Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: marzo, 2017

Andando, sempre andando

 

 

 

Alle porte della Laguna vengono

come ventaglio s’aprono dal Delta
fino al lido giuliano, dentro premono
nella mente lì premono per essere
dette dal cielo della luna fino
alla candida rosa: ed egli, egli
imprende un breve viaggio alla città
d’acque candente e non cessano voci
voci che dalla mente urgendo, uscendo
immagine o parola si fanno.

Pochi giorni di riposo dall’opera
dalla progettata opera e immane
la visita a un amico
il viaggio per la piana verde e chiara
d’acque
la città patavina cieli corsi
d’incessanti rondini.

Solo chi ha intelletto d’amore può
emozionarsi
la mente splendere di pensiero
l’intonaco del muro diventare poema
(così si pose in viaggio verso la
Comedìa).

Accucciarsi dietro il cespuglio
per un bisogno,
bere da un pozzo
godendo del sorso scintillante
di luce,
spiccare le prime bacche
a lato della strada.
Temere l’acquazzone che s’approssima.
Il viaggio a piedi è come poetare.
Lungo e lento e traverso il bianco
dell’inverno appena trascorso.

Venditori di flauti pellegrini
tra marca trevigiana e patavina
s’accostano al viandante dividendo
con lui il rustico pane dell’andare
andando dunque
per villaggi galleggianti sulle acque
per cerchi concentrici di visioni
e per fluitanti nevi che poi gocciano
nei legni dell’alloro, risalendo
l’arco intatto di nubi in formazione:
non può se non diventare linguaggio
l’attraversamento
lo stupore ritmato della mente
a traino della mente andando e anabasi;

anabasi lungo anni di scrittura
(gli ha aperto solchi nella veste il vento).
Andando, dunque, il vento tra le mani
sbreccate ma amorose;
la parola
che inventa il mondo, la voce che scala
gli spalti erti della dimenticanza
precipitando in giù nell’emozione
di sapersi viva a cantare spazi
umani, migratori, poi stellari.

Le alberete che accolgono la luce
e il riposo dei viaggiatori vento
vago compagno al pensare, il pensare
che non ha requie nemmeno nell’andare,
dall’andare acuito,
l’opera che sé stessa generando
la mente e gli occhi abita
ad rosam generandam.

Orientale bellezza delle cupole
e la luce sfarfalla come pioggia
vago trasparentissimo lucore
luminescenza nella mente aperta
al mondo. Stai cercando, non finisci
d’interrogare il mondo, vai cercando
viandante, tu viandante, pellegrino
del pensiero, edotto all’esilio tu
stai cercando parola misurata
a dire quell’humanum che ci segna.

 

 

L’entratura in cappella poi l’abbraccio
l’amicale abbracciarsi dopo sì
lungo tempo e fiorentina cadenza
nelle sillabe, risa,
gli scherzosi rabbuffi.

Granisce la pittura su pareti
che hanno la tramatura cadenzata
della narrazione e della preghiera.

Il giovane garzone osserva, serba
nella mente pregiando le parole
i gesti dei maestri che conversano.

L’uno ha mani sporcate di colori
e lise vesti da fatica, odori
un po’ di zuppa, un po’ di maniscalco.

L’altro ha straziati sandali assisiati
e mani senza calli, lunghe dita
e neri polpastrelli, insonni notti.

“Non è dunque dover tener nettate
le pennellesse cómpito spregevole
e sporcarsi di terrosa materia
è battesimo sacro nella polvere
se vedo i maestri unti d’umano”
pensa il garzone e di sottecchi osserva.

Non s’impara mai l’arte a perfezione,
tormenta l’arte, ché esige di più,
sempre c’è un passo da fare, più in là.

L’amico elogia il pittore, che scuote
il capo, non convinto: sta seduto
sui talloni indicando col pennello.

Qui e qui e qui non va bene, è da cambiare;
più in là mal accostati sono i toni –
però occorre finire, consegnare.

L’amico giunto da lontano, pensa
il garzone, inanella ammirazione
e lode, ma comprende le parole
del pittore, lui stesso insoddisfatto
dell’opra grande che va componendo
di parole e disio.

