Una poesia tra Italia e Germania: per Anna Maria Curci
1. Nuove nomenclature e altre poesie
Era ora che la poesia più recente di Anna Maria Curci, apparsa nel corso del tempo su alcuni blog, prendesse la forma di libro e, sottolineo, di un libro “Arcolaio”, Casa editrice esigentissima con gli autori e poco propensa a farsi vedere tra i baracconi della gran (si fa per dire) fiera dell’editoria di poesia italiana; Anna Maria e l’Arcolaio vanno molto d’accordo anche in questo senso: nessuno dei due spasima per apparire collezionando superficiali passaggi su blog e riviste, ma entrambi preferiscono l’attesa paziente di lettori che a un autore e a un editore chiedono a loro volta serietà e vero amore per la scrittura. E infatti il libro di Anna Maria pone il proprio epicentro nella riflessione sul linguaggio e sul lessico, quindi si affida alla radicalità del poetare che è, nel suo profondo, linguaggio e lavorio sul linguaggio: da qui le nuove nomenclature del titolo, vale a dire l’indagine impietosa su vezzi, mode e storture del linguaggio attuale. Sono certo che Anna Maria non troverà sminuente, ma al contrario comprenderà il senso di quello che sto per dire e cioè il fatto che il suo libro, se fosse scritto in tedesco, apparterrebbe a pieno titolo alla migliore poesia di lingua tedesca di questi nostri anni che sa così bene coniugare vaglio critico nei confronti del reale e sapienza letteraria e si porrebbe nel solco di Brecht; la silloge possiede quindi, tra i molti, il pregio di guardare ben oltre i confini nazionali e di sviluppare un discorso di etica del dire e di tesa, talvolta risentita ira nei confronti dell’abuso e del delittuoso maltrattamento del linguaggio; esperta e fine germanista, Anna Maria conosce bene il dibattito poetico che dopo la Seconda Guerra mondiale si è andato svolgendo nelle due Germanie (quindi in due realtà diverse e per differenti motivi assai stimolanti) e in Austria, conosce altrettanto bene il dibattito poetico e politico in atto in Italia e le sue nomenclature si profilano così come un acuminato scandaglio del linguaggio che è parte essenziale del reale e del momento storico attuale (Enzensberger, Lutz Seiler, Pasolini, Fortini, Volponi potrebbero essere alcuni dei nomi di riferimento).
Ancora tremo al vano mio sussulto
tè con l’apostrofo, po’ con l’accento (pag. 86).
Dai dodici distici del disincanto (distratto décalage) isolo proprio questo distico per suggerire a chi qui mi legge il rigore e il risentimento che sorreggono tutto il libro: è questo ciò di cui parlavo accennando al fatto che Anna Maria non ha interesse per l’aspetto estetizzante del linguaggio, ma per le sue ricadute etiche; parlare e scrivere correttamente, conoscere le regole dell’ortografia e applicarle, conoscere la propria lingua e rispettarla, praticare con totale disciplina il vaglio critico nei confronti del linguaggio significa conservare la propria libertà e la propria integrità etica.
Non a caso c’è un affondo nella nostra realtà più triste e più mistificata:
Clandestino
Sta dalla parte dei respinti
e non l’ha scelto. Il tedesco
lo chiama nero, se lavora,
a bordo passeggero cieco.
Il francese lo bolla senza
carte, per l’inglese è immigrante
illegale. Soliti ignari,
qui, rispolverano il latino.
Eppure, “di nascosto” era “clam”:
cosa c’è di segreto in chi,
nell’angolo, prega che lingua
non taccia o copra il suo destino? (pag. 23)
Come si può subito osservare il grimaldello di cui Curci si serve per smascherare ipocrisie e menzogne è proprio il linguaggio e la scienza etimologica che nella storia e nelle viscere del linguaggio scava senza riguardo e, sull’altro fronte, sempre il linguaggio è usato in modo non pacificato e non consolatorio, ma al contrario, per creare dissonanze e urti (c’è reminiscenza delle Moritaten alla Brecht e alla Kurt Weil?):
Elette evasioni
Non è imperialregia
la nostra Cacania,
ma in forza di eletti
si riempie di schizzi.
Gli eletti (hanno letto
romanzi di Musil?)
s’adontan sovente
d’altrui deiezioni,
dimentichi, oppure
l’oblio fingendo,
che elette evasioni
han fatto l’orrendo (pag. 25).
