Lutto
In memoria dell’amico e poeta Christian Tito Via Lepsius sospende le proprie pubblicazioni fino al primo luglio.
In memoria dell’amico e poeta Christian Tito Via Lepsius sospende le proprie pubblicazioni fino al primo luglio.
Conosci bene e ti ridici (da decenni lo fai, inesausta), o mia scrittura, le parole di Fortini:
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Traducendo Brecht, da Una volta per sempre, Einaudi, 1978.
E queste parole ti tornano oggi, mentre l’Italia e l’Europa continuano a smarrire sé stesse, chiusi i porti della mente e del cuore.
Soffri, mia scrittura, tu soffri in questo clima violento e asfissiante, stai affondando in una tristezza senza riscatto. E non ti rassegni. Riesci a pensarti soltanto in atto di lotta e di ribellione, un “no” urlato in faccia ai potenti di turno, ai razzisti feroci e certi delle proprie ragioni, alle anime belle che continuano, delicate, a poetare.
E infatti non scriverai più dei loro libri belli e delicati (e, in verità, da molto tempo non lo fai più), mia scrittura, li lascerai a crogiolarsi nella loro consolante cecità.
È vero: la poesia non muta nulla, ma, mia scrittura, visto che hai scelto proprio la poesia, continuerai caparbia a discendere nell’inferno contemporaneo, non tradirai e non dimenticherai, guarderai, gli occhi bene aperti, la mente irata, la certezza della lotta e del dissenso.
Innanzi a te stessa, mia scrittura, hai preciso il dovere di rispondere del tuo andare alla deriva, fatina dei buoni sentimenti, fine cultrice di musiche squisite.
Sii tribunale di te stessa, mia scrittura e, se tradirai, condànnati senza remissione, senza attenuanti, senza condiscendenza.
Sulla Dimora del Tempo sospeso è disponibile il secondo volume della traduzione del Tratto che nomina di Yves Bergeret; sinceramente non so se una tale opera (intendo il capolavoro di Yves, ma anche la traduzione in italiano che ha avuto in Francesco Marotta il suo formidabile motore e colui che, con caparbietà e passione inarginabile, ha tradotto la parte di gran lunga più ampia) troverà un interesse non limitato a pochi lettori – lo dico non con inopportuno moralismo né con amarezza, ma, credo, con lucido realismo: un’opera così ampia, articolata, complessa, che partecipa del poema, della ricerca antropologica, delle arti figurative, del diario, che è davvero capace di dischiuderci un universo di straordinaria raffinatezza e sapienza (quello del villaggio di Koyo, delle sue donne, dei suoi poseurs de signes, dei suoi bambini, dei suoi anziani, dei geni e dei demoni che popolano la falesia, degli animali e delle rocce e delle piante che ne costituiscono parte integrante, della sua oralità e della sua ricchezza di pensiero astratto e narrativo e figurativo) un’opera così ampia, dicevo, si situa come fieramente altra rispetto alla superficialità e alla disattenzione imperanti; un’opera di tal fatta ci pone innanzi a un universo, appunto, altro rispetto a quello poveramente eurocentrico e razzista e soffocante che stiamo meticolosamente edificando: Il tratto che nomina pretende che ripensiamo i parametri in base ai quali ragioniamo e concepiamo la nostra identità, ci obbliga a vedere una parte delle nostre radici (che sono anche africane e animiste) e che in questo periodo tentiamo di negare, Le trait qui nomme ci dice, tra l’altro, che i migranti che condanniamo all’annegamento o che respingiamo verso porti più generosi portano dentro di sé un universo psicologico, culturale, religioso, relazionale, artistico di valore inestimabile, mentre tendiamo a vedere in loro soltanto una massa indistinta (di fattezze e natura animali) che tenterebbe di dare l’assalto al nostro preteso, amato benessere. E mi si lasci invece dire che vedo una miseria montante nel mio Paese e in Europa, perché non c’è benessere se si nega il valore assoluto della vita umana e la necessità fisiologica della cultura.
Yves mi ripete instancabile la sua fiducia nella parola, mi scrive ogni giorno che dobbiamo andare avanti, scrivere, denunciare, non cedere; penso che Francesco Marotta, la Dimora del Tempo sospeso e il manipolo di traduttori che Francesco ha raccolto attorno a sé, ostinati, lo vadano facendo.
