Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: aprile, 2018

Tappe dell’andare: New York (ascoltando il sax di Charles Lloyd)

 

Eduardo Chillida: Gravitación

 

La vertigine, diva degli estuari, dei delta:
e il fluire della riva dentro l’azzurro (il mare):
non sa fermare inquiete le dita rapide
percuotono avide dolce-e-salata grana
di luce ch’è gitana annunciazione fiamminga
e ritmo impressionista di finestre e finestre
sullo Hudson vecchio stregone scala galleggiante
sopra il dorso di pesci atlantici orme guizzanti
sù sù fino ai serbatoi sopra i tetti vastissime
agorai delle abitate torri di mattoni
poi avvitate scale antincendio e ancora sempre
finestre come pistoni del sax (a salire)
(a scendere) volti dell’esistere protesi
al fiume, al mare, al canto, alla jazz che verrà.

 

 

Visioni 5: Michael Kenna

 

Michael Kenna: Spider and sacred text, study 2, Gokurakuji, Shikoku, 2001

 

Testo e intessere

L’occhio è quello della fotocamera Hasselblad: aracne intesse (lenta, sapiente) tramatura di luce e silenzio.
Il testo sacro, tessitura di segni e di sillabe che le labbra appena pronunciano, ha un moto levissimo di lettura (e d’onda).
Lo spazio tra lo specchio imponderabile intessuto da aracne (è tessuto di fibre e di vuoto tra le fibre) e la bianca tramatura della carta lascia danzare la figlia dell’aria e la scrittura dei cercatori di stelle (che con polso di poeti dipinsero le parole interroganti. Trepidanti).
Pellegrino-e-viaggiatore il fotografo tende la sua ciotola-fotocamera per ricevere in elemosina il riso bianchissimo della mattinata intessuta di sguardo, tramata di stupescente inapparenza.

 

 

Breve saggio sui “cavallini” di Zoran Mušič

 

 

L’artista che ha fatto esperienza del campo di sterminio non si ferma a quell’esperienza, per quanto essa possa parere definitiva e insuperabile. Ultima.
Mušič giunge a Venezia dopo la guerra, la luce lagunare lo avvolge, lo convince a un esistere capace di trovare nostalgie e malinconie che lo riconducono verso una Dalmazia interiore – perché è vero che la patria / matria di un essere umano è un territorio interiore stratificato d’immagini, mitologie, nostalgie.
L’invenzione della propria terra è un viaggio della mente che dura decenni, è migrare del pensiero: la propria terra è un a priori che, però, rimane sterile e immobile se non viene abbandonato per essere trasformato nella terra in fieri della propria interiorità.
Dalmazia interiore, immaginifica, di delicatissimi colori e di forme dolci, accoglienti.
I cavallini si muovono insieme, perenne il loro andare, manti e sfondi e terreno in modulati gialli, beige, azzurri, ocra, delicati marroni, bianchi (Mušič modula e varia anche i bianchi che, al contrario del diffuso pregiudizio, esistono in differenti gradazioni e riflessi, perché è l’occhio a vedere, non il colore a esistere già definito e definitivo).
E, coerenti con la Dalmazia interiore, ci sono una Venezia e una Laguna interiori e un Mediterraneo interiore: il maravigliante crogiuolo mediterraneo genera le donne dalmate, sempre ancora i cavallini in marcia, sotopòrteghi veneziani (su di essi tornerò a riflettere a breve) e il dilatato spazio della Laguna e di Marghera.
Camus e il sole di Orano; Ritsos e il campo di prigionia di Makronissos; Mahmud Darwish e l’esilio nella propria stessa patria; permane l’impressione che questi artisti-fratelli abbiano lasciato echi nelle immagini di Mušič, il quale disegna e dipinge, all’inizio della propria ricerca esistenziale e artistica, quei volti e quei corpi offesi e deformati dalla morte violenta nel campo di sterminio: poi il Mediterraneo, esso stesso violentato e tragico, giunge a manifestarsi con la sua forza vitale, trapassa in immagini delicate ma non immemori del dolore, talvolta fiabesche ma non dimentiche della storia – la storia viene anzi attraversata e restituita in questa forma peculiare di Dalmazia, Venezia e Mediterraneo interiori. E non ho difficoltà a riconoscere nelle pagine di Predrag Matvejević numerosi tratti comuni con l’opera di Zoran Mušič: la civiltà stratificatissima dei popoli mediterranei si rispecchia in segni alfabetici che diventano parole e in tratti grafici che diventano immagini risplendendo di un’attesa di pace e di riconciliazione.
I cavallini sempre in marcia e sempre in transito, dicevo: ma anche le figure umane che s’intravedono nei sotopòrteghi, le visioni delle facciate veneziane (e anche quelle del Canale della Giudecca o della Laguna a Marghera) non sono mai immobili, animate bensì da un movimento continuo, ch’è poi quello dell’acqua e dell’esistere, della luce lagunare e del volo degli uccelli marini – aggiungerei che Mušič restituisce alla città quello che il turismo di massa le sottrae: l’attenzione per la vita quotidiana in una Venezia non ridotta a cadavere putrescente di sé stessa né a gigantesco supermercato per turisti.


