Stasera
stasera e con la notte di novilunio
(buia quindi, chiusa come
un sacco di sementi in attesa
in attesa della seminagione)
velata la luce della lampada
scrive e tesse
nel buio e nell’attesa
che vengano paracadutate nel ventre
della notte
(parchi i fili luminosi del canto)
le armi per i partigiani della Serra.
Così l’immagino a vegliare
in una casupola di pietra
teso al lamento dei morti
e alla paura dei vivi
nella lotta partigiana mai cessata
nell’idea (alta) di comunità
e di parola
(per Paolo Bertolani)
Un po’ come a dei figli voglio bene a ciascuno dei miei cortometraggi. Con ciascuno di essi esiste un legame personale che me li rende cari nonostante le loro imperfezioni, anzi, probabilmente, proprio come a dei figli , a partire da esse. Generalmente il punto di partenza prima di cominciare a montare un lavoro è una sorta di fusione reversibile con l’ambiente. È capitato nel tempo e in particolar modo negli ultimi lavori, che io e Nicola Sisci, compagno di tante avventure, nonché talentuoso curatore della fotografia, a un certo punto, cominciamo a passare del tempo in qualche luogo, con qualche persona, per qualche ragione. I perché di questa necessità, mentre vengono soddisfatti con abbozzi di risposte, restano in realtà oscuri e spesso rimangono tali sino a diverso tempo dopo che il lavoro è stato portato a termine. Ci siamo solo noi, con la telecamera e il nostro comune piacere di “stare” insieme, in quella situazione. Ma ogni esperienza vissuta su quei set è realmente non solo una piacevole necessità, è proprio un’esperienza formativa dal punto di vista umano oltre che una continua scoperta di possibilità e mezzi che il cinema, per due autodidatti un po’ naif come noi , offre.
I sette minuti di Somewhere rappresentano al massimo grado un’espressione di quella fusione reversibile cui accennavo. Per tre anni, in estate, io e Nicola ci siamo recati nel cuore del Parco nazionale del Pollino facendo base a Casa del Conte, minuscola frazione del bellissimo paese del Pollino Lucano “Terranova del Pollino”. Qui vive una persona speciale dotata di un carisma fuori dall’ordinario. Abbiamo avuto il piacere di diventare suoi amici e di passare del tempo indimenticabile insieme a lui e la sua altrettanto speciale compagna. Stanchi e a volte logorati dalla frenetica vita delle metropoli in cui vivevamo e viviamo, pochi giorni in quei luoghi così ameni, essenziali, per certi versi anche duri, erano in grado di ricaricarci per mesi. Nacque un progetto iniziale che era quello di ritrarre tutto ciò attraverso il nostro carismatico amico; ma, come sempre accade nell’arte e soprattutto nel cinema, esistono tali e tanti fattori incontrollabili che ti portano inevitabilmente a modificare l’idea iniziale e a metterti al servizio di un qualcosa di nuovo. La soluzione migliore, ho avuto modo di imparare, è quella di non opporre mai troppa resistenza quando questi imprevisti accadono. In questo caso il nostro amico era tanto carismatico quanto umile e dunque l’idea di essere il fulcro, il centro d’interesse di un documentario lo metteva a disagio e, a causa di ciò, decise per un docile rifiutò . Ma noi, attraverso di lui, entravamo sempre più in contatto con l’ambiente e la gente del luogo. Attraverso lui, abbiamo incontrato decine di persone che ci hanno mostrato qualcosa di intimamente segreto della loro vita, della loro personalità. Senza lui, questo sarebbe stato impossibile. Poté invece accadere semplicemente perché di lui si fidavano e di conseguenza si fidavano anche di noi. La fiducia è alla base di certi miracoli. Nient’altro. Così abbiamo accumulato diverse ore di girato per farne un documentario di una certa durata. Ma poi è accaduta un’altra cosa imprevista e imprevedibile: una delle bands da me tra le più amate, l’ islandese Sigur Ros, invita i film maker di tutto il mondo a scegliere un qualsiasi brano dell’allora ultimo loro album “Valtari” per farne un video secondo la massima libertà possibile di espressione. Per me fu un richiamo irresistibile. Avere la possibilità di usare non clandestinamente una colonna sonora di quella qualità (tra le musiche dal mio punto di vista più adatte a un certo tipo di cinema fortemente onirico ed evocativo) perché, in qualche modo , erano stati proprio i suoi autori a concederlo e a chiederlo. Mi misi subito all’opera e dopo avere scelto il brano dovetti operare un’altra faticosa e difficile scelta: rinunciare a tantissime persone e a tantissime sequenze ambientali perché avevo solo 7 minuti a disposizione. Questa è la dura, ma fortemente educativa, legge del montaggio: imparare a rinunciare a cose in se stesse anche molto intense e belle, ma che nell’equilibrio generale di un’opera non servono realmente. Dunque da diverse ore di immagini rimasero 7 minuti, 4 personaggi e un ambiente, che, come mi insegnano vari giganti del cinema, non è solo sfondo su cui i personaggi si muovono, ma personaggio anch’esso e tra i più vitali. Che cosa resta in fin dei conti allora, un documentario? Non direi. Un videoclip? Neanche. Allora che cosa? Èrimasto qualcosa che ha a che fare con tutto ciò che qui ho raccontato: quel legame personale che sta a monte delle storie che poi finiscono in un piccolo film. Resta qualcosa che richiama alla mia mente quel meraviglioso brano di De André dal titolo il suonatore Jones. Resta la libertà che lui aveva visto laddove di solito gli altri non vedevano niente e di cui egli cantava.
