Un offertorio laico: su “La complicità del plurale” di Marco Bellini
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Questo libro è un’accorata meditazione in versi, un atto di memoria, un offertorio laico, un ufficio dei defunti (mai funereo o sentimentale), un esempio di come la scrittura in versi possa emendarsi di ogni traccia di letterarietà e di estetismo dimostrandosi necessaria e attraversando lucidamente la perdita e il dolore.
Come tengo a ribadire spesso, un libro riuscito è per me tale se sa imporsi per qualità di stile e di linguaggio e per spessore di pensiero: La complicità del plurale (LietoColle, Faloppio 2020) appartiene al novero dei libri riusciti.
Il rischio che Marco Bellini ha voluto correre scrivendo quest’opera in versi è stato quello di partire da un dolore privato (la malattia e la morte del padre) e di approdare a una scrittura sentimentalistica o incapace di differenziarsi dalla gran messe di libri in versi dedicati al medesimo tema (in fondo la perdita è uno dei temi principali della poesia occidentale fin dal suo sorgere) – e invece una scrittura sorvegliatissima (ma non artificiale o intellettualistica), un’architettura nello stesso tempo sobria e armoniosa dei singoli testi e dell’insieme del libro, un’intonazione pacata e pudicamente commossa, un lessico ricco e preciso, ma mai astruso o inopportuno, un lirismo intimo senza sbavature né cadute, una fedeltà alle cose e ai luoghi sostengono il libro, ne determinano il valore e la sua verità, la sua possibilità d’uscire dalla sfera privata per farsi parola condivisa.
Si legga a titolo d’esempio il testo seguente e si consideri l’apparente quotidianità del dato di partenza, ma per constatare la capacità che questa scrittura possiede di addivenire a un’esemplarità sia stilistica che concettuale:
Spostando dall’angolo
un mobile mai rimosso
sollevando d’aria residui lievi
impigliata in una piuma
per caso una mosca vuota:
involucro d’ali e corpo senza peso.
Viscere perse, riverberi fiacchi
luce che passa e scompone.
La casualità di un angolo e l’ingombro
di un mobile: nessuna tomba o lapide
solo una silenziosa noncuranza
della morte per la vita (pag. 25).
Lo sguardo è fermo nel tracciare l’invalicabile limite tra morte e vita, la leggerezza dell’involucro vuoto di un insetto così comune e spesso disprezzato come una mosca assume una leggerezza di visione e di espressione linguistica che, nel medesimo tempo, dice della labilità estrema del vivente e della poesia stessa, la quale, tuttavia, proprio perché leggera possiede la medesima serietà della vita, la medesima accorata leggerezza di fronte alla pesantissima definitività della morte.
E in questo libro, ovviamente, è anche questione di parole, è attraverso di esse che andranno detti il distacco e l’assenza:
Qualche volta bisogna saperle buttare
sul foglio le parole e poi guardare
che macchie fanno
lo sfrigolio dei verbi
il modo (pag. 31): è così che si profila una sorta di ritornello o motivo conduttore che, tra l’altro, riconduce al titolo del libro, ma anche al suo nucleo profondo, cioè alla giuntura tra la parola che dice e l’irrecuperabile, irredimibile assenza, tra l’azione (il verbo) e il modo cui è approdato l’esistere (il lutto): (…) / Questa sera precipitare / è il verbo che ti appartiene. / Domani sarà / il verbo per tutti (pag. 49); (…) / Ogni foglia sapeva / che saresti partito. Dissodare / è il verbo che manca (pag. 53); (…) / Lasciamo a domani / il silenzio che hai per me / lasciamo agli altri / ciò che è sempre accaduto. // Del verbo lasciare mi sorprende / la complicità del plurale (pag. 67); (…) / Adesso cerco. / Voce del verbo trovare / è il modo (pag. 79); (…) // Adesso lascia. / Voce del verbo andare / è il modo (pag. 90).
Le pagine che raccontano le visite al cimitero e poi la malattia del padre, la tenera vicinanza del figlio in una sorta di analessi posseggono un equilibrio espressivo e psicologico raggiunto certamente per lungo e arduo affinamento del dolore e per conseguita distanza attraverso la scrittura – non sto affermando, sia chiaro, che la scrittura abbia avuto funzione “terapeutica” (significherebbe banalizzare questa lettura e scadere a un livello bassissimo d’interpretazione), ma, al contrario, che la malattia del padre e la sua morte siano stati l’atroce fuoco attraverso il quale la scrittura di Marco Bellini è dovuta passare per ri-conquistare a sé stessa necessità e ragion d’essere, la conferma di essere un cammino d’arte e di vita coerente e significativo, addirittura il momento del transito dallo status non solo anagrafico di figlio a quello (mi si permetta di dir così) di padre di sé stesso; si leggano quali testi esemplari i due seguenti, anche se occorre avvisare il lettore che questo libro andrebbe letto nel suo dispiegarsi “naturale”, senza saltare di qua e di là, ma proprio come si svolge una cerimonia sacra, per cadenze successive – ma, purtroppo, una lettura critica costringe talvolta a violentare il testo:
Anche tu hai scritto
con le molte ore di lavoro e dei campi.
