Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: Maggio, 2018

La trapezista

 

Fermo immagine da “Il cielo sopra Berlino”.

 

Se sale sul trapezio
s’illude di staccarsi
dalle miserie quotidiane:
sa d’illudersi
e con sé porta fino al vertice
altissimo del tendone o del teatro
la flessuosa armonia di gambe e braccia,
lo scatto che inarca la schiena,
l’elastica torsione del bacino,
nella testa quella poesia di Lorca dedicata al torero:
s’arriva molto in alto con una poesia
in testa
e le prese da trapezio a trapezio,
audaci e matematiche,
risplendono.

In troppe piazze di periferia ha visto
W IL DUCE verniciato sul muro
o sulla panchina di cemento:
torna a comparire, violenta,
la croce uncinata o la celtica
sul palo della luce, sul marmo
dov’è il nome della strada.

Ogni sera sale al trapezio
lungo l’ondeggiante scala di corda
e spera di discendere dentro cuori
induriti, dentro occhi
che hanno smesso di guardare.

 

 

Dittico d’omaggio

 

 

IL VOLO DELL’ANGELO (per Amelia Rosselli)

Non mi bastava la luce nera del Merisi, dovevo
contendere alla notte il silenzio foderato
di melancolia, ascoltare voci parlarmi
da belliche distanze – e non è detto che la guerra
non duri anche dopo.

Non volevo specchi per guardarmi,
né balocchi per consolarmi,
il male di Woyzeck era il mio
e un coltello lordo di sangue non lo lava
l’acqua e nemmeno l’estro scrittorio:
se laceri il velo del mondo
sconti quel sangue che fiotta
e non hai scampo.

L’insegna al neon d’una trattoria è sole di mezzanotte
se Roma sta,
sospesa tra inverno tardo
e l’ultima canzone di Tenco.
Non mi bastava il rosso-corallo di Rothko
campito sulle banderuole segnavento
del sonno, dovevo
slanciarmi in un volo
e il retrobottega fabbricare un grido solo.

 

 

LA SARTA (per Assunta Finiguerra)

Questo mestiere l’alimento e lo pago
col fuoco. Veloce, veloce, ve
loce
l’ago a infilare e sfilare l’ago
una camicia d’avvelenante amore
dentro e fuori dentro e
fuori
mentre scende la luna di porpora
nella gola del paese
e superbo mio servaggio alla ribellione:
una biro dall’orlo smangiucchiato
reclusoria mestierante la stanza di sarta
dove bevo vino con il sale
foglio di quaderno sgualciucchiato
questo vaneggiare d’amore lo dico e lo pago
con mestiere che si porta via gli occhi
non dalle viscere l’arte mia
ma
dal cervello del disamore:
una camicia per il padre
una per l’amante
bevo l’inchiostro del caffé
tendo il refe a conquistarmi il sole.

 

 

Breve saggio sul saggio

 

 