Il lettore capirà forse ora meglio perché poc’anzi parlassi di “risentimento” in questa poesia – evito il termine “indignazione” che mi sembra inflazionato e anche irriso – e “risentimento” dice forse in maniera accettabile di un sentimento intriso di rivolta e d’ira che risale dalle profondità della persona per esprimersi con un atto di rifiuto e di opposizione, oltre che di resistenza e di denuncia.
Halde
Permanente abusiva, discarica
camuffa astuta il suo lussureggiare.
E s’ergono miasmi in questa landa.
Con la scarmigliatura d’ordinanza
una folle affastella resistenze.
Sulla lordura vuole volteggiare (pag. 28)
L’illustrazione di copertina di Luigi Simonetta (“Halde” – folle nella discarica) anticipa proprio questo testo e irresistibili si profilano le equazioni: discarica = la nostra realtà politica, sociale e culturale // la folle = la poetessa.
L’arte è un “affastellare resistenze” e un volersi elevare “sulla lordura” (non per tenersene lontani o per un senso di superiorità, MA PER ADDITARNE LA NATURA E L’ESISTENZA); la discarica è “permanente e abusiva”, ma sa camuffarsi. Eccola la risposta di Anna Maria a chi chiede come debba atteggiarsi la poesia contemporanea e quale rapporto essa abbia con la realtà: la poesia è un atto di consapevolezza e di denuncia, è un non scendere a patti con ciò che e con chi provoca i miasmi velenosi ed è un atto di libertà rintracciabile nello stato di follia, ma, credo, secondo l’idea di Dürrenmatt che fa scegliere al suo Möbius ( il protagonista del dramma I Fisici) la Narrenkappe (il berretto del folle) proprio per difendere la propria libertà di scienziato (Solo nel manicomio posso essere libero, afferma Möbius in una scena centrale del dramma, salvo poi fallire nel suo progetto, ma questa è un’altra questione).
Lumpen – prefisso
Volano stracci intorno.
I veri hanno colori
da tuta mimetica,
inodore è il tanfo.
Nella notte ti culli
e ti spaventi a vuoto
per Lumpen variopinti
(rinnegati parenti).
Il cencio del risveglio
non porta la ragione.
pre-fissi la coscienza
con novelitas lumpen (pag. 30).
Si capisce molto bene, allora, l’impostazione di un libro che nel linguaggio focalizza e trova e critica il negativo (spesso liquido, sfuggente, ipocrita e ingannatore) che s’insinua nel nostro presente, determinandolo; il linguaggio è, infatti, strumento formidabile di persuasione e di potere: quando Anna Maria Curci riflette su sigle come NASDAQ o su parole d’ordine come flessibilità ne mette a nudo il portato di disonestà e sfruttamento e infelicità che violento s’abbatte sulla vita di milioni di esseri umani.
Macelleria
L’ho visto, da bambina, funzionante.
Era a Roma, era al monte dei cocci.
Mio padre, col suo camice e coi timbri,
lo conosceva con l’antico nome.
Fu la sua sede poi in periferia,
innocuo il nome: solo centro carni.
Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli,
pensavo al mattatoio di Testaccio.
Sociale, sale ancora a narici
marchiate squarto di macelleria.
In cella frigorifera hanno messo
quel ricordo di garretti recisi (pag. 31).
Il dato autobiografico si coniuga così con quello generale: “centro carni” è etichetta apparentemente neutra e tranquillizzante, “macelleria” e “macello (sociale)” non lascerebbero invece adito a dubbi, ma la tendenza generalizzata è quella di attenuare e rendere dolciastra la realtà, tramite le definizioni e le sigle occultare le azioni di violenza e di sottrazione della democrazia di cui siamo vittime. Viviamo e lavoriamo in una realtà il cui vero nome, sembra suggerirci questo libro impietoso, è “discarica” e “macelleria”. E anche il fior fiore della lirica occidentale (il canto bellissimo di Mignon nel Wilhelm Meister di Goethe, ad esempio – Kennst du das Land wo die Zitronen blüh’n? Conosci la terra dove fioriscono i limoni?) diventa ridicolo e naufraga miseramente nel nostro presente di cloaca: (…) // E lì dove fioriscono i limoni / (ma lo conosci davvero, quel paese?) / Mignon è partita e poi tornata / più cieca dell’arpista, che si arrese – pag. 33.
