Liturgia d’acqua e di poesia
di Antonio Devicienti
Appaiono innumerevoli i modi e le direzioni in cui può appalesarsi la scrittura: e questo comprova che la ricerca letteraria è in piena evoluzione promettendo entusiasmanti approdi.
È entusiasmante il libro di Daìta Martinez Liturgia dell’acqua (Anterem Edizioni / Cierre Grafica, Verona 2021 – Prefazione di Maria Grazia Calandrone) perché avvince e convince con la sua struttura inedita da salterio medioevale che, apparentemente (ribadisco: apparentemente) eliminando quasi del tutto la tradizionale versificazione, si articola in blocchi di testo rigorosamente giustificati e disposti sulla pagina secondo una spazialità variabile – cerco di spiegarmi meglio facendo riferimento al primo testo dell’intero libro a pagina 11:
muovo indietro un momento dalle mani e c'è un albero di ciliegio anche s'è inverno e me di un silenzio distratto spoglio come viso sospeso nel cenno concepito d'ora fa dentro la credenza a pochi baci dall'acqua versata distanza chiara il salmo della sera
tutti e 6 i righi del testo posseggono uguale lunghezza tipografica (la formattazione di wordpress non consente una resa perfetta, me ne scuso e invito il paziente lettore a un piccolo sforzo d’immaginazione – quest’avvertenza vale anche per i testi che propongo alla fine di questo mio scritto), dando vita, visivamente, a un unico blocco compatto di testo, privo sia di maiuscole che di punteggiatura e isolato in cima alla pagina che in questo caso, dopo il testo, è completamente bianca; dal punto di vista ritmico-prosodico è possibile leggere il testo “tutto d’un fiato”, oppure ogni lettore può tentare una sua personale scansione, affidandosi a diversi elementi (senso, suono, ritmo…) che di fatto guidano o invitano, durante la lettura ad alta voce, alla versificazione – non si dimentichi che siamo innanzi a una “liturgia”, vale a dire a un movimento solenne e ripetuto di canto e che, forse, ogni blocco di testo raffigura (o suggerisce) un recipiente ricolmo d’acqua (per certi versi si può pensare a Vision and Prayer di Dylan Thomas o ai carmi figurati di alessandrina e poi barocca memoria, ma non voglio affatto con questo sminuire l’originalità e l’efficacia della proposta di Daìta Martinez, confermarne, invece, e l’appartenenza a una nobilissima tradizione e la capacità di rinnovare e attualizzare quella tradizione).
Un recipiente ricolmo d’acqua, scrivevo: l’acqua occupa uniformemente ogni parte dello spazio, ma, a meglio pensarci, l’acqua cela in sé un moto continuo e incessante di atomi, è capace di riflettere gli eventuali colori del recipiente, la sua trasparenza è il medium grazie al quale altro può darsi a vedere e l’acqua è presenza costante nel libro, anche in termini di occorrenza lessicale, per cui dalla canonica liturgia delle ore si addiviene qui a una liturgia dell’acqua che scandisce i momenti di una vita e non è un caso che in due luoghi del libro compaiano due date (“marzo 2019” a pagina 49 e “31 dicembre” a pagina 54 cui segue proprio l’ultimo testo di Liturgia dell’acqua), date senza chiarimenti evidenti, ma che sembrano rimandare con discrezione estrema a momenti o periodi importanti per l’autrice – ed è questa l’occasione per sottolineare come una storia personale che facilmente sarebbe potuta diventare autobiografismo è, invece, e proprio in virtù di precise ed efficaci scelte stilistiche e linguistiche, punto di partenza non narcisistico né autocontemplativo per un’opera che trasforma quella storia personale in atto poetico-linguistico.
Assai opportunamente Maria Grazia Calandrone scrive, infatti, che «Daìta Martinez procede per piccoli blocchi compatti, che all’interno contengono un mondo in moto quantico. Moto nascosto, perché chi scrive incide figure solide che non chiedono di essere capite, ma aperte come frutti di melograno e ascoltate» (p. 7); una liturgia, infatti, si canta (si celebra) e si ascolta, procede intervallata da pause (per questo in alcune pagine si leggono due o più blocchi di testo intervallati dall’asterisco o da righi bianchi, per questo compaiono talvolta, all’interno di un blocco, spaziature più pronunciate tra le parole, quasi pause di respiro e di pensiero) ed è, nel caso presente, laica liturgia di una storia personale che, ribadisco senza alcuna tentazione né alcuna caduta solipsistica e/o narcisistica, trova proprio nella strutturazione sia visuale che linguistica del libro la propria dignità e letteraria e concettuale.