Avrei potuto titolare “breve saggio sulla felicità di scrivere saggi”, ma il titolo apparentemente tautologico e quasi claustrofobico mi serve per costruire un testo che, invece, suggerisca quanto necessario sia comporre un saggio che non abbia una tesi già precostituita da sostenere, ma che, appunto, saggi varie direzioni, riuscendo a diventare felice proprio nel momento (o nei momenti) in cui la scrittura è atto di scoperta, incanalandosi verso orizzonti poco prima inaspettati e insospettati.
C’è disperato bisogno d’una mobilità e d’una libertà del pensiero, d’una migrazione continua del pensiero da un territorio all’altro e, migrando, il saggio si sottrae al dominio del pensiero unico, attiva dentro di sé gli anticorpi naturali contro l’accademismo, il conformismo, il dogmatismo.
Si possono scrivere saggi solo camminando e viaggiando, solo mutando continuamente orizzonte, cercando connessioni anche lontane, mai fidandosi delle proprie certezze le quali, spesso, sono invece dei pre-giudizi che, saggiati, debbono poi perdere valore per condurre la mente a quella libertà (talvolta anche spregiudicatezza) di visione necessitata da un camminare saggistico non fine a sé stesso, ma conoscitivo.
Necessitata libertà: ecco, in quest’apparente ossimoro riconosco la nobiltà e l’efficacia del pensiero umano che esige una libertà non già precostituita e data, da conquistare e riaffermare, quindi, e, in ogni caso, necessitata dalla stessa natura dell’atto del saggiare il quale ultimo sarebbe, altrimenti, fatto puramente formale e nato già morto.
Il saggio quale lo vado esercitando su queste pagine è scrittura che parte dal desiderio di sviluppare un tema e che, quindi, va distendendosi sul foglio parola dopo parola, anche godendo del piacere di articolare le proposizioni, di scegliere i vocaboli, di architettare la sintassi secondo pesi e contrappesi, per variazioni e rimandi.
Quando do avvio a un “breve saggio” non so mai dove andrò a concludere, ma mi affido a un camminare sui sentieri della scrittura, ho fede nella forza associativa, analogica, inventiva delle parole, seguo concatenazioni tra luoghi, testi, ricordi, musiche…
La felicità del comporre un saggio risiede sia nella sua riuscita sia, semplicemente, nella gioia ch’esso può dare al suo estensore e al suo lettore anche per quello svincolarsi da generi specifici e nella sua migranza, piegandosi a molteplici metamorfosi. Il saggio nega, per sua stessa natura, ogni forma di monoteismo e di autoritarismo, è consustanzialmente eretico, discolo, incline alla sensualità e al paganesimo, al dubbio (ma non sterile né nichilista), all’ironia.
Il saggio come qui l’intendo è l’atto d’amore di Don Giovanni per il mondo (non conquista – lasciamo il catalogo a Leporello, il servo che banalizza e non comprende – ma amore e curiosità), il suo musicale corteggiare il mondo prima che la morte, l’ineludibile, chiuda il sipario, spenga le luci.

 

 

La passeggiata di Kafka

 

 

Questo poemetto è dedicato al carissimo Yves Bergeret in partenza per Praga.

 

L’orologiaio di Staré Město ha
un occhio di vetro e una bottega dove,
nell’attesa di clienti, costruisce
automi meccanici. E pensa che
la vista molto più acuta gli s’inabissi
traverso l’occhio mancante
fino a raggiungere i sotterranei
immaginari di Praga.

Il suo amico più caro, compagno
di banco fin dalle elementari,
disegna a inchiostro di china le centinaia
di sequenze per i cartoni animati della tivù di Stato:
passa a trovarlo ogni pomeriggio
scendendo dal tram che gli apparecchia
il dopolavoro.

“Credo non sia rimasto a Praga
nessun Kafka dopo la deportazione
e la fine della guerra” dice
l’orologiaio al Poeta che gliel’ha chiesto
e getta un’occhiata all’amico –
giocavano con una Kafka nel cortile
della scuola, ma nessuno dei due
lo dice: forse
certi ricordi vanno protetti col pudore
del silenzio, con l’apparente dimenticanza
della ferita ancora aperta, che sanguina.

Ma non si è mai stranieri a Praga
se l’occhio della mente cerca, cerca
ed è capace di vedere:

l’orologiaio e il disegnatore decidono che
l’ospite merita una risposta:

l’amico dei disegni animati
attraversa rapido la propria mente
si ricorda del fotografo senza un braccio.

L’orologiaio vede l’amico estrarre
matite e fogli dalla borsa di cuoio,
gli sgombera il bancone, accende
la lampada a incandescenza:

“Anni fa incominciai a disegnare
un cartone per mio diletto: ecco,
così, in bianch’e nero: Mála Strana,
il Týn, il Castello, ecco il luna park
in periferia, il tram, i bimbi nel
cortile
della scuola –
vede, sfondi per le passeggiate di un
fotografo che ha un solo braccio,
perché il disegno animato racconta delle sue
giornate a fotografare Praga”.