Il precariato è ordine normale, Farli Kanonenfutter post-fordista / è mira della nuova produzione (pag. 35) e il termine tedesco è ben più esaustivo dell’italiano “carne da cannone”: il tedesco dice “cibo, nutrimento” per il cannone…
Anche la quête (pag. 36), nobilissima attitudine esistenziale, morale e culturale che ci deriva dal medioevo europeo, persino la quête è scaduta a manfrina da commediola e, con altri termini abusati quali rigore (pag. 37) e tagli (pag. 39), precipita nel frullatore universale, sotto il rullo compressore generalizzato, nell’imbuto che instrada ogni cosa nell’enorme apparato digerente in cui abbiamo trasformato il nostro con-vivere.
Staffetta, il titolo della seconda sezione del libro, fa pensare alle staffette partigiane e quindi a una scrittura come resistenza:
in-zwischen
in quei giorni
in cui la vita
in altri spazi
invasione appare
indebita e viziata
incursione banale
incede il dubbio (pag. 55).
Il frattanto del titolo, l’avverbio tedesco in-zwischen, si ripete nell’anafora del prefisso, ma per martellare proprio il farsi strada del dubbio (in-cede il dubbio) (anche questo in parte atteggiamento brechtiano: il dubbio come atto critico e procedere dialettico) che per Anna Maria mi sembra assuma anche un risvolto esistenziale, rappresentando il momento in cui ci si ferma e si fa silenzio in sé per riflettere e rimettere in discussione le certezze accumulate. Forse non è allora un caso il fatto che in questa parte del volume si attraversino alcune date che evidentemente hanno un significato nella vita privata dell’autrice e che stabiliscono un dialogo molto concreto e, appunto, dialettico con tutta la poesia che man mano si sviluppa nelle Nomenclature; il 19 luglio 1943 (Sotto la rete vedo i calcinacci / e nonno che ci guarda preoccupato / mi stringo a mia sorella che ha due anni // fa caldo, è luglio e sono a San Lorenzo – pag. 56), il 16 ottobre 1943, rastrellamento degli Ebrei di Roma: (…) / Razzia, rastrellamento / nel cielo grigio topo – pag. 57.
E per una germanista di vaglia come Anna Maria Curci, che la Germania ben conosce e ama e per la quale la storia e la letteratura tedesche sono una seconda anima, non meno importante della prima, ma anzi dalla prima inscindibile, luogo e paesaggio interiore per una riflessione sulla violenza e sul rapporto tra arte e potere è proprio Berlino, la Berlino dei nostri giorni, l’ex capitale del terzo Reich, l’ex città occupata e divisa, la nuova Capitale di una Germania che, malgrado i successi economico-finanziari, cerca ancora la sua identità:
13 agosto 2011
Berlino è piena di inciampi
e moniti, Stolpersteine.
A Babelplatz leggi lampi
di Hassan, da Almansor di Heine:
«Non fu che un preludio: chi fa
rogo di libri, persone
brucerà». lo ricordano
stele di cemento a Shoah.
Ma i turisti affollano
i negozi di Ampelmann,
storcono bocche, sbuffano
come a Federico il Grande
il cavallo, che esibisce
capi di stato maggiore
e con la coda spazzola
poeti a Unter den Linden.
io guardo muri dipinti,
la sera un video di Arte
su JFK, quel giugno, lì.
Se vuoi, dai voce alla storia (pag. 58).
