Nel cuore (infero) della parola: su “Inferno bianco” di Gianluca Chierici

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

 

Le 12 poesie intitolate Inferno bianco di Gianluca Chierici (Fallone Editore, Taranto 2020 con la prefazione di Vincenzo Frungillo) costituiscono un teso poema che attraversa la parola poetica stessa, l’inferno (regione ctonia, quindi, magmatica e insidiosa, ma anche estremamente attraente) bianco perché giunto a tali livelli d’incandescenza da apparire bianco.
Ma è una sapientissima ῥητορική, un’arte del dire consapevole e coltivata, non artificiosa, non immotivata a innervare, nutrire, splendidamente sostenere il poema (tale mi appare questo libro esile solo nel suo aspetto tipografico).
Il ποιεῖν, il fare poetico capace di creare uno spazio e un tempo che siano irrinunciabile discesa negli inferi del vivere e del pensare, si accampa, colmo di enigmi e di rivelazioni, di rischio e di coraggio, sulla pagina e s’affida tutto alla tensione verbale, al ritmo prosodico, alla possibilità che ha la parola poetica di dire lacerazioni ed esperienze di pensiero.
L’impianto retorico (che, ripeto, qui intendo come struttura sorvegliatissima del dire, come atto che affida il pensiero all’energia della parola) si propone quale possibile forma di poesia in questi anni nei quali la poesia fa i conti con una realtà del tutto sfuggente, insidiosa, spesso violenta, oppure banale, mercantile, deludente.
Sono convinto che la scelta del registro espressivo sia, in Chierici, scelta, traverso la scrittura, di una postura esistenziale che va ad affiancarsi a un’opera oltremodo interessante e feconda come quella di Andrea Leone – e scrivo questo sia perché mi sembra di riconoscere più di un’affinità tra questo esile libro di Chierici e i libri più recenti di Leone, sia perché Inferno bianco viene pubblicato nella collana Il Leone Alato dell’Editore tarantino diretta proprio da Andrea Leone.

I
entra nella bianca perfidia
dalle prime righe del testamento
entra nel già pensato della parola
e scacciati da ogni sillaba
dalle luci fioche della casa
come capovolto nella stanchezza
delle prime certezze
capovolto da una danza
che non ha più maschere
entra in questi fuochi pallidi
che chiedono di apparire immortali
e sanno chiedere lo sfacelo
e l’inerzia di milioni di anni
in tutto questo orrore di morti
che si ripete come suono dentro
il poeta e traccia, come scavo minerario
e bilancia, la linea orizzonte
di ritorno al cuore intero (pag. 25).

Nel testo successivo, infatti, il doppio mostruoso della scrittura (pag. 26) cresciuto dal suono bianco consolidato, continuando a dispiegarsi in reiterazioni e anafore e allitterazioni, combatte una spasmodica lotta per affermarsi dentro una realtà ostile e violenta dove i nemici proliferano.
E si tratta di penetrare il segreto / del simbolo (pag. 28), cosa che non riesce a fare né la mostruosità / delle feste annuali né la retorica: si noti come il termine mostruosità abbia, qui, un’accezione negativa di contro alla connotazione positiva che potrebbe possedere l’espressione mostruoso (etimologicamente derivante da monstruum, cioè portento, evento meraviglioso) della scrittura e che retorica ha, sempre qui, anch’essa una valenza negativa in quanto Chierici si riferisce a una serie di celebrazioni e di atti svuotati di ogni significato – lo sottolineo affinché non si generino equivoci e fraintendimenti rispetto al senso secondo il quale avevo impiegato il vocabolo retorica riferendomi allo stile del poema.
La poesia possiede quest’émpito agonico nei confronti di una realtà che la rifiuta, ma la poesia non cede, grazie alle proprie capacità visionarie può compiere questa descensio ad Inferos:

IV
Così come la regola cattiva e reciproca
così come credere,
perché credere è dire il vero
lasciare una teoria intorno alle parole
lasciare l’ombra delle parole
intorno alla loro bocca
perché come un fiato capovolti
perché coinvolti in tutte le esequie,
in tutti i parricidi
loro, sempre nel fiume
nel camice bianco ancora più stretti
ancora più stretti
entrano e sanno entrare
anche tu entrami innocente
nella vena che rimane cattiva
stretto al sangue della festa
mentre compro le mele alla bancarella
comprami il vestito che merito
il vestito che rivela il sacrificio
il cervo che ho vissuto e cancellato (pag. 30).

Ma l’atto apparentemente quotidiano e banale di comprare le mele alla bancarella si rivela decisivo, ché nel testo successivo (il quinto o tappa come mi piacerebbe definire le varie parti del poema: tappe di un attraversante e rischioso dire) viene subito detto che Le mele sono tra i figli le stesse madri / guardaci dentro fino al torsolo delle paure / che le hanno spolpate della natura / ed ora i semi secchi caduti / nella donna mancata / (…) / quelle nostre stesse madri, madonne devote / madri mele bestie peccati / e noi in loro senza inganno / come il frutto diffuso dissolto distrutto (pagg. 31 e 32): il linguaggio poetico di Chierici spalanca gli oggetti comuni in direzioni e sensi inattesi, ma perfettamente coerenti con l’idea sottesa a Inferno bianco: guardare, tramite la parola poetica, in quello che è inferum, situato negli strati inferiori, nascosti, sotterranei del reale, dell’inconscio, dell’esistente fino a scorgere il nulla, ma senza cedere al terrore o alla disperazione.
Per questo risuona subito l’appello (VI, pag. 33) Rinnova questo cuore vacillante / forgia l’eroe nella pagina brughiera: il poeta, sdoppiando sé stesso, rivolge un dettagliato, puntiglioso appello a quella parte del sé che è chiamata a dire, ad attraversare la pagina brughiera e le vorticanti, bianche regioni di sotto – partecipa alla mia violenza / a questo sangue che è un momento frenetico / un momento netto e simmetrico / una via d’accesso necessaria / che poi sa piangere nel mito nascosto (pag. 34) è l’appello successivo e si noti come la dizione sia sempre tesa e quasi priva di pause, pronunciata come in una sola emissione di fiato.
E l’altro sé può assumere il nome di angelo, il messaggero e il mediatore, qui ammantato di un chiaro richiamo benniano:

VIII
Angelo che ancora smalti con la tua vista
gli attimi e le parole del nulla
tu questo nulla lo vuoi prendere e stringere
vuoi che sia fratello violento della tua luce
funzione del sacrificio e gemito
arrancando, consacrando una trasgressione
talmente libero da essere indecifrabile
rompi il senso delle mie mani legate
come un sangue tecnico che conosce
e agita il sottosuolo delle vene
ama e impazzisce e poi consacra
consacra questa vita alle corrispondenze
come fortemente esclamai nel verosimile amore
come una sommossa nel verosimile amore
esclamai nell’angelo uniforme e gemello
l’anatema del tempo (pag. 35)

Gianluca Chierici tenta così di ritrovare e di rinnovare un’antica funzione del canto che accompagnava il sacrificio (lo fa ancora, a pensarci, nella stessa liturgia delle diverse chiese cristiane, ma non solo) e partecipava alla consacrazione – non si dimentichi che il distico conclusivo della quarta tappa del poema esplicita anche verbalmente il concetto del sacrificio e il cervo potrebbe far pensare, per esempio, al cervo di Sant’Eustachio, benché la prospettiva di Chierici mi sembri al di là di ogni fede religiosa, sì, invece, vicina a certe tendenze della poesia di lingua tedesca tra Ottocento e Novecento (il primo Hofmannsthal, Stefan George, Gottfried Benn, appunto, Georg Trakl, ma non avrei timore di citare anche Nietzsche e certe composizioni in versi di Wagner) che vuol restituire alla parola poetica una sua potenza fondatrice di contro alle tendenze di una modernità offensiva e antiumana, parola poetica che rimane consapevole di volersi dispiegare sull’orlo dell’abisso e del nulla.
Infatti:

IX
(…)
Tu che sei nascita, vieni nel canto
che dissimula e dichiara
che la poesia ha un sangue tiranno
e che è pazza nelle nostre stanze
la disfatta vecchia rapida mistificatrice del corpo dei poeti
fantasma unico delle menti identiche
che fa l’amore nel fuoco d’ogni accusa (pagg. 36 – 37)

Sfibrante la tensione agonica, per cui può emergere, legittima e umanissima, la domanda: Ma poi perché morire, morirne ancora? / Perché il suicidio dei tanti angeli / nei desideri delle bellezze più pure e care (X, pag. 38), ma, scrive Chierici poco oltre, e dice, sempre dice, che il demone è carta / che parla ed implica / una corretta follia culturale / una seconda scelta dei riti perduti (pag. 40), così che il richiamo al demone della carta è definitiva accettazione di un destino, non imposto o derivato dall’esterno, ma scelto e abbracciato in piena consapevolezza:

XII
come memoria deve apparire la preda
la parola che torna alla carne del mondo
come feroce guerriero e cane rabbioso
nella gola strappata del corpo
ancora bambino,
nel destino masticato degli ultimi
nel più banale dei giochi profondi
perduto senza essere alleanza
senza essere questa discendenza
immobile misconosciuta e primitiva
il vero nome del rumore
che nasce nella resa delle sapienze
allora e sempre la bocca e l’inizio
allora e sempre benedetta stagione iniziale
allora e sempre,
mattino capovolto del nostro sangue
e tu con me, nella caverna
tu con me, nella carne
tu con me, nel cuore della parola.

La preda potrebbe essere affine a quella di un testo celeberrimo di San Juan de la Cruz benché, ripeto, in Chierici la prospettiva non mi appaia metafisica e lo stesso richiamo dantesco che un lettore italiano immediatamente avverte leggendo la parola “inferno” già in copertina nulla ha a che fare con l’itinerarium in Deum del poeta fiorentino, sì con il suo cammino attraverso e dentro la parola poetica; la benedetta stagione iniziale potrebbe far pensare alla spasmodica attesa del divino in Hölderlin, la caverna (così come in precedenza il demone) a Socrate e Platone e scrivo questo per mostrare come l’intero libro sia estremamente avvertito dal punto di vista della sua appartenenza a una vasta tradizione europea e come ammirevole sia anche la sua architettura: se si vanno a rileggere i primi versi della prima tappa e gli ultimi della dodicesima si constata la strutturazione circolare del poema, se si ripensa all’intero impianto poematico ci si rende conto di aver attraversato una sorta di sinfonia mahleriana, colma di squarci sul nulla e sulla tenebra, continuamente lampeggiante di appelli alla forza tutta umana della parola e del pensiero, un canto della terra capace di guardare nel ventre infero della terra senza distogliere, nel mentre, gli occhi dalla bellezza che la parola poetica riesce ancora a far sorgere, fugace, forse, smalto sul nulla, certamente.