Si muovono i due sulle impalcature
traballanti assi lungo il farsi in ombra
del disegno, la stesa dei colori,
vanno verso quegli occhi di tempesta
del Cristo giudicante, lì si seggono
e il pellegrino avvicina le dita
soggiogate alle pupille castane.

S’accende nello spazio piccolissim’
immane tra pupilla e polpastrello
il lampo di parola poetante
(chiude gli occhi il pellegrino e sprofonda
dentro di sé felice e soggiogato).
Con commozione trasale il pittore
(quale lode per lui l’estasi pura
dell’amico carissimo! Frattura
nel continuum dei giorni deprivati
di slancio
e nuova soglia).

Materia da meditare il bisogno
che abbiamo di bellezza.
Ordo mentis nell’ascesa dell’occhio
lungo curvature di faggi e larici
ripetere l’ascesa lungo stese
azzurre di colore che pensiero
visibile gioia, gioia sarà, verrà.

Si squaderna bellezza dell’azzurro
s’immilla nella mente-architettura
è mente che sé medesima guarda
non per egocentrica supponenza,
ma quale specchio e cuna di pensiero,
del mondo specchio intendo e del pensiero
generosa fonte.

 

 

Serali strade, Padova profuma
di squisite pietanze; i Fiorentini
cercano un’osteria per la cena.
Lumi con voci dietro alle accostate
imposte.

Casa a quest’ora è l’amicizia calda,
reciproca, felicità di stare
insieme, anche i progetti della mente,
pittura o poesia.

Siedono a un tavolaccio,
rumorosi ubriachi avventori all’intorno.
Parlano, parlano senza stancarsi
i due amici.

Poi
è vagare nel ventre-labirinto della città
vecchia
finestre e profumi di cucina
spalancàti sul buio

è stare insieme, amico carissimo,
svoltare l’angolo dove
San Paolo a prua della trireme
varca il Mare di Malta
e l’edicoletta oscilla della luce tenue
di annosa lucerna

uno Zeusi bizantino dipinse
il volto emaciato del Convertito
da esattore di spesso ingiusti tributi
lo fece suo malgrado marinaio
pallido forse di mal di mare o forse di digiuni

pallido e segnato nell’anima
da un Dio esigente

per noi, dolcissimo amico,
è vagare inseguendo
splendidi ricordi:

per noi la sera maestosa passando
davanti al Santo serrato
sciaborda dei profumi della cena appena celebrata
e del silenzioso sospirare dei muri
che invecchiano da molto prima
e fino a molto oltre la nostra generazione
mentre restituiscono il caldo del giorno
un rosario di visioni
una corolla d’inventive
insonnie.

 

 

(Segnalibri) “Poche parole che non ricordo più” di Enrico De Vivo

 

 

Esce il romanzo Poche parole che non ricordo più del caro amico Enrico De Vivo; qui tutte le informazioni necessarie, riservandomi di scrivere del libro quanto prima.

 

 

Il passaggio dello straniero

 

 

(in memoriam John Berger et Predrag Matvejević)

Il velo del solstizio
s’abbassa sui binari disertati
e il mare, lo specchio del cielo viola,
spasima.

Le finestre dell’inquietudine spiano l’acqua
che il gelo svuota delle barche fragili.

L’attesa avrà più giri d’arcolaio
e scorrerà il vettore della radio.
Ché la maga d’amore attende dietro
il telo di giorni e notti invernali.

Attende. Sta in ascolto.
Tesse canti mentre la neve cade
rara
sul mare e i libri fragili fortezze
assediate dall’inverno stagione
di silenzi preparano l’esame
di brevetto navale.

Il geco addormentato
sogna le veneziane schiuse al sole
e la meridiana del melograno
boa d’approdo del prossimo equinozio.

Cade la sera a velare la casa.

