Facchetti
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Se Facchetti ancora s’invola
lungo la fascia del campo
penetrando poi nell’area di rigore
o prima del fischio d’inizio
scambia il gagliardetto della sua squadra
con quello del capitano avversario
ed è stretta di mano, promessa di lealtà –
i ragazzi sciamavano per Piazzale Loreto
felici dell’inizio delle vacanze estive:
certo i maschi avrebbero cercato
rettangoli di sterrato per dare calci
al pallone
fingendo indifferenza verso le ragazze lì vicino –
se il pallone spinto avanti, alti la testa e lo sguardo
a cercare il compagno smarcato,
il difensore in controtempo,
e San Siro a trattenere in gola l’urlo –
erompeva la voce rauca di Sandro Ciotti
fuori dalla radio a transistor
che il ragazzo si portava incollata all’orecchio
mentre traversava Piazza Fontana
deserta la domenica –
se Facchetti che senza timore ma con rispetto
guarda negli occhi Puskas e Di Stefano
tocca con grazia da violinista il pallone
a ruotare vorticoso nell’erba
a ricordare per sempre a chi è lì,
sugli spalti gremiti, che quell’istante
non filmato né fotografato
ha solennità di bellezza –
Milano attraversava inquietudini
la nebbia dei suoi inverni non
celava il cammino irrisolto
né i ringhi ritornanti di camicie nere
(eppure le bandiere per il 25 aprile
dicevano una promessa, uno slancio, un assenso) –
se c’è nuova fuga lungo l’ala sinistra,
il passaggio da orologiaio per Mazzola,
l’elevazione a colpire di testa il pallone
e piazzarlo tra palo e traversa
come se cinetica meccanica e balistica
fossero colorati sassolini da rigirare
fra le dita della mente –
i ragazzi si baciavano sul tram
rubando la tenerezza d’un pomeriggio nel cortile della Statale
al sole musicante sulle ringhiere
ai tesi tracciati e perfetti dei cavi per il pantografo
che vanno da qui alla memoria, dal fondo dello ieri all’oggi –
se il pallone calciato da Facchetti nel rettangolo di San Siro
ha andanze di ricordo,
la mia Italia, quest’Italia di cui scrivo,
ancora m’interroga, pretende ascolto, memoria,
apre furori.
È da moltissimi anni, ormai, che non seguo più le vicende del giuoco del calcio, né esse m’interessano. Tornano, tuttavia, cari ricordi da un’infanzia e da una giovinezza nelle quali il calcio è stato anche per me una passione. Devo a due poeti e a due loro testi la nascita di questi versi: il primo è Lutz Seiler e il suo poemetto Die Fussinauten (I Calcionauti), il secondo Claudio Pasi e il suo testo Tempo di guerra (La 17ª giornata del campionato di serie B, 1939-40) citato da Nino Iacovella in Latitudini delle braccia.
Uno dei tanti motivi che mi ha spinto a pubblicare versi dedicati a un uomo onesto e leale (Giacinto Facchetti) è anche la solidarietà e l’affetto che nutro, da insegnante e da padre, nei confronti dei giovani italiani che menti scellerate e disoneste continuano a offendere e umiliare.
È un perfetto “colpo d’ala” questa poesia, uno slalom elegante tra memoria e presente che colpisce con furore. Grazie di queste toccanti immagini.
Grazie a lei per la sua squisita attenzione.