Se vuoi, dai voce alla storia: mi convinco, rileggendo questi versi berlinesi, che una delle motivazioni più profonde del libro sia proprio la riflessione, attraverso il linguaggio, sulla storia, su eventi del passato che hanno forgiato questo presente in cui ci troviamo a vivere e che ci fa spesso male o ci provoca empiti di ribellione; il rapporto teso e polemico, mai pacificato e mai semplice con il proprio presente conferisce ai versi di Curci uno spessore etico e conoscitivo davvero grande, cosa di cui tutti dovremmo esserle grati; mi capita di leggere troppi libri di poesia ermeticamente rinchiusi sui dolori o sui vezzi stilistici dell’autore e intanto ovunque in Europa si costruiscono nuovi muri. Anna Maria rievoca invece gli Stolpersteine (alla lettera “pietre d’inciampo”) che non è raro incontrare per terra inserite nel selciato di molte città tedesche sotto forma anche di piccole iscrizioni su metallo a ricordare o le vittime della Shoah, o quelle dei bombardamenti o ancora i morti per droga o AIDS: si cammina e si “inciampa” in un nome, in una data, in un fatto perché i Tedeschi di oggi sanno molto bene quale potere possa avere la memoria e quali conseguenze ha la rimozione della stessa; e apprezzo moltissimo il riferimento a Heine, poeta eccelso e non molto amato ancora oggi in Germania proprio perché capace di costituire ancora adesso la voce scomoda e inconciliata della coscienza dei Tedeschi, tant’è che si parla tutt’ora della Wunde Heine, la ferita-Heine, ché la sua opera (e la sua vita) sembra essere una ferita non rimarginata, che si riapre e duole, ma che si vorrebbe far passare sotto silenzio: Heine, rivoluzionario ed Ebreo costretto ad un trentennale esilio a Parigi, restituisce in tutta una serie di articoli e di opere poetiche l’immagine di una Germania (da lui pur amata fino allo spasimo) retriva e medioevale, antimoderna e razzista; ma per la stragrande maggioranza dei suoi visitatori Berlino è un accumulo di luoghi comuni e di stereotipati souvenirs (l’omino dei semafori della ex DDR o il ricordo di Federico il Grande), mentre la Capitale tedesca è anche una stratificazione di memoria storica, ad esempio il Muro e la visita di Kennedy che, proprio davanti al Muro, iniziò il suo famoso discorso con la frase “Ich bin ein Berliner” (io sono un Berlinese).
E a questo punto potrei stilare un elenco degli altri autori cui Anna Maria fa esplicito riferimento nel suo libro: Hilde Domin, Volker Braun, Hans Magnus Enzensberger, Alfred Andersch, ma anche Cristina Campo e Leone Traverso (questi ultimi due insigni germanisti, tra l’altro) e c’è l’acquerello di Klee (l’angelo della storia che richiama subito alla mente il nome di Walter Benjamin), c’è Jaco Pastorius e c’è Isabella di Morra, la cui affinità Anna Maria sente forse in quanto donna e poeta e in quanto entrambe sono di origine lucana:
Quartine della Morra
I
Vado dietro a Isabella e non mi pento –
«Torbido Siri, del mio mal superbo» –
Non è cupio dissolvi, né spavento,
volto le spalle a tal marciume acerbo.
II
Volteggia e mi picchietta sulla spalla
– mentre procedo al fiume agile è il passo –
la gazza, contraltare alla farfalla.
Luci raccatta e ingoia senza scasso.
III
Me ne lancia qualcuna, noncurante
degli sguardi affidati alla sterpaglia.
Subito appare, piana e già tremante,
la solita ragione che s’incaglia (pag. 64).
Non si tratta per niente di furia citazionista o di esibizionismo erudito: Anna Maria Curci scrive il suo libro tenendolo sempre saldamente ancorato alle voci degli autori da lei stimati e amati, vuole che le nomenclature dichiarino la propria interconnessione con l’universo di pensiero e di poesia cui appartengono lasciando emergere costantemente il dialogo tra la propria scrittura e quella altrui; e allora il sostantivo nomenclatura (che talvolta potrebbe anche far pensare all’inquietante nomenklatura politica, ma pure culturale di sovietica memoria) fa baluginare come suo significato altro e con connotazione stavolta positiva un qual certo “fare il nome” degli scrittori e dei poeti capaci di essere stelle polari per chi, con la consapevolezza di quanto essa sia difficile e problematica, si ostina a dedicarsi alla scrittura in una realtà ostile e sfuggente.
Leggiamo allora in sequenza tre testi, l’uno dedicato a Paul Celan, il successivo ad Oskar Pastior, il terzo a Hölderlin (quest’ultimo dai Settenari sparsi) :
Leggendo “Oscurato” di Celan
È ben strana la fune. Sembra tesa,
pelle d’asino lì lì per scoppiare.
Poi da un lato forma un cappio a sorpresa
dall’altro finge piena mansuetudine.
Prende corpo la vera solitudine
irretita da inganno di bocciolo.
Amnesia dei protervi? Improntitudine
anche soltanto pensarne la tregua (pag. 65);
Traducendo Zärtlich di Oskar Pastior
Con Pastior porto le civette ad Atene;
gelosamente, al ritmo di Tirso.