 

 

 

Yves Bergeret, le migrazioni, la Sicilia, “Carène”

 

 

Yves Bergeret torna in Sicilia per realizzare un progetto non solo ambizioso, ma che immerge in maniera definitiva e irreversibile la scrittura sua e di tutti nella realtà contemporanea: portare in scena a Catania (in collaborazione con la brava regista Anna Di Mauro) il suo poema Carène, ancora inedito a stampa – ma di cui Yves stesso nel suo spazio Carnet de la Langue-Espace e Francesco Marotta (eccellente traduttore in italiano del poeta francese) sulla Dimora del Tempo sospeso hanno offerto degli ampi estratti.
Carène è un’Odissea contemporanea, i suoi eroi-Ulisse sono persone in carne e ossa che vivono ancora adesso, ancora in questi istanti la loro realtà di migranti; i nomi degli eroi del poema richiamano per assonanza i nomi reali dei migranti con i quali Yves è entrato in contatto in Sicilia, dai quali si è fatto raccontare le singole storie personali, con i quali ha lavorato ai suoi tipici poemi figurati, con i quali è rimasto in contatto anche quando periodicamente si è allontanato dalla Sicilia per periodicamente farvi ritorno, scrivendo come in presa diretta Carène, i cui Ulisse-migranti, Ulisse-marinai-della-vita sono nello stesso tempo giovanissimi migranti maliani e senegalesi e antichissimi uomini che portano nella loro carne e nella loro stratificata memoria millenni di civiltà e di migrazioni. È così che Alaye, uno dei protagonisti del poema, si chiama in realtà Ali e Husséni Séni, due giovani migranti che, nella loro non facile vita quotidiana, posseggono una volontà inflessibile di studiare e di trovare la propria strada, fungendo anche da mediatori culturali tra i propri compagni di migrazione e la complicatissima realtà siciliana e italiana cui sono approdati (realtà, occorre sottolinearlo, non sempre benevola nei loro confronti, ma talvolta – e uso a ragion veduta tali parole – razzista e schiavista), oppure provando ad essere menti capaci d’osservare, analizzare, comprendere e far comprendere la migrazione in ogni suo aspetto, in ogni suo risvolto geografico e politico: e i flussi migratori sono anche, in molti casi e in certe situazioni, mero commercio di persone, una compravendita di esseri umani (non importa la loro provenienza, età, sesso) ridotti a merce sottoposta a tariffe, ricatti, minacce quando necessario.
Nel progetto in fase d’attuazione Ali collabora con l’équipe quale vero e proprio consigliere culturale, essendo egli capace di sviluppare un’articolata riflessione sulla realtà migratoria e sui suoi rapporti con le popolazioni locali, mentre Séni è molto attento ai rapporti tra territori di provenienza e territori d’approdo.
Yves stesso, radicalmente antagonista del tipo dell’intellettuale europeo sedentario e compiaciuto di sé e della propria erudizione, è uno scrittore migrante, incapace di rimanere fermo a lungo in un luogo, ancor meno nelle soffocanti pareti di uno studio: l’alta montagna, il mare, il deserto, lo spazio che si dilata abitato contemporaneamente dal vento-luce e dall’occhio curiosissimo dell’essere umano, dai richiami degli uccelli e dalla fantasia illimitata del poeta, dalla morte violenta di tantissimi fratelli in umanità e cultura e dal desiderio di comprensione e d’incontro, questi spazi vastissimi accolgono Carène e ne restituiscono l’eco necessaria che bussa, violenta e inconciliata, alle porte della coscienza occidentale. E non ci si meraviglia, allora, che parole scritte con l’inchiostro sulla carta vogliano farsi personaggi che agiscono e parlano con voce d’esseri umani, persone che mostrano sé stesse (il loro corpo, il loro passato, il loro presente) ad altre persone – le parole del poema sono infuocate e solenni, dolci e disperate, coraggiose e umanissime; la Sicilia, terra dalle contraddizioni più profonde e dagli slanci più inattesi, vera regione di confine tra un mondo spinto alla disperazione e un altro spesso chiuso e incapace di comprensione, ospita questo poema-in-atto che non appartiene alla moda, pur diffusa, di certa letteratura europea che si china, condiscendente e pietosa, sulla realtà delle migrazioni: Bergeret non solo va a parlare e vive con i migranti, ma con loro crea concretamente poesia e pittura, con loro dialoga anche in versi e in pittura, ne cerca e ne sollecita l’essenza profonda di giovani uomini assetati anche di bellezza e di conoscenza – perché c’è pure questo in Carène e in tutto il lavoro di Yves, la dimostrazione non teorica o velleitaria, ma fattiva e riscontrabile nella realtà che chi attraversa prima il deserto a rischio continuo della vita e poi su di un fragilissimo guscio di noce il Mediterraneo non cerca soltanto un approdo di pace e un lavoro che gli dia il pane, ma, da essere umano, nutre e reca in sé anche desideri e valori molto più alti rispetto ai bisogni basilari per la sopravvivenza.
È così che la parola cultura riacquista la propria dignità spesso perduta o tradita e il proprio significato che è quello del coltivare ciò che, in ognuno di noi, è umano, è così che le genti migranti fanno udire le loro voci, che nel poema di Yves hanno anche movenze di litania e di canto comunitario, di elegia e di ribellione, di tradizione e di slancio verso nuovi orizzonti, venendo a creare una cultura meticcia, cioè ricca di slancio e di fantasia, di bellezza e capace di costruire davvero, non retoricamente, la pace.