Le figure che s’intravedono nei sotopòrteghi sono in attesa o in cammino, riecheggiando il moto dei cavallini, ma in un contesto urbano (seppure particolarissimo qual è quello veneziano). E mi piace pensare che il sotopòrtego con il suo accesso profilato da due pilastrini portanti la trave orizzontale in grigia pietra d’Istria o in legno sia soglia e accesso, immagine dell’opera d’arte stessa che vive nell’illusione d’essere soglia (anche Schwelle di celaniana memoria) a stadi ulteriori del pensiero.
Ritrovo in alcuni versi di Domenico Brancale ragioni capaci di confermare la significanza dei cavallini di Mušič:

Ma come rispondere al presente?
Scendendo in sé. Questo è stato indispensabile.

Dinanzi alla porta dalle venature marcate
finalmente sono usciti dalla corteccia che li vuole dentro.
Nessuna vergogna copre il loro volto.
I corpi hanno saldato l’enorme debito col dolore.

(da Per diverse ragioni, Passigli, Bagno a Ripoli, 2017, pag. 57):

si tratta proprio di rispondere al presente che c’interroga ponendoci spietatamente innanzi a noi stessi – “scendere dentro di sé” lo fece l’artista sloveno ritrovando quella Dalmazia interiore di cui parlavo poc’anzi e la “porta dalle venature marcate” richiama alla mente la Cattedrale del 1984: ancora una facciata, una soglia, un confine tra qui e là, tra fuori e dentro che non contraddice né nega le piane orlate di colline e di montagne sulle quali trottano i cavallini, perché il Mediterraneo interiore dell’artista sloveno è materiato di edifici dove Occidente e Oriente s’incontrano armonizzandosi, di specchi d’acqua, di animali dal variegato manto o piumaggio i quali trascorrono traverso spazi visionari.

Non so se esista un’analogia tra i cavalli di Franz Marc e questi di Mušič, tra i profili del paesaggio ad Antibes o ad Agrigento di de Staël e questi veneziani, tra l’Oriente di Matisse e l’Oriente veneziano-dalmata di Mušič; so per certo, invece, che questi accostamenti cercati dall’occhio e dalla mente (ma penso anche ai manoscritti ottomani e ai paesaggi di Piero di Cosimo) (ai corredi per le nozze delle antiche donne mediterranee e alle modulazioni del canto d’amore greco) deflagrano dal punto preciso in cui i cavallini appaiono nella loro verità: essi non suscitano piacere estetico (sterile e transitorio), sì invece evocano la forza persuasiva dell’opera quando quest’ultima riesce a essere necessaria per motivazioni storiche e culturali:
trapassano davanti allo sguardo i cavallini, procedono dal campo di sterminio verso un tempo non ancora pacificato né riconciliato, impastati di segno e di colore domandano e non consolano, sono in marcia, transumanza per regioni che sanno l’orrore, che aspettano atti umani, la cura del pensiero nei confronti della terra.

 

 

 

Del caffè di Châtillon en Diois e di altri luoghi

 

 

Questo poema, cominciato a Die nella Drôme, è dedicato a Yves, Elma e Giulia. I luoghi sono Die, Châtillon en Diois, Saillans, Crest, l’Abbaye di Valcroissant, i fiumi Drôme e Bez che vi appaiono più o meno trasfigurati, così come caffè e case pur realmente esistenti. Le persone sono quelle incontrate, nella realtà o in sogno, durante i pochi, splendidi giorni di Pasqua a Die; il “filosofo-mathématicien” è Marcel Légaut.
Questo poema vuol essere un nuovo omaggio alla Francia e un ringraziamento per l’ospitalità squisita offertaci dal Poeta della Lingua-Spazio e dalle persone ch’egli ci ha fatto incontrare.

Proprio mentre terminavo di scrivere questo poema Yves Bergeret pubblicava sul suo blog un bellissimo testo che ha al centro i due fratelli carpentieri e una delle case (quella della trave portante) della quale anch’io scrivo nel mio poema:  Le Bois de vie.

E il 18 aprile Yves pubblica il mio lavoro, da lui tradotto, in francese: e della sua generosità lo ringrazio ancora: Carnet de la Langue-Espace.

 

Il barista ex-clown ex-trapezista
saprebbe raccontare centinaia di storie
se l’avventore, entrato per un caffè,
glielo chiedesse.

