“Da quali impulsi nasce questo scritto”: su “Figure semplici” di Anna Chiara Peduzzi
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Vincitrice della sezione “Raccolta Inedita – Biblioteca Civica di Verona” del Premio Lorenzo Montano 2020, Anna Chiara Peduzzi compone ventuno brevi testi in versi riuniti sotto il titolo Figure semplici (Anterem Edizioni / Cierre Grafica, Verona 2021 con una Riflessione critica di Giorgio Bonacini) che affrontano il tema della scrittura in poesia, del suo originarsi e attuarsi.
Circola tra oleandri mortali nome senza aureola colmo all’orlo da cui il miele non travasa né l’interno si sonda ciò che resta dei miti è avaro di eccedenza e il discorso rappreso in superficie con le sue frasi e il respiro corto si allunga in lucida parete e non riflette è specchio senza foglia (p. 17)
Il testo inaugurale del libro mostra già tutte le caratteristiche dell’intera opera: il riferimento a elementi naturali che non sono sfondo od ornamento, il disporsi del ductus in versi dalla cadenza precisa e dal lessico altrettanto determinato, l’assenza di qualunque deriva simbolista o spiritualista; esperta traduttrice (e studiosa delle tecniche e delle filosofie della traduzione), Anna Chiara Peduzzi possiede con ogni evidenza una tale consapevolezza di fronte al testo che l’ha indotta a scrivere un libro in poesia capace di riflettere, tra i molti temi affrontati, proprio sulla natura (cognitiva, linguistica, espressiva) del testo stesso, sul suo farsi quale organismo linguistico in rapporto costante con il reale, sul suo giungere a compimento quale risultato di interazioni complesse tra pensiero, linguaggio, struttura della mente pensante e poetante (oltre che parlante-scrivente), struttura del reale, percezione, portato storico-culturale veicolato dal linguaggio, portato psicologico personale.
Il “nome senza aureola” mi sembra dichiarare già da subito quella sottrazione dell’aura (per dirla con Walter Benjamin) e quella negazione di qualunque tipo di spiritualismo che, preferendo e scegliendo una visione materialistica dell’accadere linguistico-poetico, vede la poesia come “discorso rappreso in superficie” capace di allungarsi “in lucida parete” che “non riflette”, che è consapevole dell’eclissi dei “miti”, vale a dire di ogni discorso sacrale e sacralizzante; lo “specchio senza foglia” è, cioè, una poesia che non s’illude di riflettere la realtà, i sentimenti, i pensieri, ma che è capace di confrontarsi con l’opacità sia del mondo che del linguaggio (“né l’interno si sonda”) e che non è dolce consolazione (“da cui il miele non travasa”).
Notevole per spessore concettuale e realizzazione poetica è il testo seguente a pagina 18:
Parla compitando la voce che s'affonda senza accento di luogo e si alloggia nel dialogo dei vivi affidando a ogni suono l’eco bianca di ciò che accadde e non fu memoria toccherà sillabare lentamente poi limare ogni spia di senso sarà opera onesta di registrazione della lingua sorgiva che rintocca e a nulla serve blasfemare l’alba che sfilaccia la frase che l’inoltra
Ho già accennato alla lucida consapevolezza con cui Anna Chiara Peduzzi scrive: qui sceglie la terza persona singolare (una sorta di forma grammaticale impersonale) per raggiungere la distanza necessaria a vedersi poetare: “la voce” che “parla” trova e cerca alloggio (“si alloggia”: splendido sintagma!) “nel dialogo dei vivi” (il linguaggio è e resta strumento di dialogo, di comunicazione), la poesia è affidare “a ogni suono l’eco bianca / di ciò che accadde e non fu memoria”, compiere cioè un atto di fiducia nei confronti della lingua-suono, dedicarsi a un lungo, accurato, paziente “limare” nel tentativo di raggiungere la “lingua sorgiva che rintocca”, benché, avverte l’autrice, tale atto sia estremamente arduo e a rischio di fallimento “l’alba / che sfilaccia la frase / che l’inoltra”). È la questione della poesia come ricerca, traverso il linguaggio, dell’origine stessa del linguaggio, di quanto “accadde e non fu memoria” e sarà “opera onesta” in quanto l’autore/autrice riconoscerà il proprio scrivere/parlare in poesia quale “registrazione” (non, quindi, propria invenzione o creazione) di una lingua in statu nascendi che “rintocca” – e in tal modo Anna Chiara Peduzzi coniuga il dire da parte della voce con l’ascolto da parte dell’orecchio, senza atteggiamenti misticheggianti né tanto meno irrazionali pone il farsi della poesia entro la sfera del linguaggio che ripensa sé stesso, del linguaggio-suono che, risalendo dagli abissi del tempo umano (ma può risalire da essi perché cercato – “limato” – con ostinata lucidità, con indefessa onesta fatica), si rende presente come voce che rintocca.