 

 

 

Invito alla lettura dell’OSSERVATORIO di Francesco Dalessandro (e non solo)

 

specola-principale

Interno della Specola del Collegio Romano inaugurata nel 1852.

 

Come compresso e vittima di uno schiacciamento sul tempo presente è spesso anche chi, invece, (un critico letterario, un lettore attento, chi pratica l’arte della scrittura) dovrebbe coltivare la profondità temporale, lo stratificarsi lento e meditato di pensieri e sensazioni, rischiando di arrendersi, magari senza accorgersene, a questo turbinio superficialissimo ed epidermico di recensioni, presentazioni mordi e fuggi, lasciandosi inghiottire da un presente spesso privo di spessore, di attenzione, di cura. Via Lepsius con ostinazione si chiama fuori da questa tendenza, Via Lepsius vuole continuare a esercitare l’attenzione per i risultati più recenti delle scritture, ma anche leggere e attraversare libri di valore da tenere come punti fermi capaci d’illuminare quello che accade e, possibilmente, quello che accadrà; d’altra parte un libro pubblicato nel 2011 (questo L’osservatorio di Francesco Dalessandro pubblicato nelle belle e sobrie edizioni di Moretti & Vitali di Bergamo) non è cronologicamente molto distante da questo 5 marzo 2017, ma nell’oceano informe della “rete” e in quella che mi piace chiamare superstiziosa adorazione del tempo presente, rileggere e attraversare un libro che, inoltre, ha alle spalle un farsi molto più lungo, è, mi auguro, un atto eretico e in controtendenza. E sono felice di scriverne perché si tratta del libro di una persona di notevole umanità e di un artista che esercita il mestiere di poeta con serietà e dedizione e senza narcisismi.
L’osservatorio possiede quel respiro, quel ritmo, quell’ampiezza di disegno e di propositi che ne fanno un libro da portare con sé e al quale spesso ritornare, è un progetto poetico capace di esaltare e ripetere la bellezza sintattica e lessicale che sono uno dei molti privilegi della lingua italiana; l’idea è tale da far tremare i polsi: dire di un io che vive, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, la propria storia personale inscindibile e non scissa dal luogo, vastissimo e anche mitico, immaginifico e del tutto reale, favoloso e addensato anche di puzze, anche d’inarrivabile bellezza, anche di volgarità, anche d’esaltanti slanci, abitato dall’innumere presenza dei nomi, dei fatti, delle stratificazioni e che ha il nome di Roma.
Roma sta nei molti film (e ognuno di noi ne ricorda alcuni in particolare, ne ama o detesta questo o quel passaggio), nei molti libri e nelle foto, tantissime, che ne perpetuano il mito e il fascino – Francesco Dalessandro compone un poema e lo articola in quattro parti (L’osservatorio, Stagioni del basso mondo, L’azzurro del cielo, Mare delle passioni) capace di far sentire come una persona innamorata della città (l’autore) la respiri e la restituisca traverso una scrittura dalla finissima, articolata tessitura sintattica e contenutistica; Roma è il vivere stesso, il sentire e il pensare e Dalessandro pone la sua voce, cordiale (devo ricordare che il bell’aggettivo deriva da cor, cordis?), mossa e commossa, in qualche modo debitrice alla tradizione più alta del bel canto italiano, ma anche talvolta franta o irata, melancolica o dolce, la pone, dicevo, accanto a quella di altri che hanno detto, nelle loro peculiari maniere, Roma: Pasolini, Bertolucci, Rosselli, Bellezza, Penna … Ma c’è, ai miei occhi di lettore, anche la Roma di Cristina Campo e quella di André Frénaud, quella di Durs Grünbein e quella di Rafael Alberti, ché Francesco Dalessandro contempera, in questo libro, l’esperienza personale con le suggestioni letterarie, la consapevolezza storico-culturale con la voluttà che deriva dal sentire con tutti e cinque i sensi una città unica. E questo mi piace in modo particolare, questo rende il libro così vivo, splendente, armonioso: la parola governata dalla sintassi tanto sapiente ed elegante è espressione della vitalità dei sensi, del loro essere vivi e attivi, preziosissime proiezioni della mente verso l’esterno, cosicché un erotismo luminoso e gioioso, talvolta oscuro e istintivo, investe i versi e le esperienze, i pensieri e il canto.

