Del mondo, della lingua
di Antonio Devicienti
entrava nella lingua
tentando di dire il mondo da lì:
gli ripugnava subirlo –
galleggiarvi dentro per improvvisi
inconsapevoli spasmi –
per immeditati gorghi di percezioni.
distanziare il mondo da sé
e dirlo
continuamente riorganizzando
il paesaggio della lingua
la quale non fa presa sul mondo
ma ne sta
contemporaneamente
dentro e fuori.
Posso dire che mi ci ritrovo, come in uno specchio? Parole potenti.
Mi appare questa, più che una poesia, una dichiarazione di poetica condivisibile, tranne che, per me almeno, l’ultima asserzione. Chi scrive continuamente emerge ed è sommerso dall’oceano della lingua e l’elemento del linguaggio, plastico e pure fragilissimo, è l’unico strumento per “fare presa sul mondo”. Di sicuro è una minima frazione di mondo ad accogliere questa lingua, ma è quella parte di umanità ancora capace di far risuonare e dilatare parole di salvezza.
Grazie per il vostro passaggio, amiche carissime.
Ed è vero: si tratta di una mia personale riflessione, opinabile e imprecisa – ma in questo periodo sento come una ferita che non si rimargina l’impossibilità della lingua di “far presa sul mondo” e di opporsi in maniera efficace alla violenza (di ogni tipo) dilagante – ma si continua a scrivere, proprio per non cedere tutto il terreno, proprio perché qualcuno che ascolta e risponde rimane.