Chi guarda i muri foderati di sbiadito legno,
i tavoli degli Anni Cinquanta,
le fotografie in cornice da un circo
ormai dismesso
potrebbe intuire che quell’uomo sta, in realtà,
sulla soglia del poema.

S’intravede alle sue spalle,
tra la teca delle brioches e l’orologio a muro,
il tempo pendolare della scrittura.

C’è un torrente che irrompe
impetuoso da una gola rocciosa
come fa talvolta la scrittura
dopo lunghi tempi di secca e d’attesa
e il tempo si riapre in tempi
e i tempi fitti s’intrecciano,
vannerie della parola.

Sedersi con il matematico-filosofo di Valcroissant
sul margine del pascolo
e vedervi giungere una famiglia
di saltimbanchi e comici dell’arte,
dividere con loro un pane cotto
nel forno dell’Abbazia
e poi distendono stuoie di lana per terra,
attorno al fuoco si rannicchiano a dormire.

La luce al crepuscolo illumina ancora
le pietre grigie dell’Abbazia, il rosone,
i gradini, il viso del filosofo-mathématicien
i cui occhi
molto hanno letto e molto vegliato
in preghiere vaste secoli, in pensieri
privi d’inimicizia.

È allora che l’ex-clown e trapezista,
guardiano del poema,
come dinoccolato danzando
sui displuvi del tetto afferra la luna
ai lati tirandola a sé
vi si ficca dentro ridendo
vi fa dentro mille capriole
vi s’appende a testa in giù.

Perché c’è una trave portante,
ben fatta, splendida di ben lavorato legno,
una trave da sposare a muri
antichissimi, c’è un gran tetto
da riparare e riassestare:

due fratelli carpentieri capaci
di sollevare l’immane trave
fino al vertice solare del paese
(“a scuola ci annoiavamo”, dice l’uno)
(“l’antica casa strapiena di cose era scatola di sorprese”, dice l’altro)
invitano il guardiano del poema
a passeggiarci sopra
a farci ancora salti e capriole boccacce e galanti inchini

– e c’è un richiamarsi di pietra con pietra
cavata ognuna dalla montagna,
di pietra con legno, c’è la vita
(sacra) di fontane nel centro dei villaggi
per la sete di bestie e di uomini,
per la pulizia di vesti e utensili,
per il dissetarsi della mente
che guarda l’acqua sgorgare e scorrere
da cannelli antichi, dentro vasche
di lavorata pietra, lungo canaline
che l’acqua restituiscono alla
terra.

Tu lo sai: ogni fessura nella vasca
dell’alta fontana, ogni intermessura
nell’acciottolato, ogni vetro
d’antica finestra ricorda l’arrivo
di camionette militari
i maquisards asserragliati sulla montagna
(non è storia passata: è fiato nell’oggi),
i rastrellamenti
e le fucilazioni.

E la scrittura che ascolta la nobile
signora squisita ospite raccontare della Résistance,
si scalda al sole del primo pomeriggio,
si lascia condurre da lei,
l’altra guardiana del poema,
per sola virtù di parola umana e narrante
lungo le strade di Francia
dentro case di pietra antichissime
e così tu impari: mai sottomesse,
mai serve le genti di queste valli
e di queste montagne, sapienti
di generazione in generazione,
fedeli agli insegnamenti della montagna.

Il Poeta della Parola-Spazio
che ha i sentieri d’alta montagna
e le pareti verticali come
pagine dove scrivere il respiro
dell’aperto e del vasto
racconta luoghi e persone –
la sua casa segnata di passi
e solchi di generazioni e generazioni
in cima a una scala lunga
e stretta s’accampa dentro mura
millenarie si sospende
su di un arco
e il vicolo sottostante ha luce
di attraversamenti.

Ancora travi (quelle portanti,
quelle traverse, le centinaia di listarelle
inchiodate a formare il soffitto della stanza)
per una casa lavorata
palmo a palmo da mani sapienti
(commuove sempre la sapienza
delle mani): ancora un moto
pendolare da qui di nuovo a Valcroissant.

Tortuosa la strada,
ma l’eremo sa essere nel cuore
della comunità, della storia.

Le stalle addossate all’Abbazia,
il pagliaio e la legnaia.
Il filosofo-e-matematico viene a vivere qui,
la famiglia e pochi amici con lui:
il lavoro (che sporca le mani
e lascia puzza nei vestiti)
alimenta la mente, infuoca
la riflessione.

Ché si tratta di trovare vie nuove al pensiero,
palmo a palmo coltivarlo,
spalancarlo nel silenzio che
di notte fino all’alba sale alle
creste abbuiate delle montagne,
che dall’alba lungo l’arco
della mattinata discende sulla valle
aperta, poi nel pomeriggio s’addolcisce
toccando prati che furono intrisi
del sangue dei maquisards.

