Attraversando “La luce immutabile” di Flavio Ferraro

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

Eduardo Chillida: Homenaje a San Juan de la Cruz.

 

 

Nella Luce immutabile di Flavio Ferraro (Roma, La Camera verde, 2019) si manifesta la rigorosa volontà dell’autore di far coincidere la propria ricerca interiore (che ha anche valenze di carattere religioso e filosofico) con la scrittura poetica, di esprimere l’unità sostanziale, ma anche formale, tra esperienza esistenziale, psichica e intellettuale e il suo volerne dire in versi; la forma-poesia si offriva immediata e, oserei dire, naturale a chi sentiva le proprie esperienze e, soprattutto, la propria ricerca, spingere e urgere in forma di canto – ovviamente il rischio della banalizzazione o di un’espressione al mero servizio del “contenuto” restava altissimo, ma ho l’impressione che il medesimo, annoso esercizio delle pratiche di concentrazione e di meditazione e di silenzio siano state messe in atto durante la scrittura e nelle fasi di revisione dei testi: ché la scelta del verso e del testo breve, della chiarezza del discorso, della pacatezza del tono, il montaggio di ogni singolo testo in direzione di un risultato che unisse slancio interiore ed espressione verbale, riflessione e ritmo, tutto questo mette il lettore innanzi a un libro meditato ed elegante, capace di interrogare chi legge, di costringere a varcare la soglia che potrebbe sussistere tra godimento estetico e pensiero.
Scrive Ferraro nel primo testo dell’opera:

Sedimenti, tracce
incandescenti: guarda
mentre scorrono,
ripercorri le orme,
vai a ritroso.

Tenebra tenebra
-vertigine di luce-
e quanto inconsolabile (pag. 7).

Come si nota l’enjambement e la scelta lessicale, la disposizione del singolo vocabolo dentro il verso, il ritmo del discorso, pur offrendo il risultato di un testo chiaro e ben definito, evidenziano la bollente magmaticità del processo interiore, preludono immediatamente a un’esperienza che, radicata nel Vedānta e nel Sufismo, ma, mi sembra, anche nello studio dei mistici spagnoli del XVI Secolo, mette in discussione l’esperienza spirituale occidentale, fa ricorso a quelle che per la ragione illuministica sono aporie o contraddizioni e, proposta interessante dal punto di vista letterario, dà espressione a tali concetti-immagini (la tenebra che è anche vertigine di luce, l’inconsolabilità conseguente alla separazione dalla luce e dall’origine, la necessità di un percorso a ritroso) perseguendo una forma chiara e diretta (da qui una delle possibili interpretazioni del titolo del libro “la luce immutabile”, visto che l’esperienza di ricerca interiore ed esistenziale vuole esprimersi tramite la scrittura in versi e una delle ambizioni è che la luce del dire riesca a resistere alle insidie e agli scogli, ma anche alle secche, dell’indicibile).
Si profila, allora, l’immagine della biblioteca, del luogo concreto, ma anche ideale e mentale, in cui si custodisce il risultato in forma di scrittura della ricerca:

E lentamente, in biblioteche
incustodite, a raccogliere
frantumi scorie calchi d’ombra

(le cuspidi forse,
o il precipizio di ogni storia)

inezie in ogni caso,
se basta un acaro
a smentire (pag. 10), ma, come si vede, l’insidia dell’insignificante, dell’inezia, della rovina è costantemente in agguato. Ed è precisamente in questa congiuntura che interviene lo scavo interiore e l’approdo alla certezza della propria indegnità e mancanza:

Lunari, più nessuno vi ascolta,
a ben altre fole intento il volgo:
né solchi né travasi,
nessun merlo da onorare.

Voi rischiaratori, non sono
gli Dei ad oscurarsi,
ma i vostri occhi indegni
della Luce (pag. 12).

