
La luce delle crepe (EdiLet-Edilazio Letteraria, Roma, 2016) di Luciano Nota sembra erompere da un paesaggio interiore e da un pensiero poetante che, congiungendosi, danno vita a un libro coerente, armonioso e convincente; ché, se è vero che la prospettiva di scrittura è quella dell’io, il ductus del discorso e l’enuclearsi dei testi, lo strutturarsi del libro e le scelte stilistiche sanno superare ogni limitante soggettività o confessionalità, concretizzandosi in un itinerario materiato di cose, di luoghi, e di un legame mai scisso con la memoria e gli affetti. Le “crepe”, quelle del paesaggio lucano, vien fatto di pensare, i calanchi e le gravine, le fenditure nella calcarenite del Materano, le crepe che il tempo, il sisma, il moto naturale del terreno aprono nei muri delle antiche abitazioni sono fenditure che s’incidono anche nella mente provocando il dolore della nostalgia e dell’assenza, ma lasciando, contemporaneamente, filtrare la luce dell’amore e del pensiero, del vivere e del poetare.
“(…) / e alle pietre del mio paese / non ancora frantumate” recita infatti parte della dedica in apertura del volume, seguita da una citazione da Raffaele Carrieri (“Il vento ci somiglia / e pure l’eco / dentro la conchiglia / che rimormora lo spreco / delle maree“) e già questo è luogo su cui fermarsi a riflettere: a parte l’inammissibile oblio (con scarse eccezioni) che ha avvolto l’opera di Carrieri, sono convinto che Luciano Nota abbia così imbastito un preludio all’intero suo libro che introduce i lettori al tema della pietra (minacciata di distruzione) e a un’intonazione della dizione poetica musicale e in accordo con gli elementi essenziali (il vento, la voce, il mare, la luce) del mondo; il primo testo conferma quanto testé affermato:
VISIONE LEGGERA
Del muro, della lastra, della pietra
ho sempre avuto una visione leggera
nonostante il muro, la lastra, la pietra
m’avessero accerchiato.
È sempre stato un tragitto alterato
simile ad un occhio orbo
che ha voglia di scrivere sul marmo
che il vento, il muschio, la luce
non sono mai esistiti.
(pag. 13)
Non il muro nemico e cieco di Kavafis e di Holan si profila in questi versi, ma la familiarità con il muro, con la lastra, con la pietra, familiarità capace d renderli “leggeri”, anche perché, è bene non dimenticarlo, scrivere è prendere distanza dalle cose, giungere a una loro rielaborazione in forma di visione e di parola, come ben scrive Luciano si tratta di “un tragitto alterato” capace di mettere in relazione questi tre elementi con il vento (ancora!), il muschio e la luce (ancora!), o meglio con la questione cruciale della loro esistenza o non-esistenza in rapporto a uno stato mentale e psicologico – e a una storia personale. Questa poesia non è infatti mai descrittiva, ma ogni oggetto nominato, ogni immagine sono veicolati da una precisa condizione dell’animo e/o del pensiero, si sovraccaricano di valenze provenienti dall’interiorità e dalla cultura, costruiscono un universo simbolico e allegorico molto complesso e che va esplorato palmo a palmo, talvolta malinconico, talaltra gioioso di vita, qualche volta nostalgico, altre volte vibratile di musica e di luce.
È così che, leggendo il testo successivo, mi viene in mente una lirica bellissima di Ilaria Seclì (BILANCIA D’ACQUA, contenuta nel libro Del pesce e dell’acquario pubblicato presso LietoColle nel 2009), autrice salentina anche lei affascinata dalla dialettica tra la pietra e l’acqua e scrivo questo perché Luciano si colloca a pieno titolo nella schiera di poeti lucani e salentini (e, più in generale, meridionali) che, vivendo la propria emigrazione nel Nord d’Italia, assegnano alla loro scrittura anche questo dovere di tracciare i lineamenti di una storia e di una memoria:
PILA D’ACQUA
(…)
Vedi, è troppo il mare, la sua grandezza
fa male, bisogna ridurre.
