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Un’accogliente solitudine, una distanza radicale dai rumori, dalle ciarle, dalle oscene sceneggiate.
Un’accogliente solitudine, una distanza radicale dai rumori, dalle ciarle, dalle oscene sceneggiate.
In anni non gentili, nei quali la cura per qualcuno e per qualcosa, la pietas, l’attenzione verso chi o quello che è quasi invisibile sembrano scomparire e, quando raramente si danno a vedere, vengono dileggiate, un libro come La gentilezza dell’acero (Passigli Editori, Bagno a Ripoli – Firenze, 2018) di Alessandro Quattrone già con il suo titolo pone la questione della “gentilezza” che, data la sua etimologia, si potrebbe tradurre anche con “nobiltà” ed è una questione che desidero inquadrare nell’ambito della poesia stessa, il cui ambiente non raramente è dominato da invidie e risentimenti, ma, soprattutto, provando a chiarire come il tema venga affrontato in questo libro, come l’autore sia riuscito a scrivere della gentilezza in forma di poesia.
Non si può che ammirare
la gentilezza dell’acero,
dell’albero che medita sospeso
al cielo adorando i fili d’erba,
e quando l’ora è più spietata
abbellisce della propria morte
il mondo, sapendo che il silenzio
è una virtù finale, che però
sopravvive nel mezzo del clamore (pag. 13).
L’intonazione sia stilistica che tematica dell’intiero libro è già tutta nel primo testo, chiaro, luminoso, perfettamente strutturato e conchiuso: l’acero è emblema di meditazione, di generosità ed è immagine visibile del silenzio, esso propone tre modi concomitanti di stare dentro il mondo – il pensiero, la bellezza donata per pura generosità dimenticando sé stessi, il silenzio capace di sopravvivere al volgare e violento clamore.
Lo stesso dicasi della nuvola “troppo astratta / dal mondo, dalla vita, dal linguaggio / delle cose che aspirano a sussistere” (pag. 14), delle margherite che nulla hanno a che vedere con il “rumorio della città incolore” (pag. 16), della magnolia (da omaggiare prima di entrare in casa) e delle “chiassose / pratoline” di pagina 17, delle falene che, a pagina 18, “ruotano nell’aria / innocue, innocenti, inquiete, / non fa rumore il loro desiderio / di un punto preciso, di una stella / domestica“, del gatto protagonista della composizione a pagina 19, della “vecchia donna abbandonata pure / dal destino” che, a pagina 20, coglie il gelsomino rigoglioso e “mormora qualcosa tra colpa e desiderio” e che, quando il poeta le passa accanto osservandola di sottecchi, “parla più forte sorridendo: / almeno a casa mi accoglierà un profumo / al rientro dalle mie passeggiate“.
Si tratta di decine di PRESENZE, come amo chiamarle, che materiano questo libro il quale non appartiene, però, a un’eventuale “poetica del quotidiano” o “delle piccole cose”, ma che si configura come un percorso, come un itinerario, affettuoso e umanissimo, abitato da esseri, oggetti e persone capaci di dare forma e senso all’esistere.
Sulla bancarella i libri usati
non chiedono che uno sguardo
anche distratto, rapido, pietoso,
loro che hanno vissuto intensamente
tra le mani di chi li ha posseduti,
loro che sanno bene cosa vuol dire
essere amati infinitamente
solo per poche ore (pag. 22).
Si tratta, infatti, di una forma laica di pietas e di una gentilezza nei confronti del mondo che, silenziosa, sembra preservarlo e salvarlo, accorgersi di esso mentre si fa sguardo:
Entrare in un museo non per guardare
ma per essere guardati dai ritratti
di personaggi illustri consapevoli
della loro evidente dignità.
Entrare per sottrarsi ai volti anonimi
che assorti per la strada non ti vedono,
e apprendere che tuttavia c’è un modo
per conservare intatto anche uno sguardo (pag.27).
E poi una lucertola, un corvo, una magnolia in inverno, un’arancia, un’ape, una formica, “i pescherecci gloriosi di ruggine” (pag. 45), un faggio si materializzano anch’essi nelle pagine del libro, sono essi nello stesso tempo parole della poesia e, ripeto, presenze degli oggetti e degli esseri tramite i loro nomi, presenze a sé stessi e a chi legge:
Il bicchiere d’acqua riposa sul comodino.
Non è per chi ha sete, né per chi fantastica.