Ha una manica penzoloni
infilata nella tasca dell’impermeabile,
il treppiede porta in cima una camera
Kodak, enorme. L’ometto
dalla barba trascurata si muove
veloce e l’ospite segue
i movimenti rapidi della mano che
disegna, ridendo dice “conosco
quest’uomo, lei disegna una storia
vera” –

vero è, a Praga, l’arrivo dell’
agrimensore che chiede accesso al Castello,

vero è un bambino anziano che
disegna film animati per la tivù di Stato,

vero è un poeta che abita il mondo
segregato sull’isola di Kampa,

vere le ombre nascoste nei muri
a carpire conversazioni e spiare sguardi,

vero il sottotetto della Sinagoga Vecchionuova
dove Rabbi Löw nascose i Golem:

e l’orologiaio costruisce congegni
perfetti per i suoi automi
e l’amico disegna omini
geniali per strisce animate dove il mondo
ha alberi pensanti e pietre volanti

Wunderkammer da percorrere
in lungo e in largo è Praga:
città labirintica di scantinati
e gallerie

androni scale
sottotetti

dal basso verso l’alto
dall’alto verso il basso

la notte nel giorno.

“Lei ha capito, signore” dice
l’uomo bambino dei disegni animati:
“sapesse quanta realtà entra
nel mondo fantastico
dei disegni animati…”

ed ecco il geniale fotografo monco
diventare un ometto in soprabito
e bombetta scuri, disegno dopo
disegno, strada dopo
strada, Praga dopo
Praga.

“Perché, gentile signore” dice
l’orologiaio “corridoi lunghi secoli
conducono da una Praga
all’altra”

: prende dal retrobottega
un automa, lo siede sull’alto sgabello,
gli accosta al foglio bianco la mano
che regge la penna,
gli gira la chiave dietro la schiena
e la statua mobile comincia a disegnare:

è Kafka lo scrittore in groppa
all’enorme insetto Gregor,
le volte vertiginose della Cattedrale di san Vito,
le stelle buie nella camera della scrittura:

accensioni delle emulsioni al platino
sulle pellicole nella camera oscura:

guardare Praga dall’alto, lo scrittore insonne
in groppa all’insetto dalle ali di parole,
la rapida sosta e le zampe avvinghiate
a una delle torri della Signora del Týn,
lo slancio per ripartire, la vertigine nel
guardare la Vltava e poi il Braccio del Diavolo:

ora anche il Poeta ha preso dalla sua borsa
pennelli e tubetti di colore, scrive
e dipinge
e l’orologiaio e il disegnatore, ammirati,
guardano:

est-ce que vous me permettez de vous suivre,
monsieur Kafka?

Un cenno d’assenso e Kafkagregor
attraversa il Ponte di Carlo, sale verso
il Castello

il Poeta (ha una gamba che zoppica,
ma rapido e vivace è il pensiero,,
possiede forza creatrice capace di comprimere
il tempo – spalancare poemi)
scrive le parole dell’andare, quelle
del creare:

guardare Praga magica, viscere d’Europa,
è indicare le tappe dell’andare:

questa fu la casa di Holan, quest’altra
quella di Hrabal, questo è il caffè Viola,

(ancora il notturno Amleto ha figura e voce di Radovan Lukavský)

qui arsero sul rogo Jan Hus
e qui rastrellarono gli Ebrei per i campi
di sterminio:

ricordi Jan Palach e una primavera
che non fiorì mai più?

Oggi m’invitano un orologiaio vecchissimo
e il suo amico che disegna film d’animazione
per la tivù di Stato
a traversare il tempo
e il Poeta mio amico è con loro
mentre i turisti brucano il Ponte di Carlo
e la Viuzza d’Oro.

Ma giocavano con una Kafka nel cortile
della scuola,
l’orologiaio aprì bottega nella Città Vecchia
e pianse singhiozzando quando Hitler sfilò
nelle strade luttuose di Praga –
soffocata la città sopravvisse,
coraggiosa e vitale, fino al ’68 e oltre,
fino ai carriarmati e oltre.