Il detrito è un corpo stabile,
nessun colpo potrà dividerlo.
Vieni, osiamo farci falda,
resa armonica oltre la porta.
Muoviamoci in quella pila d’acqua.
(pag. 14): è una dichiarazione di poetica, questa, espressa tramite immagini derivate direttamente dal legame dell’autore con la sua terra lucana e materana – nell’apparente arsura delle rocce e tra di essa si accumulano falde invisibili o scorrono lenti e siccitosi corsi d’acqua: la poesia è un “ridurre” e un ridursi a “detrito” (ciò che rimane dell’erosione, dello scalpellare, del grattare via), un “osare” (splendido verbo, qui) farsi falda, acqua contenuta in un cavo di roccia o in una “pila” escavata apposta (nella “pila” di pietra, al Sud, si lavavano i panni, si lavava sé stessi, si dava da bere agli animali, si accumulava l’acqua da mescolare con il verderame per irrorare la vigna…) – nella poesia di Ilaria Seclì il lavacro cui la mamma la sottoponeva da bambina è immagine di un bilanciamento tra presente e passato, ricordo e futuro, aridità e vitalità – nella lirica di Luciano la pila d’acqua è premessa necessaria al vivere e allo scrivere, “resa armonica” (splendida anche quest’espressione, devo dire) “oltre la porta”, soglia tra vivere e dire – e “muoversi” è qui sinonimo di vivere, di esistere, di poetare.
Ma la delusione, l’amarezza, la sconfitta non vengono eluse, trovano nella scrittura un riscatto, il passo che salva dalla disperazione e dalla resa:
FORSE PERCHÉ ASSUEFATTO
Forse perché assuefatto
ai più aguzzi disinganni
che continuo a filare il manto
delle più ardue condizioni.
Forse perché scrivo
e non mi privo dell’incanto
che continuo a sostenere
il fabbisogno delle larve.
(pag. 15): scrivere è “non privarsi dell’incanto”, mi piace immaginare che le “larve” siano immagine di tutto ciò che, ancora allo stato larvale, appunto, in nuce vuole venire all’esistenza, per cui la poesia coincide con la necessità stessa di vivere.
Molto espressiva viene allora a essere l’immagine della scala / delle scale, presente in due liriche consecutive e sapientemente contrapposte l’una all’altra già da quell’innocente (ma solo in apparenza) variazione tra singolare e plurale:
LA SCALA
(…)
Sono ancora legato a una scala
fatta di pioli e di vuoti
un insieme di solchi
che cremano l’atrio
il puntello.
Di continuo sento
il crepitio stordito del legno
del cibo ammassato
sul terreno.
Mi chiedo quale vento
possa io inalare
nel lanciare il mio corpo
oltre l’oro del vuoto
(…)
(pag. 19) – è una scala vitale, colma di ricordo e di fortissima presenza alla mente del poeta; a contrappunto ci sono
LE SCALE
Le scale
questi ansanti tabernacoli bianchi
marmi sui quali gli umani
pavimentano l’anima.
Scale fatte d’aria
dove non ruotano i venti.
(…)
Le scale
questi penosi tabernacoli bianchi
dalle antiche radici di ferro
che non danno colore
non spargono odore
a chi stringe più in alto lo scettro.
(pag. 20) – “ansanti” e “penosi” i tabernacoli di una religione vuota e svuotante, senza “colore” né “odore”, enorme colpa agli occhi di un poeta che proprio i colori e gli odori ama e perché retaggio memoriale e perché pienezza della vita nel suo manifestarsi, dal momento che
DA GRANDE
Se dicessi veramente
quello che al mattino penso
appena desto
con parte della schiena
e del braccio dormienti
col capo prostrato
per non essere riuscito
ancora una volta a capire
la terra e i suoi gesti,
mi lanceresti come razzo
in mezzo al cielo.
Da grande farò la luna.