Il libro avvince ed emoziona perché ogni blocco di testo promette e poi mantiene la promessa d’una scoperta ed è costante invito al lettore a concentrare grandemente la propria attenzione e, nello stesso tempo, ad abbandonarsi alle suggestioni dei suoni e delle immagini – perché la lingua italiana risuona nella e per la bellezza di uno stile che ne accoglie la nobiltà e la ricchezza estrema del lessico sottraendo quest’ultimo agli usi più vieti e offensivi e, portando a contatto elementi lessicali usualmente distanti, ne fa scaturire associazioni inedite e di rara forza inventiva – perché c’è un sentimento bruniano di mondi brulicanti di vita e di emozioni – perché l’amata Palermo, il cui nome ricorre due sole volte e con l’iniziale minuscola (alle pagine. 12 e 41, ma a pagina 46 viene citata piazza magione e nel testo conclusivo di pagina 57 via restivo), pervade, trasparente come l’acqua, i testi affollati dagli interni di una casa chiaramente mediterranea, da piante di basilico, melograno, ciliegio, limone, da un nome arabo come aziza (p. 51) (e la Zisa è, ancora oggi, uno dei fiori più splendidi di Palermo), da una «soave mezzaluna» (p. 25), da affioramenti del dialetto («e le sue labbra ammucciate sutta sta finestra di sciroccu» a pagina 41, ma anche a pagina 49 in intarsi all’interno dell’italiano che conferiscono bellezza ancora maggiore al testo).
Il libro di Daìta Martinez cattura e si fa ammirare perché è capace di proporre, inaspettatamente, una poesia lirica nel tempo antilirico per eccellenza e nel quale (e quanto spesso a ragione!) la cosiddetta “lirica” rischia di apparire ridicola o incapace di sostenere l’urto con il reale – Liturgia dell’acqua, invece, libro risolutamente sperimentale in quanto sperimenta forme inedite di scrittura superando ogni stilema ormai assodato, si dà questa sua rigorosissima struttura formale (anche, ripeto, letteralmente visibile ancor prima che lo sguardo inizi a leggere) nel cui interno c’è il brulicare dei mondi (dell’infanzia, dell’adolescenza, della maturità, di quando ancora non si era, di quando si addiveniva a essere) e la formidabile vibrazione della lingua. È la lingua-litania, la lingua-elenco, la lingua-generatrice d’immagini, la lingua-eco a far guadagnare credito a questa scrittura che, naturalmente intrisa di canto, viene come costretta in una forma che chiamerei ultrachiusa (la “criptoscansione” in versi costretta dentro i singoli blocchi testuali), ma che, anche in conseguenza di questo, diviene una sorta di faglia in moto perpetuo, si apre e riapre continuamente a significati nuovi e a visioni inattese.
la cruna dell'ago si ricama ruscello di gambi contadini la soave mezzaluna s'innamora sotto i portici il cardellino * sospingendo destini l'aria scodella le luci sul porto una stanza nel sonno si punge d'improvviso merlo del soffitto (p. 25) indipendente dormendo ascende l’argomento il particolare del no esistente dimentico da nessuno i minuscoli secondi l’intimità con qualcuno dentro la casa isolata e le pesche i fiori a cornice l’erba dalle palpebre cresce nascosta ai santi sulla piazza oggi poco fa si è accesa l’ultima lanterna e dalla strada assale l’infanzia del vento la precisa irrealtà di una distanza * la paura subito la paura si disfa dai rivolti la luna è bellissima (p. 37) d’una porta a bassa quota il colletto gira vite la silenziosità distante e leggerissima aria tra i cespugli quando è chiostro e fa ombra sulla panchina coi piedi battuti dal ferro degli anni e le sue labbra ammucciate sutta sta finestra di sciroccu mentre accoglie di maiolica i ritorni o i ricami di campana spostarsi la maniglia dal cuore perduto sull’orto a l’una corta il vicolo la ferita una riserva di limoni quando di scheggia si scodella rado il mare ché siamo soli premuti a primavera o era d’estate la paura a prendersi le gambe lasciando l’odore dell’acqua il nodo nudo sul tavolo la stanza una chiave sbucciata al seno mentri talìa comu sciddica ciatu e c’havi lu teatru di palermo sulla fronte arruffata un nascondiglio sulla piazza e non sapere quali intrecci avremmo bevuto dove legava un minuto la tazzina aderente sulla pancia il rumore in una riga di caffè una sola macchia contro la ringhiera le virgole dell’isola in questa forma carnosa del mescere tuttavia va via il seme dello scarto immobile toccando dal tramonto la costola dell’albero senza volerlo nasciamo allora (p. 41) il prato di latta ha margherite colorate nei sogni dei bambini attesi al ballatoio stesi su una minuscola foglia oltrepassata nella sera giù a piccoli gorghi di silenzio trema il tempo discorso in un fragilissimo inizio sul grembo affamato di altra luna cadente sul viso dove siedono i sogni dei bambini dopo la questua la preghiera e quel finire a mano il ricordo più lento odoroso vento con occhi della piccola grazia ribelle alle stelle pi n'anticchia di beni attummuliatu rina rina dintra 'a vucca ca scunta e nenti cunta di lu scantu risorto al venuto bacio i lividi rosa della rosa d'argento nascosta e riposta sul taschino dell'inverno prima del mare prima di andare ai sogni dei bambini (p. 49)