Gode di essere un oggetto: fragile
e trasparente senza alcun timore (pag. 48): uno dei punti di forza dell’opera è, infatti, questa capacità di usare i sostantivi per evocare la presenza dell’oggetto (o della pianta o dell’animale e via enumerando), riuscendo ad annullare l’insidia contenuta nel vocabolo in quanto puro segno grafico o pura emissione di voce, insidia che consiste nella distanza forse incolmabile tra segno denotativo/connotativo e oggetto – La gentilezza dell’acero sembra, invece, restituire alla parola (soprattutto, ripeto, al sostantivo) la sua possibilità di convocare con immediata concretezza il luogo, l’oggetto, l’essere vivente che di volta in volta fondano e danno senso al testo.
E il paesaggio poetico di questo libro si sostanzia pure di memoria, di tempo, di percezioni, di ritmi del pensiero:
Evochiamoli i morti, i loro passi:
che si affaccino flebili, increduli,
lenti sulla soglia della memoria.
Accontentiamoli qualche volta.
Ci rassomigliano con i loro occhi ardenti:
chiedono solo di poter guardare
ancora, di fermarsi, di essere
presenti come noi – per un momento (pag. 63).
Ecco, allora, che lo sguardo si apre sulla stessa condizione umana, sul suo intimo paradosso, sulla sua specialissima identità:
Siamo stati felici, una volta,
quando la felicità ci sfuggiva
e noi la inseguivamo, siamo stati
cacciatori di felicità, ma la preda
aveva tane nascoste dappertutto,
e spariva ad un tratto
e noi restavamo trafelati come cani
a guardarci attorno
ed eravamo felici perché ancora
non l’avevamo catturata
e chiedendoci il motivo
della nostra insufficienza
accusavamo il mondo di essere un deserto
nel quale vagavamo spaesati
non sapendo riconoscere le impronte
della felicità che inseguivamo
felici di inseguire e non raggiungere,
felici di non essere felici (pag. 71).
Infatti, nell’articolarsi nelle tre sezioni Osservazioni e sguardi, L’amuleto smarrito e Annunci o auguri, l’opera ben dice, di sé stessa, la sua natura di sguardo rivolto all’esistere proprio mentre se ne percepisce la fragilità e la dialettica costante con la morte e l’oblio (ma non c’è tragicità, in tutto questo: forse, talvolta, una lieve malinconia):
La borsa è piena – di che cosa, poi? –
piena di oggetti che, se mai servissero,
sarebbero amuleti pronti all’uso
senza bisogno di magia o follia,
oggetti puri, oggetti che potrebbero
tenere a distanza la paura
come si fa con quella forma vaga
che appare e indugia nella stanza quando
l’insonnia è una carezza che fa male (pag. 83).
Questo è un libro in movimento, la voce poetante si muove costantemente per luoghi (strade, giardini, piazze, case), tra presenze (piante, animali, persone):
Che sorpresa, che meravigliosa
gioia elementare delle vie,
dei vicoli, delle piazzette,
delle torri, della cinta muraria,
che pausa luminosa
nel vociare dei girovaghi felici
di non girovagare in certe ore (pag. 101).
E, sempre, ancora, la pronunzia poetica (piana e sommessa, sempre, appunto, “gentile”) e il pensiero tornano a riflettere sull’esistere umano, sulle sue aporie, sui suoi paradossi, sulle sue contraddizioni:
Vorresti ma non devi, ma non puoi,
e forse in fondo neanche vuoi davvero:
il pioppo oscilla al vento
ma rimane dove è sempre stato,
fedele a ciò che non ha mai deciso,
puntuale anche se non è mai atteso (pag. 107).
Sembra allora affiorare alla mente la parola saggezza, fuori moda se non dileggiata, ma appropriata, direi, in un libro come questo, volutamente estraneo a mode e a vezzi contemporanei, lontanissimo dal vanesio chiacchiericcio in poetichese (e andiamo a leggere così i due testi conclusivi, cerchiamo di serbarli, con tutti gli altri, nella memoria, portiamoli con noi):
Che cosa ci si può aspettare
da un albero, se non lo slancio
immobile, il silenzio dignitoso,
con che cosa potrebbe interessarci
se non con le sue radici nascoste
e il suo restare sempre lì dov’è? (pag. 120)
Se l’acero ti ferma
non è per disturbarti.
Se ti offre la sua amicizia
non è per solitudine.
Se ti chiede il nome
non è per dimenticarlo (pag. 121).