Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: febbraio, 2015

Pensieri di Alexander Grothendieck mentre passeggia al Luxembourg (1970)

Grothendieck1958

 

Alexander Grothendieck ha vissuto gli ultimi decenni della sua vita in volontaria solitudine, desideroso di essere dimenticato. La scrittura che lo cerca, che lo immagina in quei giorni del 1970 quando decise di lasciare l’Institut des Hautes Études Scientifiques perché aveva scoperto che esso era finanziato dai militari, la scrittura viola la sua volontà e, consapevole di questo, a Grothendieck essa ritorna, ossessionata, rifiutandosi di dimenticare il fuoco di un pensiero, il coraggio di un’etica (ai miei amici carissimi di Perìgeion).

Sono felice per la libertà di quel bimbo
che spinge la sua nave dal bordo
della vasca qui al Luxembourg…
Sono felice per la sua mente di gabbiano
che, affaticata dal giuoco, s’addormenterà
subito stasera nella sua camera in penombra…
Quel bimbo non sa la distanza
tra la bellezza della sua nave sospesa
e libera nella vasca, Parigi assolata
e le minacce di guerra che
gli adulti ammassano sopra la vita
del pianeta.
Sono stanco. M’affatico sui manoscritti
e la matematica è essa stessa tuttavia
nave dallo scafo bellissimo
che mi suscita entusiasmi di bambino
e vengo fin qui a passeggiare:
sono felice per quel bimbo che non sa
l’offesa e la madre che gli porge la merenda
lo tiene ancora un po’ al riparo
dall’angoscia e dal lutto.
Hanno ritrovato il corpo di Celan nella Senna.
Azzererò i miei bisogni
farò silenzio dentro e attorno.
Sono felice per quel bimbo che tornerà
fiducioso alla sua casa:
che non si dimentichi mai
dei pomeriggi trascorsi a spingere una nave
nella vasca del Luxembourg
e che guardi una tavola pitagorica
intravedendovi  la traccia del chiamarsi.

I bimbi spingono le loro barchette
sull’acqua della vasca
e se ne prendono cura
con la serietà leggera del giuoco.

 

grothendieck

 

S’addensano voci

 

Alberto Burri: Cretto Grande Bianco, 1982.

 

 

(MONSIEUR DE MONTAIGNE FA VISITA
AL SIGNOR TORQUATO TASSO
RECLUSO A SANT’ANNA)

Porto la neve nella mia borraccia
di pellegrino, negli occhi il fiorire
dei roseti in riva ai laghi,
nella mente la lingua italiana
amorosamente appresa per leggerVi,
con Voi conversare.
I sassi del chiostro
ora scuotono il torpore se recitano
figure offerte all’estro della luce,
l’olmo grande sulla facciata d’ocra
annoda i conversari.
Renderò
grazie per la vostra visita, amico
nell’infermità subdola di talpa
che mi buca il petto: mi parlerete
di libri, anche del viaggio, anche d’immagini
catturate scendendo lungo terre
sognanti
e i vapori bizzarri del fantastico?

Non è dunque spenta la poesia
come non spenta è l’alba quando batte
alle finestre.
Ancora ho negli occhi
le alberete (cadenzano il cammino,
aeree trasparenze dell’aria:
con dolci cenni invitano il viandante
a meditare) poi dall’acqua sorge
specchio dentro specchio una città, ninfa
luccicante che chiama.
La sequenza
dell’archeggiato a Sant’Anna echeggiando
l’italiano con movenze francesi
del pellegrino dà contezza d’una
e di più d’una marezzata andanza
che rompere vorrebbe il cerchio ferreo
della melancolia.
Come giustificare il catatonico
torpore d’uno spirito guerriero,
al dolore già aduso, alla lotta?

Il potere dei prìncipi insozza
tutto quello che tocca, poi sbeffeggia
e dileggia la nostra dignità.
Lo so: i muri suppurano qui ovunque
orecchi e occhi di spia – ma io sono pazzo.
Rinchiuso qui: pazzo.
Evapora lunga
la voce della tortora che voli
tesse tra dentro e fuori, buio e luce.