Tra le indegnità e le mancanze di cui si macchia l’essere umano ci sono i “si parla per non dire, / si guarda per non vedere” (pag. 13), ma si deve sapere che “in fondo il nostro tempo / – l’arco intero dell’umano – / non è che un minimo / episodio, uno strato / dell’immensa teofania” (pag. 15), un “dimenarsi tra correnti oscure” (pag. 16), “non è che un gioco / di carta, una piccola feluca / in un rigagnolo” (pag. 18) – e, nell’acceso dibattito che in queste pagine oppone un “tu” e un “io” (non escludendo il “noi”), nel profilarsi dell’esperienza artistica ed esistenziale di Emily Dickinson che “in una goccia di rugiada / spiava l’Infinito” (pag. 19) quale paradigmatica, Flavio Ferraro scrive di una drammaticità esistenziale assetata di verità e assediata dal paradosso e dalla contraddittorietà. La luce immutabile, penso, è anche un libro che tematizza il concetto e l’immagine della soglia: la soglia tra dicibile e indicibile, tra finito e infinito, tra dispersione e concentrazione, tra fine e origine:

Guardiano della soglia
(tra barlume e cecità)
chi può dirti fratello?

Sei l’ultimo custode,
inviso al chiaroscuro
degli sguardi, ai molti
che come onde di fiume
– per congettura di sogni –
fino a quel gorgo (pag. 20) e si noti l’ellissi del verbo presente nell’ultimo verso, dato che il pronome relativo “che” del terzultimo verso fa sì che il lettore s’aspetti una forma verbale di modo finito: e invece l’assenza del verbo e la sospensione del discorso sanno dire benissimo la strozzatura di quel passo apparentemente finale e irrimediabile. Dire non dicendo s’inquadra benissimo come portato di una realtà culturale e spirituale che sta, come già sottolineato, oltre o al di fuori della razionalità di marca puramente occidentale, benché (chiedo venia all’autore se mi sbaglio) un fecondo e luminoso eclettismo nutra questo libro, figliato da antichissime e gloriose tradizioni sia orientali che occidentali (ed ecco ancora la soglia: qui essa mi appare nella sua natura di luogo d’incontro e di convergenza).
L’ombra e l’usignuolo di Keats (ma anche, più in là nel libro, quello di Rūmī) (“Darkling I listen” / per adulare le notti – pag. 21) e il buio, l’invisibile e il silenzio sono le sponde esperienziali di questa parte del libro e rivelatori i versi “Però nessun maestro, / nessuno che seguiti / a tacere” (pag. 22) perché La luce immutabile è, anche, la narrazione di un apprendimento del silenzio, dell’itinerario verso il magistero stesso del silenzio mentre si attraversa “un mondo di rovine” (pag. 25). E al silenzio appartiene l’inapparente, l’effimero, quello che, ribaltando valori e prospettive, riscatta, dalla sua estrema fragilità, un intero universo:

Lo so, c’è gloria maggiore
di uno stelo, e più grandi
misteri cela il bosco
di questa nubile ghianda.

Però non ho voglia
di infierire su quel bruco
(“l’infimo il minimo il dettaglio”)
trascurato dai filosofi,
lui che invece era il più puro –
l’effimero che non volle
crescere, tradire come tutti (pag. 31).

Tutto il libro, si badi, è in tesa polemica con quegli aspetti reboanti, superficiali, mercantili della contemporaneità: la poesia viene inseguita e praticata da Ferraro come un’uscita dal carcere del presente e come conquista di una prospettiva dello sguardo infinitamente più ampia e profonda dalla quale non è disgiunta l’esigenza di dire – e non si trascuri il fatto che dire sia strettamente connesso con il respirare e che il respiro possa essere percepito come presenza del divino:

Stordita da carezze,
provi ancora l’antica voce,
la moduli in un rantolo.