(pag. 23)

Con linguaggio apparentemente semplice, ma nato, in realtà, da attento labor limae, attingendo a situazioni del tutto comuni all’interno delle quali egli trova la poesia, Luciano s’inventa quest’espressione semplice e al tempo stesso indimenticabile, fragorosa e pregnante: “da grande farò la luna”, cioè il poeta, perché, mi pare di poter interpretare, il fallimento recidivo nel capire “la terra e i suoi gesti”, la prostrazione conseguente alle sconfitte non sfociano in disperazione e rinuncia, ma nel sogno di diventare colei che guarda la terra e sulla terra ogni notte si affaccia: è come se il poeta appartenesse e alla terra e al cielo, come se egli fosse creatura immersa nella terra e proiettata in cielo, terrestrissimo bimbo che pensa il suo diventare adulto.
Ed è un libro musicale La luce delle crepe, possiede uno spirito mozartiano, ma anche un’attenzione alle combinazioni musicali che la stessa lingua italiana, per sua intrinseca natura, offre:
LIUTO
Muto, nel silenzio più assoluto
ascolto te che parli ai tarli.
È una regola che tutto muti.
E non par vero che il legno
con le piaghe in eccesso
sia regno, sia liuto.
(pag. 24)
Mi provo a compiere un’analisi degli aspetti fonici e fonetici di LIUTO: “muto” trova risonanza di rima al termine dell’endecasillabo stesso nel vocabolo “assoluto”, il quale echeggia, per aumento di “c” e sottrazione di “u”, nel verbo che inizia il verso successivo “ascolto”; “parli” e “tarli” sono, ovviamente, in strettissima correlazione grazie alla sola variazione della consonante iniziale, ma ancora il “muto” dell’inizio della lirica riecheggia, pur nella radicale differenza di significato, nel “muti” alla fine del terzo verso; “legno” (fine del quarto verso) riverbera in “regno” (sesto e ultimo verso) per avviare la composizione a conclusione con il termine eponimo del titolo, “liuto” il quale, ancora, sembra richiamare in rima l’aggettivo “muto”. Ci si rende così conto di quanta elaborazione anche stilistica abbia conosciuto questo libro nel quale Luciano Nota raggiunge una compiuta, bellissima maturità, dimostrando di possedere una propria voce distinta e riconoscibile, riuscendo a mettere a frutto (ma non come epigono, si badi bene) le sue vaste e profonde conoscenze e letture, proprio come se l’acqua, filtrando per le fessure e le porosità della roccia, purificandosi fosse andata ad accumularsi nel prezioso serbatoio-libro (o libro-stiva come dirà più in là) o come se la scala di legno fosse stata davvero in grado di condurre il poeta a farsi luna-poesia, o ancora come se le crepe fossero e rimanessero il punto prospettico migliore per un poeta come Luciano:
LE COSE VISTE DALLE CREPE
Le cose viste dalle crepe
sono enormemente più belle.
Le scorgo diverse, libere da impegni.
Non hanno peso, ma riposo.
Stanno sopra il capomastro.
Mai voltarsi, mai centrarle.
Sono stive
e per questo assai più vive.
(pag. 26): “stare” è il verbo fondante, dunque, “riposo” il sostantivo più espressivo, la rima “stive / vive” non è, banalmente, espediente prosodico – e il poeta sa bene che, nel tentativo di dire, altrettanto fondante e significativo rimane il non detto, da parte mia aggiungerei la parte ancora vuota della stiva o della pila d’acqua, i luoghi ancora irraggiungibili per la scala: “(…) / cercheremo nel non detto / nel non fatto / il getto intero” (da GETTO INTERO, pag. 27).
Luciano Nota ha anche raggiunto un’asciuttezza di dizione e una direi senecana sapientia vivendi et cogitandi che bene è espressa nella composizione a seguire:
BREVITÀ
Assomiglio più a te
e che questo sia vero
lo dice la tua presenza
sulla tavola da pranzo
dove al posto del piatto
tu ci posi una parola.