L’arte Vostra per vortici di canto
leva alto il nome Vostro – lo sapete?
L’umor melancolico Vi conduce
a disperare, a rinserrarVi, solo.
Poeta foste in tempi d’amarezza,
Poeta siate in tempi di carestia.
Vi prego. Necessaria la parola
Vostra.
Sprofonda lo stanzone immane
nel crepuscolo che le ombre confonde
dell’Italiano e del Francese, insieme.

 

Sequenza dello storpio

 
giordano_bruno

 

FRAULISSA SAVOLINO PREDICE IL DESTINO DI SUO FIGLIO.

Può cominciare da qui la scrittura:
qui giungere poi qui ricominciare:
nell’aria riarsa del Campo de’ Fiori.

Testardo e coraggioso chisto figlio
saprà la vertigine del pensiero
e l’esilio da terre serve, buie
d’ignoranza. La sua carne (la mia)
innervata di una lingua a vocali
piene, saporose, guaglione ‘spierte,
brucerà al fuoco chiaro del sapere
e al fuoco nero del boia.
Quisto leggo nella sua saliva
di caruso, ch’è saliva terrosa,
figliata per il mio ventre dalla
cisterna cumana e dal foco liquido
del Vulcano: pace mai.
Fuìre ‘n gropp’a muli stanchi per
gole infide d’Appennino cupe
sotto stelle ‘nfinite (màtria vera
del sapiente) – (la libertà la grido
in Italiano).

S’inverava la profezia in Campo
de’ Fiori sul corpo violato, tolto
alla mente, alla scrittura, offeso.

 

 

giordano-bruno

 

SEQUENZA DELLO STORPIO

Ti ricordo, Maestro, nel crepuscolo
dei miei giorni ancora colmi di libri,
d’amore ardenti, come m’insegnasti
che dev’essere ordita tramatura
di vita, d’intelletto, di sapienza.
Cavalco l’ippogrifo alato della
mia anca sciancata che mi fa deforme
nel corpo brutto, storpio – ma immenso
era, è il richiamo degli spalti arditi
degli universi, dei mondi: specchianti
spazi – e ho imparato: ch’io sia Atlante,
Ariele, Marco Polo e tuo copista.

Ti trasformasti fuoco, pietra lavica
nell’ore feroci di Roma, l’aulika.

Di nuovo Ti ho sognato, Accademico
di nulla Accademia, Maestro, luna
e delle solitudini così
come dell’ansia insonne di esplorare
(labirinto di gallerie cumane,
macchinàrie di cappelle ipogee).
Nella veglia mi segui, nei suoi passi,
Tu strada, scalinata, andito stretto
che chiamano se stessi “inquietudine”.
Quando cominciò tutto? Col finire
dell’infanzia è cominciato: venisti
nei sogni e nei libri dello sciancato

che nessuno guarda e che fa mestieri
da servo per la fonda dei velieri.

Nella stanza che fu frantoio affatico
la macchina-per-la-stampa poiché
l’intolleranza cresce e l’ignoranza
premendo alle pareti della stanza.
Stampare dunque, libri ecco diffondere
come rete che ricopra l’Europa:
i miei libri per voi, amici di Londra
e di Cracovia, di Valladolid
e di Francoforte, di Sarajevo…..
I vostri libri (oh quanto attesi!) che
mi raggiungono nell’insonnia atlantica,
atlantica perché sogno le Azzorre.

Scrivevi nella mente, passeggiando –
copiavi a penna, come fiammeggiando.

Te nne se’ gghiuto, Magister, luntano
‘e Vittenberga luterana, libera –
T’invitavano le strade d’Europa
e l’abitudine a dormire sotto
il respiro alto di caudate Artemidi –
per Europam te duxit scientiae sitis:
Copernicus et Faustus et Durerus
non furono soltanto amati nomi
ma anche moti del cuore che desidera –
amor di fiamma viva, m’insegnasti
in una delle Tue tre lingue madri –
uogne libro stà ccà e me canta ‘e Te.

Im Schneebett der Sprachen – come la neve
che accoglie i nostri passi, poi li beve.