“Ho visto Kafka prendere il tram notturno
ed entrare in un film a disegni animati”
dice l’anzianissimo bambino disegnatore
mentre l’orologiaio apre lo sportellino
nella schiena dell’automa e sostituisce
un disco di metallo: ecco, ora
la statua semovente disegna
Kafka che disegna sottili omini
d’inchiostro.

I tram di Kafka percorrono
in lungo e in largo
le esaltazioni desertificanti dell’ultraliberalismo
i neri tunnel del fascismo
l’orbita cieca dello stalinismo

(Propast stále padá dolů jícnem vzhůru
L’abisso non smette di precipitare mentre il fondo sale)

la storia è una colonia penale senza uscita,
sembra, mais nous ne nous laissons pas faire, mi
ripete spesso il Poeta
geniale camminatore e scalatore –

si cammina dentro la scrittura, sempre,
e nella scrittura l’orologiaio gentile offre
una tazza di caffè,
le matite del disegnatore rientrano nella borsa
di cuoio:

giocavano con una Kafka nel cortile
della scuola, le statue
di Karlův Most ticchettavano
il tempo,
il Poeta viaggiatore saliva su di un tram
da dove Praga è una sequenza mozartiana
di binari che, innestandosi l’uno all’altro,
diventano Dresda, diventano Vienna,
fino alla foce dell’Elba, fino alla foce
del Danubio.

 

NOTA: l’orologiaio e il disegnatore sono figure inventate; il verso in ceco è tratto da Mozartiana di V. Holan, la traduzione in italiano è di Sergio Corduas; le definizioni “Praga magica” e “viscere d’Europa” sono, naturalmente, di A. M. Ripellino; le foto in bianco e nero sono di Josef Sudek, “il fotografo monco” del testo; la foto a colori è un fermo immagine dal film “Hugo Cabret” di Martin Scorsese.

 

 

Breve saggio sul camminare

 

Giuseppe Ugonia, la Chiesa della Commenda a Faenza (litografia, 1940).

 

(L’idea di questo scritto deriva da uno splendido e vibrante intervento di Jonny Costantino pubblicato sul Primo amore: L’Austria di Bernhard specchio dell’Italia di oggi).

 