Torna, Musa” è allora l’attacco del libro, gravido d’un consapevole andare in controtendenza (ma non è morta la Musa? non se n’è fatto beffe Montale in un suo celebre testo, e non ci ha meditato anche Sinisgalli?) – ma Dalessandro è poeta e intellettuale estremamente avvertito, per cui l’invocazione ha il senso d’una ben precisa scelta di poetica (e l’esempio che trascelgo valga anche come indicazione di stile e di pensiero):

“ho bisogno di un verso
liquido che fluisca naturale
con forma e suono acconci che narri districando
il groviglio dei sensi, di un senso
semplicemente chiaro nemmeno verità
ma ipotesi del vero che sia
ricco senza effusione e scarno senza
povertà: questo m’è necessario”

(…)

– infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo
o la quiete serena che dà la tua franca parola (pag. 12).

In chiusa del volume si possono leggere un’affettuosa nota di Attilio Bertolucci e un illuminante saggio di Gianfranco Palmery (poeta e intellettuale, quest’ultimo, di cui si sente fortemente la mancanza in questi anni recenti) – ecco, se da un lato potrebbe esserci qualche affinità con la poetica bertolucciana (soprattutto quella che sottende i poemetti e quel capolavoro assoluto che è La camera da letto), Palmery sottolinea, e ben a ragione, come “nel poemetto di Dalessandro non si narra nulla – si gira intorno. Tutto trascorre e ritorna. Non ha il tempo lineare della narrazione, della storia, bensì il tempo circolare delle stagioni, della natura” (pag. 105) e infatti un altro punto di forza del libro è la capacità posseduta dal ritmo e dal linguaggio di restituire il senso dello svilupparsi circolare del tempo, in un’originale compresenza di realtà urbana e di ritmi vitali determinati dalla natura, là dove l’individuo non è un io sperso e alienato, ma, appunto, un essere senziente che possiede in una geografia romana più interiore che esteriore, ricchissima di precisi nomi di piante e di luoghi, lo spazio del proprio muoversi.
Dentro una tale geografia (o psicografia o emerografia) emergono voci, segnatamente quelle apposte in epigrafe alle varie parti del poema, dalle quali Dalessandro prende avvio e con le quali dialoga: Alfred Hitchcock che parla della sua Finestra sul cortile, Dante, J. D. Salinger, Pier Paolo Pasolini, Ingmar Bergman, l’amico carissimo Alessandro Ricci, Teodoro Prodromo e altri ancora, presenze tutte che fanno dell’opera un complesso sistema di riferimenti anche storico-culturali, oltre che psicologici ed emotivi.

