi, voluttuosi labirinti.
I bracciali di ferro ai polsi serrano
il sangue, non la mente – né il Nolano.
Ultranovantenne intraprendo il viaggio
a Sud – sul tavolaccio in osteria
a Bologna, prima fermata dentro
lo Stato della Chiesa, vedo versi
di Lucrezio graffiàti col coltello
forse ebbro forse di goliardo che
mi piace pensare beffardo eretico –
scavalcàti ardui gioghi d’Appennino
a Monterchi vedo la luna scendere
lungo il muro dischiudendosi puerpera
che genererà la sacra emozione
di chi la guarda, stupido storpiato.
La febbre sale, barbaro paese
e luminose lande, le inattese.

Mi sono trascinato fino al luogo
del Tuo rogo e ho guardato i volti spenti
della gente: allora ho pianto: non sanno
o non ricordano – “spóstati, storpio!”
mi ha urlato qualcuno che ostacolavo
senza volerlo: mi strazia l’ottuso
rancore dei lacché, la tracotanza
sordida dei ruffiani – non il corpo
deforme come un albero stroncato
dal fulmine – perché ho il fulmine nelle
mani quando compongo tramatura
di parole e con il fuoco le inchiostro.
L’eco del Tuo rogo si propaghi
nel tempo, memoria che non si appaghi.
Contraddittoria Roma: è così buia
delle sue sagrestie – fuoco nero
che brucia i corpi – ma sa essere luce,
fuoco del pensiero quando entusiasta
varca limiti. Ho vagato per ore
fino alla corte inattesa e magnifica
che celando rivela, elicoidale,
l’ascensione: Sant’Ivo alla Sapienza,
mirabile fuoco CHE NON UCCIDE
se spazio e luce disegnano rampe
d’eroico furore, la Tua rivincita –
e essi non lo sanno! Neanche lo immaginano…..
Siccome so che bruceranno ancora
i corpi, ostinato amerò l’aurora.