Ci vuole un muto lavoro (su di un libro di Christian Tito)

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

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Mario Dondero, L’uomo che voleva raggiungere la luna, Accettura, Lucania, 1993.

 

Che cosa abbiamo saputo costruire noi, quelli nati a partire dagli anni Sessanta del Novecento, vale a dire coloro che hanno conosciuto fin da bambini l’Italia del cosiddetto benessere? Proprio perché più protetti dalle scosse della storia (almeno fino a un certo punto), proprio perché per la maggior parte di noi c’è stato un qual certo benessere materiale, siamo riusciti a smettere di essere figli per diventare genitori responsabili della vita di creature indifese?
Leggere la plaquette di Christian Tito Ai nuovi nati (edizione a tiratura limitata pubblicato dal Circolo Culturale Seregn de la Memoria, edizione degli Amici del Libro d’Artista, nella collana “Fiori di torchio” a cura di Corrado Bagnoli e Piero Marelli, con incisioni di Alejandro Fernández Centeno) mi ha fatto affiorare alla mente queste domande: c’è, deve venire nella vita di un essere umano il momento in cui smette di essere figlio (o figlia) per diventare padre (o madre) foss’anche di sé stesso, ma, comunque, persona adulta, capace di prendere decisioni motivate e autonome. Sul lavoro, nelle piccole incombenze della vita quotidiana, facendo la fila alla posta, la spesa al supermercato ho spesso la sensazione, al contrario, che apparteniamo a una generazione di “viziati” che non hanno mai smesso di essere figli e che pretendono che la vita dia loro “d’un colpo tutte le cose che crediamo di meritare” (le parole sono di Vittorio Bodini).
Leggere i versi di Christian è ossigeno per la mente:

Ti daranno infinite occasioni per piegarti
e tu non ti piegare,
basterà uno sguardo a certe facce
per sentire minacciata la tua fede,
ma tu credi, credi sempre figlio mio,
e non credere che ogni credo poi non muti,
ma dentro quel mutare qualcosa si conserva:
quel passarci dentro agli occhi un po’ di luce,
quel dirti a bassa voce solamente che ci siamo,
che per te volevamo solo esserci
e, miracolosamente,
nel miracolo della tua vita,
per un po’
ci siamo stati.

Il mio caro amico poeta ha raggiunto un’asciuttezza di dizione che, di per sé stessa, rende credibili e nobili i concetti espressi, s’affida a minime variazioni lessicali per spalancare prospettive nuove o inaspettate e, senza reboanti proclami, stigmatizza la colpa di una generazione che ha lasciato crescere e imporsi un sistema che esige dalle persone che si pieghino – ma Christian percorre la strada dall’essere figlio a diventare e essere padre dei propri figli cui, con la forza dell’amore, con una dolce fermezza che commuove, offre quel po’ di luce da passarsi gli uni gli altri dentro gli occhi.

Così chiedo agli avi i futuri codici
per attraversarla senza perdere niente questa nostra vita
per mettere in mio figlio e in tutti i figli
una traccia di senso possibile, un amore, una passione
per non perdermi pur perdendo continuamente
poiché la vittoria appare chiara e vacua in questo mondo
e a noi piace la piena ombra

poesia come massimo grado della sconfitta
poesia come massima distanza dalla resa

camminare a piccoli passi ma camminare
dire poche parole, ma dirle

perché noi crediamo nella parola
e forse più in quella data
prima ancora che scritta.

E Christian, che non gioca a fare il poeta, ma che la poesia vive dentro, ben dentro la sua quotidianità, talvolta amara e deludente, non può non confrontarsi con l’atto della parola, riuscendo a scrivere versi di meravigliosa verità:

poesia come massimo grado della sconfitta
poesia come massima distanza dalla resa

camminare a piccoli passi ma camminare
dire poche parole, ma dirle

perché noi crediamo nella parola
e forse più in quella data
prima ancora che scritta.

Continua il dialogo con “i nuovi nati” e in questi termini:

Meglio saperla
tutta la forza,
tutta la fragilità
se vuoi che si plasmi in forma d’uomo il tuo viso.

Allora nella notte non perderti d’animo,
nel chiarore resta sempre vigile.

C’è un fuoco da portare,
da passarci di mano,
da restituire alla terra.

Ecco: un poeta della generazione nata e cresciuta nel cosiddetto benessere, la quale forse non è stata colpevolmente capace di difendere e di accrescere la democrazia nel nostro Paese, con determinazione dice la necessità di essere coraggiosi, di rimanere vigili, di serbare quel fuoco che ci fa figli della terra e, quindi, umani. Christian raccoglie l’insegnamento del proprio padre, una delle molte persone che hanno vissuto con dignità e coraggio il proprio Sud e che l’ILVA di Taranto ha ucciso, e di un padre-fratello-in poesia (ma anche nella vita) ch’è stato Luigi Di Ruscio – con questo viatico invito a leggere il testo che segue:

Oggi diciassette febbraio dell’anno duemilaquindici
la terra ruota sotto le nostre suole
e mentre gira e tutti noi giriamo
sento il battito del mio secondo figlio

perso dentro quel ritmo penso al mio amico
ha un tumore al di sotto del cranio

perso
penso
prego che tra non molto
mani di uomini esperti,
ma spero anche buoni,
estraggano la vita dal ventre di mia moglie
e la morte dal cervello del mio amico

lui di figli ne ha già due
e i padri buoni sono pochi.

E conclude:

Ho tolto il relitto dal giardino, mamma
impediva all’erba di crescere

questa è la mia casa
qui ci sono i miei figli

ho aperto il cancello e l’ho lasciato andare

È difficile costruire un cancello, sai?
Ancora più che metterci dietro una casa
che sia la tua casa

senza lavoro non c’è mutuo
ma per questa mia casa
c’è voluto un muto lavoro

è stato quello
che mi ha insegnato a parlare

 

Caro, carissimo Christian, con commossa gioia ti dico grazie per queste pagine e spero, e m’ostino a sperare, la poesia sia sempre un atto di coraggio e di fiducia.

 

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