Europa fragrante di biblioteche
ancora sconosciute ed invitanti.
Come i chierici antichi vesto gli abiti
pesanti e varcando a piedi passaggi
innevati qui mendico accoglienza
sulla soglia profumata dei libri:
laciami entrare, custode del varco,
sarà di nuovo nascita all’inizio
del libro, del respiro – ad imparare.
Apprendista copista per sporcare
le dita emozionate d’ossessione
scrittoria: il giorno non basta operoso,

dovrò bere la notte più lontana,
sorprenderne la neve antelucana.

Amo città di guglie, fiumi e cuspidi
dove si parlano lingue sinuose,
stratificate e sontuose. Vaneggio
di terre dalle marezzate cupole
pagane, capolavori di un Dedalo
marinaio dell’aria, saltimbanco
delle nubi – il cannocchiale, Maestro,
il cannocchiale, laico occhio curioso,
meravigliosa protesi alla mia sciancataggine,
s’affisa antidogmatico geografo
di poli, di equatori, di orizzonti
ultimi, voluttuosi labirinti.

I bracciali di ferro ai polsi serrano
il sangue, non la mente – né il Nolano.

Ultranovantenne intraprendo il viaggio
a Sud – sul tavolaccio in osteria
a Bologna, prima fermata dentro
lo Stato della Chiesa, vedo versi
di Lucrezio graffiàti col coltello
forse ebbro forse di goliardo che
mi piace pensare beffardo eretico –
scavalcàti ardui gioghi d’Appennino
a Monterchi vedo la luna scendere
lungo il muro dischiudendosi puerpera
che genererà la sacra emozione
di chi la guarda, stupido storpiato.

La febbre sale, barbaro paese
e luminose lande, le inattese.

 

GiordanoBruno1973

 

Mi sono trascinato fino al luogo
del Tuo rogo e ho guardato i volti spenti
della gente: allora ho pianto: non sanno
o non ricordano – “spóstati, storpio!”
mi ha urlato qualcuno che ostacolavo
senza volerlo: mi strazia l’ottuso
rancore dei lacché, la tracotanza
sordida dei ruffiani – non il corpo
deforme come un albero stroncato
dal fulmine – perché ho il fulmine nelle
mani quando compongo tramatura
di parole e con il fuoco le inchiostro.

L’eco del Tuo rogo si propaghi
nel tempo, memoria che non si appaghi.

Contraddittoria Roma: è così buia
delle sue sagrestie – fuoco nero
che brucia i corpi – ma sa essere luce,
fuoco del pensiero quando entusiasta
varca limiti. Ho vagato per ore
fino alla corte inattesa e magnifica
che celando rivela, elicoidale,
l’ascensione: Sant’Ivo alla Sapienza,
mirabile fuoco CHE NON UCCIDE
se spazio e luce disegnano rampe
d’eroico furore, la Tua rivincita –
e essi non lo sanno! Neanche lo immaginano…..

Siccome so che bruceranno ancora
i corpi, ostinato amerò l’aurora.

 
 

Ars reminiscendi

 

 

giordano_bruno

 

 

 

Concatenazioni 7: la fisica vicinanza ai libri

1. Ho già scritto altrove (http://samgha.me/2013/05/16/per-kavafis-29-4-1863-29-4-1933-2/) che appartengo ad una generazione la quale, pur avendo imparato a servirsi dei mezzi informatici, trova irrinunciabile e particolarmente stimolante il contatto anche fisico con i libri; ho scritto anche che altro spunto per avviare fantasticherie sono per me le foto di poeti e di artisti.

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2. C’è questa fotografia di Vladimír Holan e l’ombra dominante, le pareti stracolme di libri, il poeta serio e concentrato nel suo dialogo con l’interlocutore. Sono gli anni della reclusione volontaria sull’isola di Kampa, il leggendario spazio con le imposte delle finestre sempre chiuse dal quale il poeta sapeva vedere molto meglio e di gran lunga più in profondità di chi, invece, si credeva libero. È la casa del poeta tragico, come scrive in Una notte con Amleto.

3. Non si tratta del luogo comune della Praga tenebrosa e misteriosa, è, invece, il nodo inestricabile del vivere all’urto con la storia.