Che questa non sia piena
francamente poco importa.
I miei palazzi sono alti
le tue vetrate sempre scure.
Coraggio quindi
mettiamoci le scarpe
e andiamo.
Ti chiedo solo questo:
non seguirmi come al solito
non metterti più a nudo
(è facile pensare che tu sia
la mia coscienza).
E ti raccomando
non svanirmi al primo sciopero del sole.
Siamo entrambi verità
la brevità di chi ha parvenza.
(pag. 28)
PIOMBO (pag. 31) dimostra la lucidità di una mente, la consapevolezza di una coscienza, la forza di un’etica, PIOMBO rende ragione di quanto La luce delle crepe non sia soltanto un libro di poesia, non soltanto una bella prova di stile, non soltanto abile strutturazione di testi:
Non credo che tu esista.
Non esiste neppure quel germe
anche se quel germe resiste.
Non credo che esista Dio.
Non sento che strato tra le mani
anche se lo strato è sformato.
Non vedo le tazze, i tinelli,
non vedo le ardesie.
E non vedo gli strappi,
gli abiti. Non vedo le viti.
Nulla è più duro del cuoio
mischiato ai miraggi.
Piombo nell’occhio,
rimàrginati.
Quando l’odi et amo catulliano marca la soglia tra prima e seconda parte del libro, entriamo nel tema amoroso e rimaniamo abbagliati dall’inventività metaforica del poeta, dal suo avvicinarci anche all’aspetto fisico dell’eros, ma senza bisogno di descrizioni e o di termini che potrebbero risultare pesanti o inopportuni:
ANNUNCIO
Annuncio che sei agro e subbuglio
un frenetico olimpo di semi.
Precipita sotto la faccia
se stilli e boccheggi
se solo ti esalti di essere foglia.
Il gambo conosci
il fusto più o meno vorace.
È culto nuotare
in quel mare di farro.
(pag. 35)
Una dichiarazione d’amore, indimenticabile: “Ti sento / come pinna armoniosa in uno stagno” (pag. 36, da PRIMA DELL’ARRIVO); un desiderio: “(…) Morire d’amore / al centro di un querceto” (pag. 37, da AMMALIATI); un eros esplicito e non volgare, appassionato e non esibizionista:
POTEVI LASCIARMI L’ECO
Se ti fermi non fiati,
non degni neppure uno sguardo.
Se ti muovi vorrei capire
perché scuoti la massa,
perché la brezza sa di fulcro
e non di crosta.
A gambe nude il fluido è pieno.
Ho mosso il capo, è vero,
ho posto l’occhio sull’involto.
Potevi lasciarmi l’eco
sull’osso sacro.
(pag. 39);
ASPETTO TE
E se non mi avvicinassi,
se non toccassi neppure per un attimo
la tua corda
l’intero tuo fianco che vacilla
tra cupole e mattoni.
La mia mano somiglia
al maturo sentimento
del cosmo.
Non ti tocco.
Aspetto te
continuamente
nel torbido lucente.
(pag. 49);
IL PISTILLO DEFUNTO
Incolla il collo
al lato destro del cuscino
e la tracolla col suo laccio
resti vigile sul letto.
Dormi, e non ti offrire
alle lusinghe.
È tutto così calmo
che il defunto pistillo
non verrà più a macchiarti.
(pag. 50);
AUTENTICA CORRENTE
Attendo quel giorno
Che mi darai boato di liberazione
d’orgoglio
di taglio.
Lo attendo.
E resteremo amici
se dirai che allacciati
siamo stati un’autentica corrente.
(pag. 52)

È Seneca, con una brevissima meditazione sulla vecchiaia, a introdurre la terza e ultima parte; c’inoltriamo ora traverso le pagine dedicate alla terra lucana, al paese natale (Accettura), al ricordo dei genitori; così, con epigrammatica commozione, Nota scrive:
LA MIA TERRA
La mia terra è ciò che incide
duramente il dorso
e nel petto si stagna.
E non sarà mai spina,
ma cima.