E mi sorride la saggia noncuranza
del cuore che saltella, carezza
immemore di ingorda indifferenza (pag. 68);
III
Nella torre a Tubinga
scriveva Scardanelli
quel bagliore di alture
che cerco di tradurre (pag. 75).
Eccolo, esplicitato, l’incrociarsi fecondo della poesia con la passione traduttoria di Anna Maria Curci; Anna Maria scrive sempre con una totale consapevolezza che la nostra scrittura nasce anche alla scuola di coloro che riconosciamo come nostri maestri e, nel suo esplicitarsi, quella stessa scrittura porta dentro di sé memoria dei testi amati e tradotti: sottolineo qui che si “traduce” (trans-ducere) non solo da una lingua in un’altra, ma pure da una scrittura altrui nella propria, per cui se in questo caso sono i Tedeschi spesso in prima fila, mi sembra di riconoscere nelle Nuove nomenclature l’eco di Pasolini (e credo non debba soffermarmi più di tanto sulla cosa) e Bellezza (per l’uso risentito ed esplicito del lessico) e Fortini (per la consapevolezza intorno al linguaggio come strumento di potere, ma pure di possibile strumento di lotta contro il potere) e Valduga (per l’impiego anche di strutture metriche tradizionali, ma scardinate dall’interno, in tensione antilirica e anticonsolatoria) e Patrizia Vicinelli (per la dolorante consapevolezza e per l’ira scagliata in faccia alla realtà). Inoltre quella che mi ostino a definire “passione traduttoria” è una formidabile fonte d’ispirazione e un margine sul quale misurare la propria scrittura, con un’umiltà anch’essa encomiabile e con una sorta di venerazione nei confronti dei maestri, che nei tre casi citati sono tra i più ardui e problematici della poesia di lingua tedesca: non si esce indenni dalla lettura di tre autori come questi e men che meno se si è affrontato il corpo a corpo con i loro testi, l’onestà intellettuale pretende che si ricalibri il proprio modo di fare poesia e che non si ceda al facile abbandono lirico e sentimentale: ancora Brecht, ancora Heine…
Per quanto riguarda Pastior ecco la traduzione che Anna Maria Curci propone di Zärtlich, trattenendo e riproponendo di Pastior la serissima giocosità, l’umana ironia, l’attualizzazione della tradizione, la sperimentazione mai fine a se stessa: CAREZZEVOLMENTE // Poeti portano di tanto in tanto civette ad Atene? / Mi piace quando le civette / sono sagge e noi le / portiamo con cura. // Sotto le ascelle delle piccole ateniesi / c’è così tanto spazio per le / sapienti carezze / degli uccelli dal piumaggio d’ambra. // Anche le ripetizioni / accrescono il ritmo di Tirso. / Più lieve danza il marmo / quando è la ripresa a invitarlo. / Oh quanto giovani rende la conoscenza / e sempre, sempre, la / bella conoscenza! // Più sagge diventano perfino le civette / nel nido, così dappresso / al cuore che saltella.
L’Oscurato di Paul Celan si riferisce ovviamente al breve ciclo che il poeta compose in clinica psichiatrica tra il marzo e l’aprile del 1966 e in particolare alla metafora della fune (Hochseil nell’originale tedesco, vocabolo che indica la fune tesa ad una certa altezza su cui si esibiscono gli acrobati), metafora che rimanda all’arte poetica, al difficilissimo e per Celan dolorosissimo equilibrio di cui essa ha bisogno per esistere e che un nonnulla può trasformare in cappio mortale, in caduta senza redenzione, in perdita di sé; poetare, sembra suggerirci Anna Maria, è fare i conti con il dolore, con il doppio che portiamo dentro e che talvolta sa esserci nemico (scrivo questo pensando al fatto che il ricovero in clinica psichiatrica di Celan fu conseguente al suo tentativo, causato dalla schizofrenia, di accoltellare la moglie, cui il ciclo è dedicato e alla quale egli inviò via via i manoscritti delle singole liriche); si spalanca così una solitudine che sembrerebbe necessaria alla poesia e da questa necessitata, per cui improntitudine è pensarne una tregua: ancora una volta la poetessa ribadisce la valenza etica della scrittura e lo stare di questa ben dentro il dolore umano, nei vuoti infiniti che vi si spalancano dentro.