Affittai un appartamento a Berlino (Mitte)
ombre allargate sul divano
i palmi delle mani di Kleist avevano lasciato
un’illusione di se stesse sul muro
e i libriccini gialli di Reclam stavano
impilati per terra in corridoio
ogni notte si destavano i muri attanagliati dagli incubi
(gli aerei bombardano e le sirene trapanano il fegato)
un grande appartamento attraversato dalle luci
intermittenti della notte
il muro caduto da poco
e una speranza nuova
e i treni musicale sferragliare attraverso Bahnhof Zoo
ecco: ti racconto una stazione della mia vita (pur immaginata
eppure nella mente così reale)
ti racconto un amore (la mia Germania
e la sua lingua che amo oltremisura)
e ti penso con il tuo Rilke in una grande casa di pietra
appoggiata alla montagna
in questa stazione della vita dove s’arriva per ripartire.
Dallo stereo Johann Sebastian Bach: il pianoforte ben temperato.
1. E leggo che la Francia ha bloccato le importazioni di frutta e di verdura dal Salento temendo contaminazioni; e leggo che l’UE ha dato ragione alla Francia; e chiedo che cosa sia stato fatto di concreto, di intelligente, di risolutivo in questi anni in cui la xylella fastidiosa attaccava e sterminava i nostri olivi: nulla.
2. E continueranno le emigrazioni da Sud verso Nord, ancora più numerosi i Salentini lasceranno la loro terra.
3. Che cosa vedono i turisti che di luglio e d’agosto vengono in Terra d’Otranto? Che cosa capiscono di noi?
Nulla.
4. Voi Meridionali siete soltanto bravi a lamentarvi, direte. Non sapete fare altro. – Sarebbe la verità se non fosse che tutto, tutto poggia su di un sistema antiumano, votato esclusivamente al profitto. Andate a chiederlo ai fratelli Greci. Andate a squartare le viscere della nostra storia: e forse capirete.
5. Non è questa l’Europa che volevamo, non volevamo questo.
6. Poi c’è anche chi raderebbe al suolo i campi dei Rom. Ci schiaccereste tutti, come si fa con gli insetti che ripugnano. Siamo insetti che ripugnano. Ma non avete fatto i conti con la nostra lucida ira.
7. Lecce è, in questi mesi, capitale di un contado dove gli olivi, i millenari sapienti, sono minacciati forse dalla xylella, certamente dalla voracità di pescecane del profitto: l’ira mi spinge allora a questo canto angosciato e folle:
Lecce non è un organo di barberia a manovella
che fa balzare festivals dal suo ventre
né soltanto muri roventi di siccità
ma un giro ebbro del sangue
e un sistema non euclideo di piani inclinati:
una cisterna a lato dell’andito, un ballatoio di servizio,
un budello di gradini conducono
all’oltre:
varcano.
Non è sul mare Lecce, ma lo chiama
e gli avvia camionabili:
quando tentò la scrittura prima la mente
e poi il foglio
incontrò l’acquamadre l’acquasorella l’acquamante
seppe (lo seppe
la scrittura imparandolo dall’acqua
e lo seppe
l’acqua fecondando la scrittura) che
due nella Città delle visioni è numero del
moltiplicarsi ma anche del rischio e dell’
inatteso
che l’acqua non sosta ma scorre e discorre
poi s’inabissa
che una tangenziale tesa ad aggirare la Città
non è
più veloce del desiderio
e che proiettarsi verso l’altra sponda acuisce
il bisogno di spazio e di canto.
Non avrebbero altrimenti aperto quel numero
folle di finestre e i vetri sottili come la vita
a rimandare ad occhi avidi il passaggio delle nubi
sopra oliveti e terra rossa.
Piove sangue il Cristo crocefisso in Duomo
come sospeso nell’elevazione della
navata e appeso al buio rigato di fiammelle
viene avanti viene avanti
mentre i tagli sul corpo grondano acqua salmastra
come dal volto di feriti olivi, offesi, minacciàti, fatti monchi, trascuràti, come
d’ignoranza e smemoratezza irroràti (ma non
ma non dalla loro gente, non dalla gente degli olivi, non
dalla gente che con l’acqua del sudore e pure delle lacrime li ama
e vorrebbe lavarli:
per guarirli).
Accade così che, entrando
e
uscendo da stanze sature di tempo,
entrando e uscendo dal campo visivo di vicoli verticali
come gru di tufo in manovra, quando
si sfinisce di sguardo il camminare,
teso l’orecchio all’ascolto, dentro gallerie di pietra
giunge scintillando l’acqua fino alla Città barocca
salgonosalgonosalgono per spostamenti di cielo
le ringhiere dei balconi e negli echi ondulatori dell’acqua
l’assetante nostalgia la voce e il vento
sono ancora un giro ebbro del sangue
e un sistema non euclideo di piani inclinati.
8. Ascolto spirare l’angoscia dalle terre di Galatina e di Gallipoli, hanno paura nelle terre fino a Leuca e poi a risalire, dal versante adriatico: che cosa intendono fare? I politici, gli economisti, chiedo, che cosa intendono fare? I mafiosi lo sanno già e sono già all’opera: da gran tempo.
9. Piange la gente degli olivi ed è piangere per le proprie radici millenarie, ora avvelenate e svendute.
10. Fin qui giunge la scrittura. La sua impotenza mi esplode tra le mani. Ma non è finita, sono certo che non è finita.