La pergamena tra la nuca
e dove il collo diventa schiena
gli scavi del sole fitti di memoria
come gli anelli distesi nel tronco
del castagno avanti casa.
Stupito ti guardavo e vedevo
imprevista, un’incisione verticale
deporre nella pelle
il riassunto di un crocifisso (pag. 55) –
e successivamente:
Quando perdi anche il secondo genitore
è lì che si accende una solitudine diversa.
Riguarda ciò da cui vieni, riguarda
lo sperma che ti ha portato qui.
Questo è il momento.
Con il badile in mano, sei lì
a tagliare il cordone ombelicale.
Per la prima volta
veramente nudo (pag. 95).
Come si può constatare Marco Bellini trova proprio nel corpo scritto del padre le ragioni del proprio essere e del proprio stesso scrivere, discende nel profondo di un tema per qualche verso spesso tabù, ossia il corpo paterno e lo sperma dal quale si ha avuto origine e la presa di coscienza del corpo del padre avviene per gradi che sono l’osservazione (e ora il ricordo) del corpo paterno e dei suoi odori (in altri luoghi del libro si fa riferimento proprio agli odori) legati al lavoro, poi la malattia e quindi la morte, ossia la scomparsa alla vista di quel corpo che giace dietro una lapide; infatti:
(…)
Avvicini la scala, sali, pensi che sia
d’aiuto prendere confidenza, prepararsi.
Bisbigli della casa, del giardino
che ha messo i fiori, il cane che aspetta.
Oggi fare l’amore è strofinare un panno
sulle lettere del suo nome, la fotografia;
picchiettare piano con l’unghia
sul marmo, magari sente.
I vostri corpi
hanno già parlato, lasciato della carne.
I figli ogni tanto passano e tu
non ti decidi a scendere (pagg. 38 e 39).
L’assenza è l’enorme trauma, ingigantito proprio dal ricordo e dal ritornante riconsiderare la realtà di quel corpo, dell’ultimo sentiero percorso insieme dal padre ammalato e dal figlio:
(…)
(…) Entravi
in una dissolvenza.
La malattia può insegnare molto
prima di ucciderti, questa
è l’ultima lezione condivisa (pag. 44),
ché morire è, scrive Bellini con icastica precisione, perdere il rumore che fa la vita (pag. 47).
Non c’è allora dubbio che la scrittura riconquisti a sé stessa la verità d’essere corpo condiviso, vita in comune che si dice e che si dice anche quando s’inoltra nella e oltre la morte; ha così ulteriore, profondo significato il tema del giardino, dell’orto, degli ortaggi curati e coltivati dal padre, così che Bellini sembra riconoscere anche alla propria scrittura una radice profondamente terragna, motivata e nobilitata (quella paterna è sempre figura nobilissima, esemplare nel libro) da questo legame concretissimo con la terra e con l’arte del curare gli alberi, le piante, i frutti, di raccogliere questi ultimi e di portarli in tavola o di offrirli alle famiglie dei figli, gesti tutti di antica bellezza, virgiliani oserei dire, umili ma proprio nel significato etimologico di humilis, appartenente allo humus, alla terra da cui nasciamo e che ci nutre e, dunque, nobili, aristocratici perché solo uno spirito eletto può e sa dedicare la vita alla coltivazione di un giardino e di un orto, accordandosi al ritmo delle stagioni, silenziosamente amorevole e sollecito.
Leggiamo:
Tracciavi il tempo stando dentro
il bosco; educato dagli alberi
leggevi le venature delle foglie
per sopravvivere alle distanze
tra un atto e il suo ricordo (pag. 59).
Nel dialogo con la memoria del padre (ricorre spesso l’oscillazione tra l’io che scrive e che ricorda e il tu paterno) continua l’apprendimento di una lezione di vita che è materiata di pazienza, di capacità di attendere, di avere cura, appunto, e attenzione, di gratitudine nei confronti della terra e di prontezza a donare con un gesto sempre discretissimo e commovente, ma, agli occhi del figlio, tutto questo ha reso il padre consustanziale ai luoghi e alle cose, sì che
(…)
Pensavo sarebbero rimaste immobili
le cose che stavano
ma non è così.