Sì, qualcosa dovrà fiorire,
in tutta la sua agonia (pag. 35) e colgo l’occasione, a questo punto, per segnalare una particolarità tipografica del volume: quest’ultimo testo è stampato in carattere corsivo, così come accade ogni sei testi stampati, invece, in tondo – La luce immutabile non è suddivisa in sezioni titolate o numerate, ma presenta questa precisa scansione, per cui risulta un totale di nove gruppi di testi in carattere tondo (54) più i nove in corsivo, ossia 63 testi in tutto e si può supporre una simbologia numerica basata sul tre e i suoi multipli (anche addizionando il 6 e il 3 di 63 si ottiene, per esempio, 9) riconducibile a numerose tradizioni filosofiche e religiose e, dal punto di vista contenutistico, direi che ogni testo in corsivo apre e chiude un ciclo caratterizzato da variazioni tematiche pur nell’unità generale che riassumerei nella ricerca e nella constatazione della presenza del divino (la “luce”, appunto, “immutabile”) nella realtà estremamente frammentata, transeunte e ingannevole in cui siamo immersi, benché, lo ripeto, tornino spesso situazioni di tesissima drammaticità e non a caso i sintagmi “sappi” e “ricorda” rintracciabili in più luoghi testimoniano della necessità di un’attenzione minacciata e messa in pericolo proprio dalle esperienze quotidiane ed è interessante anche la forma didascalica di taluni testi che contribuisce a variare, sviluppandola, l’impostazione drammatica: “Perciò sappi che è Lui / il cacciatore, Lui la preda, / Lui il viandante, il sentiero, la meta, / colui che cerca e ciò che è trovato / (…) / Sei un raggio della Sua / Luce, ricordaLo” (pag. 36) dove, inoltre, noterei il giuoco tra il “ricordaLo” e un eventuale, e altrettanto logico, “ricordalo” e più avanti: “Però sappi che il fuoco / permane” (pag. 40). Infatti:

Cose durevoli mi chiedi,
mai deluse dall’abbraccio:
parole che risuonano,
stremate, nel silenzio
degli oracoli.

Sai, si cammina
per abitudine, non si va
dove si giunge (pag. 43).

Ma il liquido amniotico dentro cui si nutre il pensiero resta il silenzio:

Neve, sorella stupefatta,
silenzioso emblema
nelle tele dei fiamminghi.

Tutto ricopre, lei
che non aspira a nessun trono,
puro dispendio
eternato dagli arazzi.

Sacrificio –
ciò che trabocca,
colma (pag. 46).

Trovo significativo quel richiamo ai Fiamminghi, maestri riconosciuti d’arte e dell’arte del silenzio, uomini dall’intensa e profonda vita spirituale.
Ma dichiaro ora che irresistibile mi si è affacciato più volte il richiamo del capolavoro hölderliniano Andenken / Ricordo, indimenticabile rievocazione del tentativo di ritorno all’origine, poesia dei fiumi e delle acque scorrenti, della navigazione e del divenire e suggestione derivante dall’India e ora leggo in Ferraro:

Se interrogassi l’Origine,
l’incudine ancora ardente,
non so quale musa invocherei,
quale sorriso incantatore.

Lo so, non tutto è Tradizione:
non ha antenati
quel fruscio, solo brezza,
ignara della ruggine (pag. 47): “einst fragte ich die Muse” (una volta ho interrogato la Musa) recita un verso (ripreso anche da Zanzotto) del poeta tedesco e, definitivamente rivelatori, i versi:

Altro sono le fonti.
Altro l’andare,
il puro scaturire.

Per raggiungere
cosa?

La meta è l’origine (pag. 49), là dove non si può non pensare, anche, alla preda/meta da raggiungere o conquistare di San Juan de la Cruz.
E, proseguendo, ecco un Ferraro assai polemico:

Piccoli uomini siete,
nient’altro che turisti,
degni dei vostri souvenir.

Sì, ora sapete ciò che è stato
(ed è più grande di voi),
fosse anche l’orma
di un bisonte, un segreto
reso alla terra, nel silenzio
di tutti gli sciamani (pag. 50).