La follia è poi quella di Scardanelli-Hölderlin rinchiuso nella Torre a Tubinga e forse follia è il tentativo di tradurne i versi, se non fosse che la traduzione è atto necessario e irrinunciabile, analogo a quello del poetare, cioè di tradurre la realtà in linguaggio. Tout se tient, dicono i Francesi e ripensiamo qui alla folle nella discarica (Halde) che sempre più sembra essere il nume tutelare del libro e che suscita forte la tentazione di venir ricondotta, oltre che a Dürrenmatt come scrivevo, alla tradizione del Narrenschiff (la nave dei folli) del Cinquecento tedesco e alla figura del Narr d’epoca medievale e rinascimentale, o al Till Eulenspiegel della tradizione popolare anch’essa cinquecentesca, se non pure all’Elogio della follia di Erasmo, tutti casi questi in cui la follia è, in realtà, uno stato psichico ed esistenziale che consente di smascherare ipocrisie, bugie e malaffari, uno status di libertà individuale opposta ad un’organizzazione economica e sociale antilibertaria e antiumana.
I Distici del doposcuola costituiscono la penultima sezione del libro e, rammentandoci il fatto che Anna Maria è anche un’insegnante impegnatissima sul fronte della ricerca didattica e pervicacemente convinta della funzione fondamentale dell’insegnamento, si scagliano contro luoghi comuni e ingenuità da fatine buone:
I
Diffida sempre dei superlativi:
aggraziate hanno le punte a scomparsa.
IV
Che ti lambicchi a ricercar parole?
Il sorpasso da destra è autorizzato (pag. 89).
Nei Canti del silenzio (l’ultima sezione) l’autrice continua a braccare il lettore non lasciandogli tregua, scuotendone la coscienza, usando un lessico e un ritmo che definirei disturbanti, in parte di matrice espressionista o mutuato dal campo delle arti visive, da Georg Grosz, ad esempio e movendo da un preciso imperativo: (…) / Non ignorare i canti dal silenzio (pag. 93);
I
Può un acquerello urlare a chi lo guarda
o resta il suo colore falda piatta
arrangiato conforto all’emergenza
alla simulazione dello scoppio
che s’offre come rito prepagato
– basta una coda al bancomat , è fatta –
centrifuga risciacquo asciugatore
di commedianti lacrime d’autore?
La diceria dell’angelo che guarda
prova da tempo a farsi mio custode.
Se è un canto dal silenzio o di sirene,
sta fra l’ugola e il tubo digerente (pag. 94): è l’acquerello di Klee, come accennavo in precedenza ed è un’eco da pagina 40: Undici settembre – Acquerello di Klee, tu guardi ancora. / Su ricorrenze amplificate taci. / Dipani la matassa dell’oblio. La diceria ha un sapore alla Bufalino (vi riconosco la stessa accezione nella quale lo scrittore di Comiso adopera il sostantivo fin nel titolo della sua Diceria dell’untore) e il canto dal silenzio fa pensare di nuovo a Celan, ma non ultima a Nelly Sachs, dal momento che, a ben pensarci, anche quello di Anna Maria è un canto che nasce dal silenzio della meditazione e dal silenzio di ciò che è stato distrutto, ucciso o messo a tacere.
IV
A geometrie e congegni tu t’affidi
e la forma conclusa ti conforta
anestetizza il balzo o il suo pensiero
lenisce le ferite ancora in nuce.
Ma la terra di mezzo o la sua striscia
di sabbia flutto rabbocco pontile
ha le braccia conserte e semoventi
ghigna gorghi nella mano a conchetta.
Allestisci il traghetto lo decori
traccheggi e sbocconcelli (non mittendus!)
ti siedi sulla riva. I canestrari
ti passano davanti e tu li invidi (pag. 97).
In conclusione segnalo i due illuminanti, partecipati interventi di Plinio Perilli e di Gianfranco Fabbri che corredano il volume e che Anna Maria è redattrice di uno dei migliori blog italiani, Poetarum Silva e che gestisce tre suoi blog personali, Cronache di Mutter Courage (vi dice qualcosa?), Lettere migranti e Unterwegs (bellissima parola tedesca che significa “per strada”, “in cammino”) i cui link il lettore curioso può trovare nel “blogroll” di Via Lepsius.