Così, scesa la sera con le fragranti ombre
lilla avvisaglie della prossima trionfante
primavera dietro il colle Vaticano tornati
con sollievo il bel tempo e l’avvenente luce
tardiva dell’ora legale, le reti di un altro
giorno della vita passato con fatica
nelle invernali e chiuse stanze con fili
di storie riparo e mentre a rinarrarmi
ore e freschi orizzonti tremuli d’ali e cirri
nel precipite sereno vaganti io riprendo,
sui chiari viali accecati di luce sui platani
frementi di piume vive foglie e i brevi
tornanti avvolgentisi in alto, dove pini
e cipressi incoronano la vetta e luminoso
l’Osservatorio al lor centro dominante
con l’oro delle cupole sul basso mondo
e le viventi sue stagioni ora si leva fermo
e fatidico emblema di sé, già il crepuscolo
si addensa

dopo cena – tornato il silenzio la casa
tranquilla addormentandosi la città,
bava di luci oltre le chiome al vento
del Pineto notturno gementi, lontana
preparata al riposo – le ragioni
della resa ritrovo, premessa ai versi
che l’io sentimentale secerne con ingenua
vena (canto stremato) nell’adagio della
fresca notte marzolina al compleanno
imminente promessa d’acqua e fuoco
che scaldi alla sua lingua il discorso
fatuo d’amore e morte, e doloroso errore… (pagg. 39 e 40, marzo dalla sezione Stagioni del basso mondo) – si noti l’articolata architettura delle proposizioni, l’elegante e ricco distendersi del lessico, la sinuosa andanza del discorso poetico: Francesco Dalessandro ha trovato (e il lavoro di lima, di messa a punto, di costruzione è durato lunghi anni, approdando a un risultato davvero alto di stile e di espressività) un ductus del proprio carmen capace di avvincere l’attenzione del lettore, conducendolo attraverso un discorso elegante e complesso, mai scontato o prevedibile – numi tutelari, mi vien fatto di pensare, Orazio e Virgilio per quella sobria e dotta eleganza capace d’imbastire lunghi e meravigliosi discorsi poetici, in altri punti Catullo (Dalessandro stesso scrive altrove: “penso / a Catullo al carme ottavo di così / patetica bellezza in cui rimpiange i giorni / consumati correndo dove amore pretendeva / e poi più non vuole“, pagina 68).

………………..“per questo per i quindici venti
anni che mi restano cosa – dicevi – cosa
fare in questa Roma invivibile dove
non c’è parcheggio né posso camminare
per il Centro senza crepacuore? Andrò al
sud …”
………………e io chioso ricordando i tuoi
versi
………sulla lucida spiaggia ionica dove
tardo allievo platonico leggerai il Simposio
e Fedro a due km dalla S. S. 106 Taranto-Reggio
Calabria … e riscoprirai nel discorso di
Diotima che la bellezza è per sé
e con sé, eternamente univoca ma che
gli sciagurati del XX secolo che rileggono
in così grave ritardo remoti luminosi
pensieri sono già feriti a morte (pag. 59) – è un estratto dalla sezione L’azzurro del cielo nella quale l’amico fraterno Alessandro Ricci è interlocutore privilegiato per una riflessione lucida e amara sul presente e, a ben riflettere, L’osservatorio è anche una complessa elaborazione in chiave culturale di quanto l’io lirico esperisce nella Roma degli ultimi due decenni del XX secolo e dell’inizio del nuovo secolo.

il buon pensiero del mattino – “resti
vivo finché ami e scrivi” – si riaffaccia
alla mente con uguale chiarezza nel preciso
momento in cui scende il gradino –

(…)