 

lezama-lima1

4. Calle Trocadero 162, bajos, Havana Vieja: José Lezama Lima, anche lui circondato da tantissimi libri, ma lo scrittore siede come adagiato e soddisfatto nel centro del suo impero. Lo chiamavano El gordo de Calle Trocadero, lui che sofferse la fame in anni orribili, lui eruditissimo scrittore e poeta determinato a scrivere i suoi libri-mondo.

E immagino María Zambrano durante una delle sue frequenti visite all’amico: si versa dell’acqua dalla brocca e la luce scintilla nel bicchiere spiccato vetro dalle finestre della Habana preserale. Questa è una casa sconfinato continente; le mani di María delfiche pietre scarnificate da piogge millenarie porgono all’amico un bicchiere d’acqua.

 

René Char.

5. René Char ad un tavolo di legno massiccio nella sua casa aux Busclats all’Isle sur la Sorgue. Il suo viso è una pietra o un tronco d’olivo segnati dagli elementi naturali. Scrivere è una folgore che trancia il buio.

 

RobertoRoversi1

6. Roberto Roversi ha guardato per decenni l’Italia sepolta dalla neve, restaurato i libri danneggiati riparandoli con la Coccoina, accolto tra gli scaffali della libreria Palmaverde chiunque avesse voglia di discutere di poesia e di politica. Quante volte ha dovuto traslocare la Palmaverde sino all’ultimo, significativo indirizzo: Via de’ Poeti, 4 – Bologna. Traslocare i libri è impresa immane: li si toglie dagli scaffali, li si sistema nei cartoni, li si trasporta altrove e di nuovo rimetterli sugli scaffali; forse il singolo libro ha attitudine a viaggiare, a spostarsi, ma 3.000 o 5.000 insieme?

 

Lezama Lima2

7. MARÍA ZAMBRANO

Maria ci si è fatta così trasparente
che la vediamo nello stesso tempo
in Svizzera, a Roma o all’Avana.
Accompagnata da Araceli
non teme né il fuoco né il gelo.
Suoi compagni i gatti del freddo
e i gatti del caldo,
gli elastici fantasmi di Baudelaire
la stanno lentissimamente a guardare
così che Maria timorosa comincia a scrivere.
L’ho udita parlando spaziare da Platone a Husserl
in giorni alterni e verticalmente opposti
e finire col cantare un corrido messicano.
Le onde ionie del Mediterraneo,
i gatti che usavano la parola come,
(secondo gli Egizi essa unifica tutte le cose
come un’ eterna metafora),
le parlavano all’orecchio
e Araceli tracciava un cerchio magico
con dodici gatti zodiacali
ognuno aspettando il suo momento
per salmodiare Il libro dei morti.
Maria è per me
come una sibilla
cui con discrezione ci avviciniamo,
credendo di udire il centro della terra
e il cielo dell’empireo,
che si trova più in là del cielo visibile.
Viverla, sentirla giungere come una nube,
è come prendere un calice di vino
per immergerci nel suo limo.
Ella tuttavia può accomiatarsi
abbracciata ad Araceli,
ma sempre ritorna come luce tremante.

Queste le parole di Lezama Lima per l’amica carissima, questo il mio tentativo di traduzione.

 

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8. Il tema del muro ricorre nella poesia di Holan, così come quello della musica di Mozart: i muri sono pagine, sembra insegnarci Antoni Tàpies e la sublimità della musica mozartiana s’oppone alle tenebre; lo stesso sembrano fare i libri alla parete nello studio di Holan; abita prima U sovových Mlýnu n. 7, poi U lužického Semináře 18, sempre sull’isola di Kampa, sempre in dimore già abitate da grandi spiriti della cultura ceca e ci immaginiamo le notti del poeta in conversazione con Amleto, l’instancato interrogare.

 

Roberto Roversi 2

9. Che cosa rimane della Bologna di Roberto Roversi, oggi?

10. Interno provenzale
quella sedia impagliata
quieta all’angolo, gialla.

“Puoi posarvi gli abiti
logorati d’attesa”
dice la voce o i libri
che compulsi, vorrei aggiungere.
E con una matita
sottolinearvi magistrali versi.

“T’arrischierai di nuovo
a scrivere, ancora, dopo i maestri?”
soffia la voce.

 

holan2