: ma, più che un saggio, scriverò un elogio del camminare, anzi un doppio elogio di un doppio modo di camminare: l’andare a piedi (ma, anche, integrando il camminare, quando necessario, con un tragitto in autobus o in treno, in automobile o in bicicletta) e lo scrivere (sempre rigorosamente a mano).
Tutte e quattro le estremità del corpo accompagnano la mente nel suo andare traverso i paesaggi del mondo e del pensiero – ma paesaggio (Landschaft) suggerisce l’idea di uno sfondo al camminare e allo scrivere, all’andare e al dispiegare la sintassi della lingua; sia invece da subito chiaro che il camminare e lo scrivere s’immergono nel paesaggio (naturale o urbano, non importa) per riconoscerne il respiro e a esso accordare il proprio. Camminare e scrivere non vogliono impossessarsi di nulla (possesso è violenza e tracotanza), desiderano invece attraversare e farsi permeare da quello che vedono e sentono.
Gratuità del camminare, gratuità dello scrivere: qui si riflette, infatti, sul camminare che non ha altro scopo se non sé stesso e il piacere che ne deriva, insieme con un senso insostituibile di libertà e di curiosità nei confronti di tutto ciò che è “fuori” del soffocante io. Allo stesso modo lo scrivere immerge la mente in paesaggi del pensiero (i quali spesso rimandano ai paesaggi dentro i quali abita o che attraversa il corpo) e in tal caso la capacità architettonica e immaginativa della mente, che si manifesta tramite la lingua (e che dalla lingua è anche determinata, o almeno condizionata) si dispiega in atto di creazione.
Camminare implica attenzione e scoperta, insieme con un atto eretico e libertario: il sottrarsi al condizionamento produttivistico e consumistico – ché camminare è riconquistarsi la libertà all’interno di un sistema opprimente e oppressivo – perché camminare al solo fine di camminare si chiama fuori dalla logica ferrea del produrre e del consumare: il tempo del camminare è sottratto al tempo della produzione e del consumo, è rallentamento e dilatazione dell’attenzione, nulla ha esso a che fare con la capitalizzazione monetaria o con il consumo di prodotti, ma, al contrario, camminare è, scientemente e programmaticamente, tempo posto fuori e contro la logica economicistica (- e camminare senza telefono cellulare né computer).
È bene però distinguere il camminare quale libera scelta e il camminare quale moda (penso al Camino de Santiago o alla Via Francigena, per esempio, che hanno cominciato a coinvolgere molte persone – non tutte! – in quanto fenomeni di tendenza, quindi anch’essi generati e condizionati da meccanismi produttivistici): penso invece al camminare di Robert Walser o di Thomas Bernhard, al camminare comunitario di Antonio Moresco o al viaggio a piedi sino a Bordeaux di Friedrich Hölderlin (traversa la Francia rivoluzionaria nel cuore dell’inverno il poeta, sceglie di viaggiare a piedi, ha bisogno di quell’arduo, difficile itinerario…)
Assai problematico risulta, invece, il rapporto tra scrittura e produzione: scrivere, dicevo, è un tipo di camminare traverso paesaggi del pensiero e scrivere conduce, spesso, alla produzione di un libro, dunque a un prodotto per il mercato sottoposto alle regole dell’economia – è qui che si attua la divaricazione tra la gratuità del camminare e l’eventuale funzione mercantile della scrittura. È ovvio che una soluzione radicale possa essere una scrittura del tutto privata o, se pur resa pubblica, senza alcuno scopo di lucro; in tale direzione si apre la riflessione sulla circolazione di una scrittura del genere e sulle strategie attuabili (sempre che tutto questo sia possibile: io stesso, mettendo gratuitamente a disposizione dei lettori questo breve saggio in realtà favorisco e alimento i profitti della piattaforma wordpress e degli indotti a essa collegati) per sottrarre la scrittura al mercato.
Scrivere, camminare: avanzare passo dopo passo, ma anche tornare sui propri passi, pedetemptim andare, ma anche tornare indietro per cancellare e per modificare, per guardare di nuovo trovando magari qualcosa ch’è cambiato, o percorrendo un altro sentiero, attraversando un’altra piazza, imboccando un vicolo prima non visto.
Camminare e un taccuino tra le mani, alleati sostanziali la memoria, l’appunto, il disegno, la fotografia. Camminare è anche arricchire la memoria personale, tenerla desta, ricordare per raccontare; chi cammina è assuefatto al cambiamento, al variare degli orizzonti, dei punti di vista, recupera l’ancestrale nomadismo dell’essere umano. E la macchina fotografica usata come il taccuino: pochi scatti, concedendo tempo e lentezza all’atto di fotografare. E la mente come un magnetofono, per registrare suoni e dialoghi.
Che cosa, ancora, per concludere? Forse Arno Schmidt che cammina nella Brughiera di Luneburgo e il binocolo al collo, uno sguardo acuminatissimo dentro la lingua tedesca, quella necessità di dire l’offesa in una lingua violata e violentata.
Forse Dino Campana che cammina per l’Appennino tosco-emiliano con falcate nervosissime e affamate, esattamente come la sua scrittura.
Forse Antonio Machado e la sua Castiglia interiore, Juan Goytisolo e il labirinto urbano dell’antica Marrakech nella quale riconoscere le radici della propria cultura.
Forse Matsuo Basho lungo le strade del Giappone, Gastone Novelli lungo quelle di Grecia.
Forse Joseph Cornell in giro per New York a cercare materiali per le sue scatole come lo racconta Charles Simic.
Forse Yves Bergeret per il quale camminare e scrivere significa arrampicarsi in alta montagna (moto ascensionale del pensiero) o sulla falesia di Koyo insieme con quei posatori di segni che posseggono la sapienza dell’origine della civiltà umana.
Forse Fernando Pessoa il vagabondo di Lisbona e Walter Benjamin Wanderer prima berlinese, poi parigino.
E ancora: Sebald camminatore nel paesaggio inglese e corso, la scrittura mobilissima figliata da una mente mobilissima.