(pag. 56)
Poi, a seguire:
ACCETTURA
Fummo ciuffi.
Uno dopo l’altro
in alcun punto poté posarsi il polline.
Fu lo spazio più ristretto,
l’attimo che avvita la luce
il colore.
Chi ti ha lasciato
ha una lenta agonia,
nel costato un senso di chi è stato
sosta e sostanza.
I morti sono i tuoi rami.
Ma non è più stretta quella gabbia
se con un sibilo richiama
l’allodola e l’acquasanta.
(pag. 57)
Il ritorno, la memoria, l’esilio nel Nord, la meditazione intorno a un’identità, il mai interrotto colloquio con i genitori morti – in un dischiudersi di tali temi le composizioni di questa parte del libro sanno conservare un’asciuttezza che non cede mai al sentimentalismo, si costruiscono secondo un’etica che deriva dalla sobrietà e dalla laconicità dell’antica civiltà e cultura contadina, l’elegante tripartizione del libro che va dalla meditazione esistenziale e poetica all’eros trova approdo nella meditazione sulle radici personali e culturali, si riconosce in quegli elementi essenziali che fanno piazza pulita del superfluo e del vacuo, direi in una virgiliana pietas per le cose, gli animali e gli uomini:
LA STRETTA
Umanità, papà, il pane e il vino
il destino di chi era, chi è
nuvola palpabile.
L’uomo maturo non manca all’appuntamento
ha sentimento, lo cura da anni.
Ha interrato l’arma, il rigore
ha scovato l‘inviolato.
Ha capito che il muro è un pesco
che innesca simmetria.
Una stretta questa volta, papà
con lo scolaro ambiguo
morto trent’anni fa.
(pag. 58) – ammirevole, tra le molte già incise nella memoria di chi legge, è questa composizione: se molto forte, dal punto di vista del ritmo, è quell’accostamento iniziale di due sostantivi tronchi (“umanità, papà”), l’immagine “nuvola palpabile” e l’espressione d’assoluta bellezza e persuasiva forza “è un pesco / che innesca simmetria” costituiscono due perni attorno ai quali ruota la lirica; “curare” è l’atteggiamento etico che, è evidente, attraversa tutto il libro, mentre la memoria e la distanza temporale ristabiliscono il rapporto col padre ora che il poeta è, per dir così, padre (quindi responsabile) di sé stesso; ma essenziale, fondamentale, vitalmente presente è la figura della madre ed ecco un altro testo d’apparentemente semplice costruzione, ma denso di rimandi e significati:
PIGNOLA
C’è acume sulle scale.
Una grande sacca
reca piante sulle spalle.
Si deve salire
scendere e risalire.
Siamo in tre.
Dalle pieghe delle pietre
si sbrogliano nodi,
dalle punte fuoriesce il grande altare.
Qui è nata mia madre.
Il ripiano è ancora intatto,
ancora illeso è il legno duro.
L’amico mi chiede di posare,
di poggiare la mano
sulle grinze del muro.
Fermo il dito nell’incavo
dove legavano il mulo.
(pag. 61) – dovrei citare, lo so, Sinisgalli e Pierro e Scotellaro, le loro liriche dedicate alle rispettive madri; lo faccio, infatti, ma per ribadire l’originalità di queste pagine di Luciano Nota il quale non rinnega, ovviamente, i maestri, ma ne continua la lezione trovando (l’ho già scritto) il proprio timbro di voce che costruisce il testo per sequenze d’immagini all’interno delle quali assumono grande concretezza i verbi e i sostantivi: la casa natale della madre (e solitamente, ci si rifletta, la madre è legata alla nascita del figlio: qui Luciano fa, per dir così, un ulteriore passo a ritroso oltre la propria origine personale) si profila con una scala e con quei “salire / scendere e risalire”, mentre le pietre, il muro, “i nodi” e “le grinze” del muro dicono di vite di lavoro e del trascorrere delle generazioni ed è facile immaginare la casa lucana, bianca di pulitissima calce al suo interno, ove il letto dov’è nata la madre può con legittimità essere un altare e dove la mano del poeta compie due atti apparentemente uguali, ma distinti non a caso da due verbi somiglianti eppur dissimili: “posare” e “poggiare”, simili nel significato, dissimili nei suoni, ma, anche, forse, nel loro esprimere la differente intensità del tocco, nella loro lirica concretezza di azioni del toccare, oppure nel possibile climax innescato dai due verbi, o nella reiterazione di un atto che appartiene al rito che va compiendosi lì dentro dove sacra è la memoria. L’incavo, infine, che potrebbe rimandare anche all’elemento generativo e femminile, lì “dove legavano il mulo”, dice del legame inscindibile tra esseri umani e animali nell’antica civiltà contadina di queste terre, dice, laconicamente ma efficacemente, di una discendenza.