2. Johanna di Felicitas Hoppe
Tradurre è, l’ho già scritto, per Anna Maria esercizio quotidiano, passione e ragione di scrittura; tauchen (tuffarsi, immergersi) è il verbo tedesco che Anna Maria stessa utilizza aprendo la sua nota alla fine del libro (La scatola nera del traduttore ne è il significativo titolo), esplicitando il proprio modo di concepire la lettura-interpretazione-traduzione; inseguire la migliore resa possibile ha notevoli affinità con il discendere nelle profondità del testo e con l’inseguire la parola giusta da collocare nel posto più acconcio all’interno di un testo; l’autrice si sceglie così un’opera ardua, davvero ardua per complessità di linguaggio e d’impianto narrativo e, traducendola dal tedesco in italiano, sa benissimo che non sarà sufficiente la sola resa linguistica, ma che dovrà far entrare una creazione narrativa dall’universo di lingua tedesca in quello di lingua italiana, affini ma non sovrapponibili, vicini ma non intercambiabili; mi si obietterà che questo vale per qualunque atto di traduzione (anche da un “dialetto” nella lingua nazionale) ed è la verità – in questo caso siamo però di fronte ad un’opera che ben si inserisce in una tendenza nata nella Germania Occidentale già negli anni Cinquanta dello scorso secolo (ma Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin ne costituisce il meraviglioso, geniale esordio) e che mira a mettere alla luce del sole i meccanismi della finzione narrativa, interrogandosi anche se sia possibile o meno raccontare la realtà; Felicitas Hoppe sceglie una vicenda notissima e che costituisce una delle chiavi di volta della storia europea (la vita e la morte di Giovanna – Johanna appunto – d’Arco) e la racconta in un modo del tutto peculiare, vale a dire attraverso le ricerche che la vera protagonista del libro compie per redigere la propria tesi di dottorato che verte, appunto, intorno alla Pucelle d’Orléans. Il libro, però (non lo definisco apposta “romanzo” perché il testo va ben oltre i confini del genere letterario) è strutturato secondo una tecnica di montaggio che tende a far coincidere (talvolta, talaltra a separarle di nuovo) la figura della ricercatrice e quella di Giovanna d’Arco, creando un complesso gioco di specchi ulteriormente complicato dalla presenza del dottor Peitsche (“frusta”, in tedesco) che segue passo passo il lavoro della dottoranda (e la cui attività precipua sembra essere quella di costruire copricapo di carta) e da quella, ineffabile e lontana eppur fortemente condizionante, del professore. Ma più che, chiamiamola così, la trama, qui mi preme porre l’accento sul tour de force traduttorio che un libro siffatto impone, soprattutto perché Hoppe manipola continuamente la lingua e, costruendo costanti parallelismi, soprattutto psicologici e affettivi, tra la Johanna del XVI secolo e quella del XXI, forza costantemente la struttura narrativa cui siamo abituati, anche lei scava nel linguaggio e riconosce nello stesso l’unico luogo possibile per l’esistenza delle vicende narrate: narrando a se stessa Giovanna d’Arco, la giovane ricercatrice narra a sua volta sé a se stessa, le paure della Pucelle sono anche le sue, i lati oscuri e/o enigmatici delle vicende storiche emergono proprio grazie alla narrazione che è fatta esclusivamente di linguaggio e che, senza di esso, non sarebbero, il processo, l’itinerario verso il rogo sono anche il processo esistenziale e l’incedere verso lo sconosciuto futuro della studiosa.
Anna Maria Curci si è trovata così davanti ad una sfida al quadrato (tradurre è già una sfida) e ha saputo creare una lingua bellissima, costruire un testo nel quale mai affiorano sforzi o forzature, far risuonare in italiano tutte le sfumature della pagina in tedesco. E sul finire voglio soffermarmi sui berretti o copricapo di carta (Papiermützen) di Peitsche il quale ne confeziona per tutti, scrivendovi sopra frasi legate al destino o al ruolo dei destinatari – è dunque come se quei berretti fossero delle etichette, degli atti di nominazione (e quindi di chiamata ad esistere) dei vari personaggi della vicenda; soltanto il berretto per Giovanna d’Arco non gli riesce, lasciando così spalancato l’enigma sulla Pucelle d’Orléans e ribadendo l’enigma stesso che sembra essere a fondamento della nominazione della realtà.
Nuove nomenclature e altre poesie, L’Arcolaio, Forlì, 2015
Felicitas Hoppe, Johanna, Del Vecchio Editore, 2014
Le immagini che illustrano l’articolo raffigurano opere di Anselm Kiefer dedicate a Paul Celan, tranne l’acquerello Halde – folle nella discarica di Luigi Simonetta.