Soumaïla Goco Tamboura contempla la falesia
di Antonio Devicienti
Egli canta la falesia, il villaggio e l’acqua nascosta: in tal modo essi esistono.
Io, straniero, la mia ragione d’Occidentale rinchiusa nella scatola cranica, vedo solo rovente pietrame e la miseria del villaggio.
Egli canta l’universo di sopra e di sotto, degli spiriti e degli eroi, asce sapienti ad aprire i cammini in verticale, il cuore battente della montagna, la gola spalancata per l’acqua a inabissarsi nella sete degli uomini.
Io, straniero, le dico superstizioni, non so vederne la vitale necessità. Non so vedere.
Egli canta l’ospitalità della terra, la voce del vento, la presenza degli spiriti in creature animali sapienti. Egli non ha mai visto il mare, il suo universo s’intesse di canti, segni e gesti, di cieli, sogni e premonizioni.
Io, straniero, guardo arbusti disseccati, muri d’argilla. Ma non vedo.
(per Yves Bergeret, instancabile viaggiatore, poeta amico di poeti, che mi insegna a vedere)
Per approfondimenti consultare la Dimora del Tempo sospeso e Carnet de la Langue-Espace.
Che bello avere maestri… In questi giorni sto leggendo Ebano di Kapuscinski e il tuo scritto cade a fagiolo!
Ciao, Fiammetta e grazie. “Ebano” è una delle letture che mi sono ripromesso di fare a breve.
molto bella
Grazie, mi sento onorato e incoraggiato da un tale commento.
Un tappeto di visioni rivelatrici. contro la banalità dell’occhio occidentale, retaggio colonialista. Questi versi di Antonio ci portano sulle pianure di devastante bellezza dell’umanità originaria.
Riconosco quello che qui scrivi, Annamaria carissima, in ognuno dei tuoi libri, nel tuo stesso modo di concepire la poesia.
E te ne ringrazio.