La libre République des Toits
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
dédié à Yves Bergeret qui m’a inspiré ce texte
Ricordo una fotografia di Pietro Masturzo: sui tetti di Teheran le donne, al crepuscolo serale, cantano la loro protesta contro il regime. Le finestre illuminate dicevano di case vive e abitate, le terrazze trovavano voci di coraggio e di libertà. Era il giugno del 2009 e le persone, alle 22.00 in punto, salivano sui tetti e dicevano la loro protesta. Si muovevano rapide tra ombra e luci notturne, tra buio e riflessi dal cielo.
Una libera Repubblica allogata sui tetti e sulle terrazze potrebbe sfuggire, allora, all’occhiuta sorveglianza, all’artigliante controllo?
Ricordo le terrazze di Exàrcheia, nel cuore di Atene. Come si può rimanere dentro le stanze della casa quando una lunga stagione clemente invita a stare all’aperto, magari in alto, lontano dall’asfalto immondo ma rimanendo nel cuore della città-civetta? La sera e la notte vanno onorate nell’intimità di terrazze popolate di sedie e di volti amici mezzo nascosti nel buio baluginante di Sud-Est.
Una Costituzione della libera Repubblica dei tetti dovrebbe fondarsi sul piacere dell’amicizia e sulla sacralità della conversazione nella penombra di terrazze votate al culto di ἐλευθερία.
E amo i tetti di Parigi, quell’elevazione vastissima tra la Senna e la mente: in una fotografia Italo Calvino siede, scrittore-barone rampante, le mani nella tasca della giacca, sull’orlo di un lucernario – perché a Parigi i lucernari aprono i sottotetti sul cielo e lasciano entrare il cielo nella vita della gente. Ma abbiamo dimenticato la lezione libertaria di Cosimo di Rondò, il balzo leggero e geniale di Cavalcanti oltre le arche di marmo.
Di Parigi ricordo la terrazza vastissima dell’Institut du Monde arabe donde benissimo si contempla l’abside di Notre Dame – ma è il tetto del Beaubourg ad affascinarmi: tenersi in equilibrio sulle sue cuspidi – non penso affatto al caffè per turisti danarosi allestito all’ultimo piano dell’edificio (oscena insignificanza dei luoghi trendy) – no: penso proprio a un andare lungo e sulle tubature a vista e tra le griglie metalliche e guardare Parigi dal vertice della mia contemporaneità, cuspidi non più gotiche, naturalmente, ma novecentesche sagomate in gomiti e curve donde guardare la città stratificata d’epoche e sulle quali coltivare la propria passione di funambolo perdigiorno.
Ma che cosa dire quando scende la notte sulla libera Repubblica dei Tetti? I mangiatori della Luna si nutrono della sua presenza, delle sue metamorfosi. I mangiatori della Luna inseguono l’imago di colei che ne aizza la fame – o almeno la pensano se (com’è vero) dalle città non si vede il cielo. E si salga allora sui tetti, si cerchi la Luna-macara.
Dinoccolato ragazzo, le scarpe perse tra le nuvole, colmo della grazia sgraziata dell’adolescenza, se ne vada a testa in giù, poggiando le mani su margini di terrazzi, sghembo rispetto a comignoli e antenne, sghembo rispetto alla verticalità del suo non sapersi. E, ragazzo dallo zaino di pezza riempito di storti tubi e di arrugginiti bulloni, si dia un nome (Jaqomus oppure Jacomus), abbia una gobba lunare e gambe inarcate verso il cielo ogni volta che (per sfizio o per amore) decida di camminare sulle mani della mente. Ché la vera nascita è quando si dà a sé stessi un nome e un destino. (Ben poco conclusivo il nome ricevuto dai genitori). Ché votarsi alla Luna/luna esige prima andanze per sterrate camionabili e sguardo sveglio per scorgere quegli storti tubi scartati persino dagli sfasciacarrozze: li si vede, li si raccatta, li si saggia con i polpastrelli, li si sfrega con carta vetrata, li si monta in figurazioni che certamente non servono a nulla e che sono semplicemente (semplicemente?) gioco. Libertà. Libertà di un andare per andare, soprattutto salire in cima ai tetti portandosi con sé quanto raccattato da terra.
Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella (dallo Zibaldone di pensieri, 256, 1° ottobre 1820).