Tutto si muove
compresa la tua carne ferma (pag. 61),
perché
La tua morte è uno stato permanente
imposto; non lo è il dolore generato
trova la misura in oscillazioni impreviste:
il picchio verde ha scavato
il proprio rifugio nel tronco del ciliegio
che guardavi dal balcone
durante gli ultimi giorni (scavare
è un verbo vicino alla morte).
Non so decidere
se sia un regalo o un’offesa (pag. 64),
ma è anche vero che perdendoti ti ho trovato (pag. 69).
Ancora il giardino. Sarà che ti somiglia
che tutto ti contiene dove sei stato:
il nocciòlo ti faceva da ombrello
sopra l’ombrello. Accoccolato
i talloni piantati nel richiamo della terra
ascoltavi la tua voce da bambino, i rimasugli
delle fughe per non bagnarsi
quando la vita ti entrava dalle pupille
accendeva le tue possibilità
fermate ora
come lo spegnersi di un vecchio televisore.
Era anche un po’ aspettare,
questo il verbo per la pioggia,
mentre tutto ti conteneva, definitivo
tra l’ombrello e l’ombrello
di te e i talloni (pag. 72).
Invito a notare, ancora una volta, la chiara dizione generata dalla prosodia (pur libero, il verso è governato dalle opportune pause e dal giusto disporsi delle strofe) e dal sistema verbale sempre preciso e cadenzato su di un ritmo capace di esprimere la bellezza della lingua italiana che, ancora una volta, ritrova il suo legame con una terra da millenni coltivata da contadini sapienti e, direi, anche la lingua continua ad aver bisogno di poeti che la coltivino con l’umiltà e la dedizione più acconce: amo moltissimo l’idea che anche il poeta debba stare accoccolato / i talloni piantati nel richiamo della terra ad ascoltare la propria voce che deve ambire a divenire la voce di tutti – altrimenti non avrebbe senso offrire un libro all’attenzione dei lettori.
E che sia il padre una delle radici della scrittura può essere letto nel testo che propongo ora:
D’improvviso, mentre cammino
mi accorgo di non avere la tua firma.
È un passaggio della mente
senza preavviso
perché tu capiti e abiti.
Inconsapevole il passo rallenta
cercando nella memoria un foglietto
un appunto conservato che porti
quel tratto elegante delle linee
l’alternanza di curve e spigoli
a definire un profilo che non trovo.
D’improvviso, mentre cammino
mi accorgo di non avere
il tuo nome
scritto da te. Scrivere
è il verbo che ti perde (pag. 82) – ed è vero che la scrittura sia, contemporaneamente, un perdere e un trovare, un cercare i nomi e un allontanarli da sé nel mentre li si affida agli occhi del lettore. E oserei dire che Marco Bellini rechi la firma del padre nel proprio stesso corpo, ma questo non basta, evidentemente, perché il tuo nome / scritto da te sarebbe la sacra reliquia di cui ha bisogno proprio chi fa della scrittura una ragione di vita: anche questo appartiene alla separazione, al diventare padre di sé stesso non potendo continuare a essere figlio, quando la propria scrittura è ormai davvero sola davanti al mare aperto da attraversare.
E la scrittura deve ora confrontarsi con i suoi limiti, con le sue impossibilità o incapacità:
Quando mi chiedono com’eri e cerco di te, non trovo altro
solo tagli improvvisi, luce
di sbieco nella memoria (pag. 85).
Per me, che ho molto amato questo libro, è questa la premessa e la promessa di una nuova impresa di scrittura di Marco Bellini sicuramente inscritta nel futuro spero prossimo venturo.
E concludo riportando integralmente il bellissimo
Post scriptum
d’improvviso va tutto in stampa / butto sul foglio queste ultime parole / le macchie decideranno la propria forma / oggi abbiamo tagliato il pino / quello scrostato come un pane secco / stava nella fila in fondo al giardino / tra le foglie al tempo degli aghi come a Natale ci dormivano le faraone / dicevi che erano selvatiche come il muschio sul lato nord del tronco / abbattuto da tre uomini che chiamavi figli uniti nel tuo DNA / il grande ha usato la motosega nuova / tutti dentro un fare di cavi cunei e scale / gli stessi gesti e i muscoli flessi suggerivano un passaggio di consegne / la donna che chiamavi moglie e noi madre vorrebbe far dire una messa per te / forse la processione del lavoro / il legno morso dalla catena fatto suono di un rosario detto piano / l’ostia in una scheggia verticale / le mani giunte attorno alla corda / i rami magri a imitare le braccia del Cristo / qui dove risuonavano le tensioni che agivi / possono essere la messa che ti accoglie.