Ed è necessaria la poesia perché «Non dette non esistono le cose / o esistono di meno» (p. 19), ma
Dov’è come si forma la cosa che di noi non ha bisogno per apparire e imprimersi nel mondo concavità della scodella vuota che cattura lo spazio nel suo bianco dimmi aiutami a trovare qui nello scambio del latte e della terra l’intenzione e il premio del lavoro la storia di un passare e dileguare sta silente e non vista in altro luogo la nutrice che sazia questa fame (p. 21)
e
All’improvviso accampata intorno al fuoco di inaudite parole scintillanti aggredisce il silenzio e fa irruzione come un vento caldo che spalanca le rime doppie il suono dei metalli così della fiamma iniziale nell’incavo dei versi rifiutati l’eccidio dei pronomi personali (p. 22)
I moti e le andanze della poesia, i suoi modi di venire alla luce, la sua presenza-assenza materiano questi due testi che, portando a far coincidere poesia e linguaggio, dichiarano la consapevolezza di quanto la funzione-autore sia soltanto uno degli elementi della poesia-linguaggio stessa, di quanto tale funzione tenda a ridursi (se non a scomparire, “dileguare”) e tutto questo conferma la posizione assai moderna e aggiornata di Anna Chiara Peduzzi: definitivamente liquidata la solennità e la pretesa sacralità del poeta (quella che Marco Giovenale chiama “poesia assertiva”, quell’atteggiamento, cioè, che consiste nel sottinteso “io autore ti sto dicendo che”) Figure semplici si offre come il luogo-macrotesto nel quale la poesia-linguaggio non differisce dalle altre strutture e da nessuno degli accadimenti-fenomeni-varianze che danno vita al reale: «[…] vedi che è insignificante / nella catena delle contingenze / il gioco che s’inceppa indifferente» (p. 23) e
Dispiacerà ad alcuni l’impoetico intreccio vegetale che dietro la varianza rivela l’incessante lavoro di diairesi segui da ramo in ramo in pietre e quarzo le forme scalene i racemi sfrangiati schemi d’infiorescenze vedi come l’identico processo riforma - e l’occhio trascura - il profilo frattale ancora uguale (p. 24)
Accennavo in apertura di questo mio saggio alla funzione non decorativa né ornamentale degli elementi naturali nella scrittura di Anna Chiara Peduzzi; ebbene le trame sia visibili che invisibili della vegetazione e del regno minerale soggiacciono a leggi insite nella materia stessa, negano qualunque presenza ordinatrice esterna e metafisica, «[…] / non mentono un’eternità promessa / saranno pulviscolo molecolare / informi scarti / nella generale dispersione» (p. 25), per cui (ed è interessante anche una tale strutturazione dell’intero libro) ai primi sei/sette testi (un terzo dei totali ventuno) che tematizzano essenzialmente il nascere e l’attuarsi della poesia, quasi prologo che prepara il discorso successivo, segue il poetare intorno al tema dell’entropia del reale (e questo significa che anche il linguaggio e la poesia sono ostensi all’entropia del tutto), per cui la sfida ancora più ardua consiste anche nel dire, in poesia, l’impoetico.
È il moto del pensiero che entra in gioco, una riconsiderazione dell’antica dialettica (e diatriba) tra platonismo e aristotelismo, un’assunzione dei modelli geometrico-matematici e delle metodologie sottese alla loro formulazione quali funzioni del pensare e non quali assoluti:
Rifletti alla riduzione algebrica della vita ordinaria in diagrammi ogni punto in esatta rispondenza allo stato del mondo alla sua essenza non più estrarre col forcipe un senso ma disegnare a matita rette e curve e numerare il multiplo e l’immenso in figure osservando come il moto si azzera contro l’idea che si sdoppia che sempre è ed era (p. 26)
Non è diversa, sembra suggerire Anna Chiara Peduzzi, la poesia dalle matematiche e dalle geometrie contemporanee, dalla biologia. «[…] / non è il carattere che guida il nostro passo / ma agitazioni di cellule e membrane» (p. 27) e «[…] / la mente sola scompone l’avvenuto / libera i fatti dal fodero del caso» (p. 28); inoltre «[…] / è un moto d’elica o corda attorcigliata / questo rifarsi e sfarsi atomizzato / non è dato vedere il processo / ma solo il risultato» (p. 29) e, fondamentale,
[...] è una bella lezione di modestia stare in ascolto dell’infimo travaglio e dire questa fabbrica segreta sentire un alveare senza suoni chissà dove precisamente si forma la tristezza da quali impulsi nasce questo scritto (p. 30)
Azzardo che il libro (non diviso in parti o sezioni, privo di titoli interni relativi sia a gruppi di testi che a singoli testi) possa anche leggersi (ma seguo una personale suggestione derivante dalla tradizione poetico-filosofica presocratica) secondo una tripartizione in poetica del dire, fisica ed etica/psicologia dal momento che sono questi i grandi filoni tematici che, a sei o sette per volta e dalla prima all’ultima pagina, possono raggruppare i singoli testi; ovviamente con “etica/psicologia” intendo riferirmi agli ultimi sei o sette testi nei quali più pronunciata è la riflessione relativa all’esistere (sia umano che animale e vegetale), al rapporto con il male, ai modi del conoscere e del pensare.