E continuando a leggere ecco di nuovo i fiumi e concetti tipici della poesia mistica di ogni latitudine (stavolta affido al lettore il rintracciare connessioni, suggestioni, riferimenti, rimandi):

I fiumi conoscono la loro
meta: dal mare hanno origine,
e al mare fanno ritorno.
E guarda questi frutti
alti tra i rami: il seme
sepolto è uguale a loro.

Tornare alla propria radice,
è questa la quiete.
Per questo devi perderti:
per trovare Colui che cerchi.
Così l’amante scompare
nell’amato, finché solo
l’Amore resta (pag. 52);

Raccogli queste spine,
lucenti come raggi,
per farne corona
nei tempi oscuri:
come ad Eleusi, guardando
il Sole a mezzanotte.

Non ha porte il tempio
– ora lo sai –
abbandona ogni sentiero (pag. 57)

Eleusi, dunque, altrove la tradizione derviscia, qui a seguire quella indù, in pagine più oltre Eraclito e Lao-tseu:

Immagina un fiume,
un fiume che risalga
la corrente: così ascendono
– muovendo verso la fonte –
e la chiamano altezza.

Come se lo Spirito fosse
un’acqua sorgiva, e non
il Principio di ogni fluire.

Così il Signore della danza
– inavvertito –
è immobile al centro
della ruota (pag. 59): tutto questo viene contrapposto agli “uomini in nero” (pag. 53), ossia ai preti cristiani che, racconta Libanio di Antiochia, devastarono i templi pagani all’epoca dell’imperatore Teodosio, ma anche, mi vien fatto di pensare, al deserto culturale e spirituale a noi contemporaneo: mi sembra che, anche nell’immagine della danza immobile di Śiva per esempio, Flavio Ferraro trovi una raffigurazione della poesia in quanto espressione di questa ricerca interiore e questo torna a giustificare il fatto che molti di questi testi tendano al canto, a un bellissimo canto silenzioso e meditante (“Canti / di pura profusione” è stupenda definizione che Ferraro inventa evocando i canti-danza dervisci) – soltanto quei testi in cui più marcato e scoperto, oppure meccanico è l’elemento puramente didascalico o fideistico perché non ferito dalla drammaticità della ricerca mi appaiono meno riusciti, anche perché la dottrina sembra assumere una forma espressiva meno convincente, nel senso che il discorso appare semplicemente strutturato tramite gli a capo dei versi (pagina 37, 41, 54, 55, 58, 62) senza l’attenzione dovuta (e che è stata spessissimo altrove profusa) al ductus poetico, a quella difficilissima giuntura tra tema del discorso e sua strutturazione verbale e ritmica oppure quando l’atteggiamento moralistico (pur comprensibile) è eccessivamente marcato (ma queste osservazioni non intendono inficiare, sia chiaro, la validità e la bellezza dell’intero lavoro).
E proseguiamo il nostro attraversamento:

Il Mito è sempre vero.
Il fiume scorre, ma non è:
ciò che permane
è la sorgente.

Così la Porta stretta,
l’Albero dai frutti d’oro,
il Ponte periglioso
non furono mai,
ma sono sempre.

Immoti
nella corrente (pag. 61): è qui che La luce immutabile s’accampa definitivamente tra quei libri della nostra modernità che riconoscono nel mito / nei miti una sorgente vivissima per cercare e comprendere noi stessi e gli abissi delle nostre interiorità sia individuali che collettive.
Giunge, infine, il congedo, l’ultimo testo:

Non si accade, nel dispiegato
mattino dei prati,
affinché storia sia qui,
dove riluce il sangue
immemorabile.

C’è un istante fuori
dal tempo, lontano
dagli annali dell’orrore.

Vedi, gli uomini passano.
I semi che scomparvero,
fioriscono (pag. 69).