Via Lepsius: Sul concetto di “scritto”
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Da gran tempo penso ai miei testi in termini di “scritti”, il che significa per me che li penso paesaggi della scrittura all’interno dei quali vengano a sciogliersi i confini tra poesia e prosa, tra testo d’invenzione e saggio, tra ritmo lirico e ritmo narrativo o speculativo.
Ogni “scritto” ha, nello stesso tempo, ambizioni d’eleganza stilistica e di rigore ermeneutico, d’inventività fantasticante e immaginativa e di disciplina di studio.
Uno “scritto”, essendo già di per sé paesaggio, si dispiega nella sua molteplicità di aperture e di soglie, è esso stesso continuamente soglia tra due o più spazi-paesaggio e, al proprio interno, possiede numerosi punti di transito con l’esterno (soglie permeabili e mobili, appunto).
Il gruppo di “scritti”, poi, si dà a vedere quale costellazione di tali paesaggi della scrittura, caratterizzati da emersioni e ri-emersioni d’idee, immagini, fatti, nomi e altrettanto ricchi di rimandi, accenni, allusioni, anticipazioni, perché dev’essere la vitale mobilità del pensiero, il pensiero nella sua necessaria mobilità a trovare nei diversi “scritti” la propria (mai definitiva, però) attuazione.
Ogni “scritto” dev’essere infatti una modulazione del respiro, e l’intendo in senso sia letterale che metaforico, così che ogni “scritto” presuppone e prepara il successivo, è paesaggio (è paesaggi) in fase d’inspirazione e, al contempo, d’espirazione, è scrittura che cerca la propria durata – e non in senso temporale, bensì nel senso di ritmica del pensiero e di venuta a esistenza di quel medesimo pensiero il quale, di conseguenza, si articola, si dispiega, magari anche si contraddice o nega, ma sempre si muove e trascolora e screzia.
Ogni “scritto” è, dunque, un’andanza dentro il paesaggio ch’esso, pure, è, e queste andanze, scaturite ognuna per gioia intima ch’è sostanza stessa del pensiero, si possono chiamare anche stanze o sentieri di un poema in fieri, di un canto che inizia là dove inizia il respiro.