Breve saggio su Parigi
Eppure, nello spostarsi altrove dei centri culturali mondiali, forse addirittura nel loro smaterializzarsi per transitare in altre forme, Parigi rimane, almeno per me, non solo la “Capitale del XIX Secolo” secondo la felice definizione di Walter Benjamin, ma anche del tempo che mi è stato dato in sorte di vivere: questi decenni a cavallo tra XX e XXI Secolo.
La mia formazione civile, politica e culturale ha avuto luogo a partire dagli anni Settanta del XX Secolo e in una regione appartata nel già appartato Meridione d’Italia: la Terra d’Otranto.
So bene, allora, che il mio provincialismo mi condiziona nel continuare a eleggere Parigi a mia stella polare e preferendola di gran lunga a Londra e a New York: ma l’identità di una persona e di una scrittura si formano e cambiano secondo direttrici che improntano di sé quell’identità e quella scrittura fin dall’inizio e che rimangono ineludibili, pur mutando, talvolta inabissandosi, talaltra riemergendo.
Non dimenticherò mai la prima volta in cui percorsi per intero Rue des Écoles, passando davanti all’ingresso del Collège de France per affacciarmi poi in Place de la Sorbonne: il corpo accompagna la mente, a Parigi si possono percorre per ore boulevards e rues senz’avvertire stanchezza, in una sorta di trance durante la quale le gambe si muovono, gli occhi guardano avidi e la mente ricorda.
La mente ha accumulato per anni ricordi che consistono in nomi, in testi, in luoghi legati a quei testi e a quei nomi: il primo viaggio a Parigi è, allora, punto d’arrivo di un prolungato desiderio.
Chi vive in provincia cercando (talvolta con disperazione) legami vivi con i luoghi dove la ricerca artistica accade nei suoi risultati più audaci e avanzati, possiede questo movimento pendolare, ché la provincia, in gioventù vituperata e finanche odiata, chiarisce sé stessa, negli anni della maturità personale e intellettuale, quale vivace e inaspettato paradosso, fecondo: l’appartata solitudine, la distanza fisica dai centri culturali più attivi, l’immersione in un tempo che appare immobile e, pure, in lentissimo movimento, tutto questo consente un’esperienza non appiattita su di un unico, ossessionante presente, né sospesa dentro un’incessante sonnolenza.
È l’andirivieni tra la propria minuscola pàtria/màtria, finalmente accettata e compresa, e la capitale d’elezione, quel luogo capace di essere casa per la propria casa: ecco, così, sovvenire il verso di Paul Celan “dein Haus in Paris zur Opferstatt deiner Hände (la tua casa a Parigi luogo del sacrificio delle tue mani)” (dalla raccolta del 1952 Mohn und Gedächtnis – Papavero e memoria), ché, seppure in modo non altrettanto tragicamente radicale, anche noi, a partire dal momento in cui riconosciamo la scrittura come un destino, ci esiliamo e veniamo esiliati dalla nostra Bucovina interiore e, accogliendola in un dialogo costante con essa, andiamo ad abitare nella lingua straniera, ma senza ignorare che anche la lingua materna si fa ogni attimo straniera dal momento che in ogni attimo guadagniamo consapevolezza delle sue sprezzature e sinuosità e sbalordenti ricchezze: essa diventa lingua straniera nel momento in cui iniziamo a guardarla dalla distanza, ed essa si fa, in tal modo, ancora più espressiva e irrinunciabile – e Parigi offre, a un parlante italiano, la privilegiata vicinanza-distanza che sola può derivare da due lingue figliate dallo stesso ceppo.
Parigi accoglie secondo una sua vocazione originaria: città oscura e fetente, arroccata nelle due isole in mezzo alla Senna, come magistralmente la descrive Abraham Ben Yehoshua nel romanzo Viaggio alla fine del millennio, Parigi è e resta crocevia, attraente rovello, la medesima città del poeta-fuorilegge Villon e del poeta-flâneur Baudelaire, impronta di sé buona parte della cultura europea, per cui la conseguenza è che Parigi sconta tutte le contraddizioni di un’Europa ch’è stata colonialista e libertaria, rivoluzionaria e imperialista: dal centro fino all’estrema banlieue e viceversa è dato incontrarvi persone che portano dentro di sé le identità più diverse e anche contrastanti, la sofferenza di lunghi e irreversibili esili e la volontà di ritrovare sé stessi dentro una comunità così vasta e ribollente. Parigi è, ancora oggi, metropoli di dimensioni planetarie dentro la quale si consumano contraddizioni, conflitti, sofferenze e disagi che, dentro il nostro presente, anticipano un futuro intorno al quale riflettere.
Peter Handke elegge Parigi a sua residenza, come se la cultura di lingua tedesca possedesse, nei propri legami parigini, una linea di continuità da Heinrich Heine, attraverso Rilke, fino ai nostri anni; Leonardo Sciascia passeggia alle Tuileries, l’inseparabile Benson tra le dita, immaginando la Parigi del Secolo dei Lumi; nella sala di lettura della Bibliothèque Nationale Walter Benjamin prende appunti per il suo Passagenwerk; le strade preferite da Cortázar riverberano l’immaginazione inesauribile dello scrittore; Roland Barthes continua ad attraversare la strada per recarsi al Collège de France fino a quel maledetto giorno…