Si considerino i versi seguenti:
Disperse o raggruppate si allineano le masse sotto i cirri lineiformi all’orizzonte non indistinte ma slavate forme che un difetto refrattivo discioglie in vaghe essenze dolce sarebbe e facile cullarsi nella conta triste degli assenti immergersi in un bagno d’immanenza e lì sostare senza peso e attrito mentre si compone il disegno esigente che sgombrando l’occhio all’ordine dei piani riduce la mente (p. 32)
Dall’interessante incipit (che potrebbe far pensare, insieme con altri passi del libro connessi a figure e luoghi della natura, a certi stilemi di Camillo Pennati), notevolissimo per eleganza e architettura prosodico-sintattica, impostato secondo rigorose linee percettive, si transita attraverso una situazione psicologica (il pensiero e la nostalgia per gli assenti), per approdare, tramite il nesso temporale “mentre”, a una riflessione sul percepire e il conoscere; si noti l’assenza di suddivisione strofica evidente, la quale ultima è affidata tutta alla scansione ritmico-concettuale (e questo vale per tutti i testi di Figure semplici), si noti la complessità sintattica (indice di un dettato poetico saldamente legato allo svilupparsi del pensiero), si noti la forza attrattiva dell’endecasillabo (non sistematico, ma presente e, comunque, modello per molti altri versi che gli si approssimano per numero di sillabe o che, di pochissimo, gli si allontanano), si noti la presenza delle paronomasie e di accenni di rima, si noti infine l’assenza totale di punteggiatura: questa medesima analisi metrico-formale può essere applicata a ogni testo del libro, scoprendo così una coerenza estrema anche a livello stilistico ch’è saldezza della dizione e delle strutture testuali.
E proprio questo controllo sulla sintassi e sulla forma, questa bellezza dello stile accolgono in sé il caos del reale, il suo non poter essere ridotto a “figure semplici” (per cui sospetto che il titolo sia nato per antitesi): «[…] / nell’assedio di piante e ramaglie / come giungla che impania / la bestia ansimante / si tronca la frase a voce spenta» (p. 33); «[…] / dire di un giorno l’improvvisa faglia / che disloca le labbra e fende il corpo / libera il mostro che reclama sangue / vita reclama e più nesuna mora / […] / mostro e captivo o forse solo infante» (p. 34) ed è estremamente interessante l’ambiguità di questi versi che potrebbero tematizzare sia l’emergere della malattia che l’appalesarsi di una gravidanza (non si dimentichi che monstrum etimologicamente vale “cosa meravigliosa”, “cosa che desta meraviglia”); «[…] / come un’introversa minaccia / crepitavano voci sotto gli aghi di pino» (p. 35).
Sei versi (seconda parte di un testo di 17 versi, l’unico che rechi la spaziatura strofica tra i primi 11 e gli ultimi 6) concludono il libro:
[...] così il presente duro non piega l’evidenza l’atto tramuta volontà in sapienza - saggia la forza e la sua resistenza - condanna a prese rapide dal vivo coscienza intermittente e abbarbicata ad attimi di pia chiaroveggenza (p. 37)
Scrivevo, infatti, di “etica” che, nel libro di Anna Chiara Peduzzi, coincide con la “sapienza”, con la “coscienza”, con la “chiaroveggenza”, vale a dire con la capacità di vedere con chiarezza, con lucidità, con consapevolezza non disgiunte queste ultime dalla pietas di evidente marca virgiliana e, se vogliamo continuare la riflessione sui riferimenti rintracciabili in questi ventuno testi, ebbene si può scorgere Leopardi per l’armonia di molti versi e di molte cadenze e per la postura salda, priva di ogni sbavatura sentimentalistica e patetica, Ponge per l’estrema consapevolezza nei confronti del mezzo linguistico e del suo rapporto con le choses, Bonnefoy per lo sguardo prospettico sugli spazi naturali e su quelli interiori…
Leggo che questo è il libro in poesia di esordio di Anna Chiara Peduzzi: mi auguro ardentemente di poter leggere in futuro un suo nuovo libro di versi; data la mia passione nei confronti della poesia mi accade di leggerne davvero tanta e di inciampare spesso in cose deludenti e insulse – Figure semplici è stato, in questi giorni, uno dei pochi libri in poesia capaci di guarire l’offesa che accuso nella mente quando incappo in libri che un giusto pudore (dell’autore e dell’editore) avrebbe fatto molto meglio a tenere come fatto privatissimo.