MANTELLO
Ricordo mia madre
poggiata all’inverno
la mano tra le briciole
il peso perso nel cervello.
Ricordo uno sguardo
bello come un anello.
Ricordo un brandello
un sorriso di speranza.
Ricordo d’aver dormito
ntrato nel mantello.
(pag. 62): quasi una filastrocca, ma in realtà uno struggente dipanarsi della memoria, un ritorno, attraverso la poesia, al proprio stadio fetale, così da ristabilire, nei due testi, la linea della discendenza: nascita della madre – nascita del figlio e suo essere-nel-mondo, ma vegliato dal ricordo della madre.
E sono, allora, molte le ragioni e tutte ben comprensibili per cui proprio in questo punto del libro si affaccia la figura di Pier Paolo Pasolini:
AROMA
(a Pier Paolo Pasolini)
Di pensiero in pensiero
di parola in parola.
E col pensiero
la lucertola di lì a poco
avrebbe stretto il fanello.
Di fatto non c’è luogo
né bersaglio
nessun affanno
nessuna tomba.
La sua parola torna a mezzogiorno
come l’aroma
sul fronzolo dell’arena.
(pag. 65)
Si constati ancora una volta come quella di Luciano Nota non sia una poesia “gridata”, ma forte proprio della sua saldezza compositiva e della sua coerenza intellettuale: Pasolini costituisce evidentemente il Maestro etico, letterario e politico di Luciano, il titolo, giocato su di un eventuale “a Roma”, dice dell’aroma dell’arte pasoliniana, avvertito dal poeta lucano “di pensiero in pensiero / di parola in parola” e la negazione della “tomba” (della morte definitiva di Pasolini, mi vien fatto d’interpretare) non avviene per moto irrazionale, ma per precisa consapevolezza: “La sua parola torna a mezzogiorno” che è, a mio modestissimo avviso, uno dei modi più alti e seri e degni con cui un poeta italiano abbia fino a ora saputo rendere omaggio alla figura di Pier Paolo Pasolini – e anche di questo sono profondamente riconoscente a Luciano. In tale linea di continuità ne leggo i versi che seguono, così colmi di slancio:
(…)
E credere all’incanto,
al mito realizzato
dell’uomo capace di
avere deliri,
e volare.
(da DELIRIO, pag. 68) e anche i seguenti:
“(…) Rivoglio il mio rosso d’alba, / le arance più succose sulla carta” (da ROSSO D’ALBA, pag. 69).
Per concludere voglio citare la prefazione di Dante Maffia e la postfazione di Marco Onofrio, tutte pagine appassionate e ricche di suggestioni, nutrite di passione e di conoscenza profonda del mondo umano e poetico di Luciano e niente affatto pagine di circostanza come talvolta, purtroppo, avviene.
Le fotografie che corredano l’articolo sono tutte di Mario Dondero e si riferiscono la prima alla Festa del Maggio di Accettura, la seconda è una foto di scena dal reportage “Comizi d’amore”, la terza è anch’essa una foto di scena dal set del Vangelo secondo Matteo, l’ultima è un ritratto di Pasolini insieme con sua madre.