Occorre una libreria
e un atto libertario, il luogo
cui i libri arrivano per essere
offerti a mani golose di lettori
che li aprano, li sfoglino…

Il paese ha balconi e finestre
spalancati alla luce, un fiume
entusiasta d’esistere
e ancora una fontana dove
il passo della sete è
quello della lettura.

Occorre un caffè popolare
dove la gente parla di politica
e di mestieri, di raccolti e di lotterie.
L’ex-clown trapezista non viaggia
da decenni, passa uno straccio
umido sul bancone e certo ricorda
il furgone Citroën giallo col quale arrivava
la posta:

vi scrivo da luoghi dove
i potatori si trasmettono un mestiere
antico di millenni
e tagliare per diradare significa
dare forza alla vita.

Dipingerò le imposte di tenue verde,
pianterò un olivo nel grande vaso sul balcone,
olierò i cardini della porta,
riempirò la caraffa d’acqua
e comincerò a scrivere sul tavolo in cucina.

Il formaggio ha il sapore sapiente
dei canestri di giunco, il pane
la fragranza dell’intelligenza.

Una casa (tu lo sai) non è
nei numeri del catasto, ma nel libro
contabile del carbonaio e nel profumo
degli armadi che l’ebanista costruì
inchiavardandoli nelle nicchie del muro:
piano dopo piano, fino al colmo
del tetto, finestra dopo finestra, fino alla cimasa
a tripla ondulazione, un camino
in ogni stanza, i ballatoi
sospesi e i gradini di sonoro legno
a ritmicamente salire
lungo gli anni, i lustri, i decenni…

… o a scendere
fino agli archivolti delle stalle e
delle cantine, città inabissata di
canali, corridoi, frantoi ipogei, muri
mezzani, fornaci.

Una lanterna magica proietterebbe
ora esilissime siluette di clowns
trapezisti o di matematici sorboniani
e pianisti non su oscurate pareti
ma sul palmo della mano che
scrive e scrivendo restituirebbe
la mano quelle voci, quelle smorfie
del volto alla pagina
crocevia di transiti:

minimi cimiteri familiari
in aperta campagna segni ben
visibili dai secoli delle guerre di religione;

slanciate tettoie a proteggere forni
da dove comincia la distillazione
della lavanda;

la guardiana del poema, ancora
ragazza, mentre impara a scrivere
su di un quaderno copiando da un sillbario
e per questo il mondo, appena
nato, vi s’addensa tutto
e tu ringrazi: ogni nuovo poema
è atto di gratitudine per il mondo
appena nato.

Per andirivieni spasmodico proprio
il mondo
nuovo a ogni creazione, antico
a ogni sguardo,
viti ben potate all’intorno
e ogni volta la lingua si fa spazio –
lo spazio si rifà lingua:
al mercato accanto alla Cattedrale
la venditrice di spezie
il fabbricatore di saponi
l’intrecciatore di giunchi.

La luna di iersera s’è frantumata
nelle lampade esposte in una vetrina
e nella vannerie di sporte esposte nella piazza:
gli amici archeologi reduci dalla
campagna di scavi in Kurdistan
raccontano la derivazione del pensiero
dal desiderio di spazio e di volo,
dalla neve che, aspra eppure
complice, aiuta a varcare la frontiera.

L’avventore, che seduto a un tavolo
sorseggia il suo caffè,
guarda di sottecchi il barman ex-clown
e l’uomo pallido, assorto
nella melancolia del giornale, suo
cugino: è sempre questione di frontiera,
pensa, qui la frontiera corre
tra l’ostinato viaggiare del circo
e la fissità della strada dipartimentale
che taglia in due il paese –
tra l’amministrare un semideserto caffè
di provincia e il desiderio d’andarsene
in un qualche non-dove.

Ma tu, tu hai bisogno di passeurs affidabili
ora che la frontiera torna a correre
tra risorgente fascismo e parola:
hai con te, nella sacca di stoffa,
Char e Giacometti, Reverdy e Picasso,
Thierry Metz e Jerome Rothenberg,
doni tutti del Poeta amico carissimo,
tua figlia ha raccolto per te

ciottoli bianchi dal letto
dei fiumi selvaggi della regione,
riconvochi ancora il guardiano del poema

che nulla sa di letteratura
ma della vita e dell’amore sa,
della brusca lacerazione della morte,
dei troppi congedi

ed egli, asciugando un bicchiere
ultimo rimasto da una partita
di molti anni fa, lo appoggia capovolto sul ripiano
proprio tra la teca delle brioches
e l’orologio a muro.