sa qual è il giusto verso –
sa cosa fare – appena giunto a casa –
con fede e pazienza francescana si siede
allo scrittoio – inizia a scrivere – sa
che quel pensiero mattutino è il solo
specchio dove specchiarsi – e conoscersi –
guardarsi e riconoscersi – anche se
non è la misura della vita – non misura
l’abiezione dei giorni che lui passa fuori
di sé (pagg. 72 e 74) – nei molti versi che non ho citato è raccontato l’incontro casuale e fuggevole con una ragazza in metropolitana, il sorgere del desiderio carnale, la rinuncia alla sua realizzazione: apertura e chiusa del brano (Buon pensiero del mattino, II dalla sezione Mare delle passioni) da me riportate esprimono bene l’atteggiamento etico del poeta traverso tutto il libro, atteggiamento che bene giustifica anche il titolo L’osservatorio, in un procedere con pazienza e attenzione attraverso i giorni, nel ritornare delle stagioni, nel misurarsi con le più diverse occasioni della giornata, ivi compreso il lutto, il passo spesso avvertito della morte, il dolore. E, ritornante, l’eros (soprattutto l’amore coniugale, ma anche i frequenti slanci dei sensi nei confronti della luce di Roma, dei luoghi della città, delle piante e degli alberi, delle variazioni dal nuvolo alla pioggia al sereno al sopravvenire dei crepuscoli o della sera e della notte), l’eros mi sembra la più nutriente linfa che attraversa e sostiene il libro (“geenna / di fuoco fuoco vivo e inestinguibile“, pag. 76), in sintesi dialettica (e talvolta anche in conflitto) con l’avanzare dell’età anagrafica (“né medicano i versi, / mentre il giorno scorre lento / un minuto dopo l’altro fiorenti / alla memoria un’ora dopo l’altra / sul capo che imbianca sul corpo che invecchia / benché il cuore impudico ricanti / desideri canti amori passati / e futuri con la forza di un’oscura / costanza, né alleviano i versi / fatica e noia“, pag. 85). L’osservatorio è un percorso mai pacificato, irto d’inquietudini, materiato di almeno due voci dialoganti (le si distingue tipograficamente per il fatto che una delle due viene evidenziata tramite virgolette), splendidamente problematico e ferocemente sincero: è, da parte dell’autore, un continuo mettersi a nudo, respingendo sistematicamente ogni consolatoria o rassicurante conclusione:

un morbo maligno mi ha corroso in tutti questi
anni mi ha reso arido e del sogno ricordo solo
insensate speranze e bisogni non la luce
né il malvagio dèmone della notte che mi ha spinto
in quest’abisso vuoto del cuore!
……………………………………………dov’è finita
la sacrosanta verità adorata? adirata è fuggita
portandosi dietro la poesia: dovrò salire
e scendere ncora le scale di questo tetro purgatorio
faticando e penando senza l’angelo di dio
che mi segni la fronte e mi tragga a salvamento
cercherò il Lete di una balda innocenza
ma senza trovarlo e avrò sempre nella carne
le aride spine acuminate del dolore senza più
giovanili illusioni la polvere dorata della prima
infanzia ma cenere e sale sui capelli abbandonato
al dèmone dell’ansia al desiderio che non può
avere compimento (pag. 89).

Il poema si apre, l’ho già scritto, con la sezione intitolata L’osservatorio e si chiude, circolarmente, con il testo conclusivo (il numero 12 dell’ultima sezione Mare delle passioni) che si chiama appunto L’osservatorio dal quale riporto gli ultimi versi (sempre Palmery analizza con sagacia i rapporti numerici che legano le varie parti del libro):

e il giorno cresce si fa più caldo
il sole il traffico più intenso l’ora
e l’aria maturano addolcite mentre spira
tra le siepi e i rami spogli della vite
americana dalle curve sulle foglie
tintinnanti e sui volti un leggero
vento, limpido il cielo ma sul cuore
pesa una nube l’ansia dolce diventa
sottile angoscia “mio dèmone domani mi dicevi
sarà il giorno finita la clausura di cercar
ventura, io consumo l’attesa passando
il ponte e tu sei pronto a uccidere l’illusa
speranza un’altra volta senza averne
pietà”, negli occhi stupefatti è pura
luce il fiume la città corpo segnato
per secoli paziente si dispone al nuovo
giorno (pag. 92).

Trovo molto significativo quel “disporsi al nuovo giorno“, straordinaria quella definizione di Roma quale “corpo segnato / per secoli” e in effetti è vero che tutto il libro di Francesco è un riferirsi continuo al corpo senziente, pianta tra le piante, albero tra gli alberi, oserei dire, ma pianta che si muove da luogo a luogo e che contiene una mente che riflette e scrive, che capta e trasforma in canto, che percepisce lo scorrere del tempo restituendone il moto di fiume.