È colma la nostra giornata d’oggetti e, alla lettera, non vediamo molti di essi, anche mentre li stiamo usando. Li usiamo, appunto, senza prestare loro attenzione, se non nel caso si rompano o manchino.
La bottiglia di vetro: al di là dell’enorme produzione industriale di questo contenitore, si dovrebbe talvolta riflettere sulla sua umile bellezza che, oltre a contenere l’acqua o il vino (o altra bevanda) si mostra, modesta e fedele, spesso sotto slanciata forma e capace di rifrangere la luce secondo gamme variabili, per cui sono la bottiglia e il bicchiere a convogliare la luce (elettrica o naturale) dell’ambiente, stabilendo strette relazioni tra vetro, liquido contenuto, luminosità circostante.
In verità non so se la chiave sia altrettanto inapparente, visto ch’essa serve per aprire o chiudere una porta o un cassetto costringendo il suo possessore ad accertarsi di averla con sé; essa è immagine privilegiata dell’aprire per accedere o del chiudere dopo essere usciti – in questo breve saggio desidero scrivere di oggetti che, proprio nell’atto di scriverne, sottraggo al loro status di cose fabbricate per un fine pratico, enfatizzandone la valenza simbolica e intellettuale: e allora associo qui la chiave alla soglia, ché solo quella chiave dà accesso oltre quella soglia se la porta è chiusa – come la scrittura che, in avvio, deve trovare la modulazione giusta per entrare nella pagina e attraversarla.
L’interruttore elettrico: in molte case ha funzione anche ornamentale, è stato scelto con cura quale parte dell’arredamento, spesso lo si pigia senza prestargli particolare attenzione – eppure partecipa anch’esso della funzione della chiave, permette l’entrata in una stanza ch’era buia o sancisce l’uscita da quella medesima stanza facendo appello proprio al buio. Spesso anonimi, addirittura brutti gl’interruttori nei luoghi pubblici, più attenti all’aspetto formale quelli delle abitazioni private, molto meno notati rispetto ad altri complementi delle pareti (quadri, poster, bacheche, eccetera), essi rimandano tuttavia la mia memoria agli interruttori della casa dei nonni: non riesco a non pensare con tenerezza e nostalgia al filo elettrico piatto e bianco ben visibile lungo la parete e il soffitto o a quegli interuttori con la placchetta di ceramica o di plastica fissati con quattro viti accanto alla porta, oppure a quegli altri dalla forma di piccole scatole ben in rilievo sul muro, spesso bianchi e umili; o, ancora, ripenso agl’interruttori di forma cilindrica per accendere e spegnere le lampade sul tavolino da notte: tutto questo rivelava, nell’antica casa, l’aggiungersi dell’impianto elettrico là dove l’illuminazione per decenni e per secoli era stata affidata a lampade a combustibile.
E le lampadine a incandescenza avvitate al portalampade in forma di cilindro bianco, in ceramica, spesso nudo nella bottega del falegname o del calzolaio, oppure schermato da un disco smaltato o da stoffa ricamata.
Il regno degli oggetti inapparenti richiede attenzione, giustamente pretende che la sfera intellettuale di ognuno abbandoni la superficiale attrazione per il vistoso e il macroscopico o la propria, cronica disattenzione: questo breve saggio sugli oggetti inapparenti vuol essere, a sua volta, uno spazio di silenzio e di riflessione, un atto di cura per quello che, pur inapparente, costruisce la quotidianità individuale e collettiva.
E che la torre di Montaigne sia riferimento costante: luogo di silenzio e di concentrazione, essa non ha significato affatto clausura e separazione dal mondo, bensì dialogo ininterrotto, traverso il pensiero, con il mondo: essayer, saggiare e tentare, esplorare, prestare cura e attenzione (ad-tendere).
Le fotografie di Wols: posate, bottiglie, pasti consumati a metà, l’inapparenza che viene a stagliarsi nell’epos d’oggetti chiari e distinti davanti allo sguardo della mente.
Le fotografie di Josef Sudek: interni dove la vita privata, normalmente celata agli occhi altrui, splende, invece, proprio nell’uso e, anche, nella contemplazione degli oggetti inapparenti – è l’accorgersi di essi e il soffermarsi a guardarli che li sottrae al loro banale, prosaico ruolo d’oggetti d’uso.