 

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Non è un caso, allora, che uno dei luoghi ricorrenti nel libro, il Pineto, sia al centro di un’edizione d’arte edita nel 2013 dal Bulino di Roma e corredata dai disegni di Silvia Stucky: si tratta del poemetto Primo maggio nel Pineto il quale sembra continuare L’osservatorio, esserne quasi una sezione aggiuntiva, ma, pure, con una sua precisa autonomia, ché qui Francesco Dalessandro può con più agio richiamare e riproporre anche i turbamenti e le scoperte erotico-amorose dell’adolescenza, sempre intrecciandole con magistrale arte alle percezioni, numerosissime, che il noi, il pronome-soggetto caratterizzante l’opera (il poeta e la sua compagna), riceve ed esprime:

Dai casali diruti siamo entrati
nel verde e seguendo sentieri
già tracciati con altri gitanti
della festa –

(…)

al cuore del Pineto ci siamo
diretti seguendo solo i nostri
estri con l’intenzione di goderci,
liberi da pensieri, passeggiando
in piena libertà il bel mattino
festivo, primo maggio dell’anno
novantasette in cui una primavera
serena per noi forse trascorre (le pagine non sono numerate, ma si tratta, qui, dell’attacco del poemetto e di versi di poco successivi).

Primo maggio nel Pineto diviene allora anche un lungo flash-back accorato, struggente, talvolta malinconico nell’adolescenza del poeta (la lunga sequenza dedicatavi è di commovente bellezza), e anche questo poemetto, come il libro di cui in precedenza, è vibrante di vitalità e di slanci, di sensazioni e di un riconoscersi appartenere a una comunità la quale anch’essa s’abbandona al sentire e al percepire la luce, gli odori, i diversi luoghi del Pineto, il variare del dì festivo, ché spesso sono presenti riferimenti agli altri gitanti incontrati, alle coppie di fidanzati e amanti che animano il luogo di gesti e di desiderio, ai compagni d’infanzia e d’adolescenza …
Primo maggio nel Pineto è pur’esso poemetto percorso da un moto perpetuo (in fondo, se ci si pensa, un corpo ha vita finché il sangue vi circola senza interruzione e attributo essenziale del corpo stesso è il movimento, per cui esistere è moto ininterrotto, e anche cambiamento continuo e attraversamento del tempo).

(…)

l’assoluta serena bellezza
del tardo mattino di maggio,
che perfetto per trasparenza
e chiarità ci viene regalato,
mentre infine noi siamo tutto
ciò che vediamo che sentiamo
e ricordiamo senza sforzo, solo
lasciandoci andare al ricordo,
senza intenzione come se leggendo
ci cogliesse un sonno improvviso,
leggero e breve ma al quale
non possiamo o sappiamo resistere.

Ma, in verità, il poemetto andrebbe letto tutto in sequenza, anche per cogliere e apprezzare il disporsi vasto e sinuoso della sintassi, la sua armoniosa complessità che perfettamente restituisce proprio la complessità di pensieri e sentimenti, un’architettura linguistica e compositiva che (e lo ribadisco anche qui) ben a diritto merita di essere chiamata carmen, proprio secondo l’idea latina del componimento lungo, anche solenne, saldo e complesso nella sua espressione metrico-prosodica e linguistica; perché non ricordare allora gli Charmes di Paul Valéry, per esempio, o i Canti leopardiani e, ovviamente, Verso le sorgenti del Cinghio o Presso la Maestà B. di Attilio Bertolucci? Dalessandro compone una poesia controllatissima dal punto di vista formale e proprio la forma sa dispiegarsi senza forzature, né sbavature o incertezze, accogliendo in sé ogni aspetto del vivere, percorrendo anche in questo bel libro l’arco che si dispiega dall’adolescenza, attraverso la maturità, verso la vecchiaia (significativo il trapassare dei tempi verbali dal presente all’imperfetto/passato remoto al futuro):

(…) A fatica scaleremo
l’impervio terreno gibboso
e secco ascenderemo gradini
di friabile argilla e di roccia
tra radici di sughero e querce
nane, ma in vista della strada
e dei palazzi, sul sentiero
finalmente raggiunto sospinti
dall’ansia usuale affretteremo
il passo, il passo come sempre
verso casa.