Ad limina scripturae: su “Misura del sonno” di Federico Federici
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Mi provo a riflettere sul libro di Federico Federici Misura del sonno (e altre ricerche verbovisive) / Maß des Schlafes (und andere verbovisuelle Forschungen) pubblicato da Anterem Edizioni / Cierre Grafica nel 2021, in termini di realismo, ma emendato tale termine, ovviamente, da ogni pregiudizio o definizione o collocazione storico-letteraria tradizionale o aprioristica; la res è da pensare, in questo caso, secondo le acquisizioni più recenti della fisica quantistica, delle teorie che muovono dal concetto di campo, di frattale, di onda e secondo gli avanzamenti di carattere teorico ed estetico delle scritture di ricerca, delle scritture asemiche, del visual poetry e del language poetry, nonché a partire dalle filosofie dell’interrelazione tra individuo e ambiente, tra linguaggio e psiche, tra percezione e conoscenza.
È in maniera originale e convincente che gli elementi naturali quali gli alberi, il vento, gli uccelli, l’acqua (tutti già presenti in una plurimillenaria tradizione di scrittura) affiorano nel metodo compositivo di Federici venendo a costituire anche questo libro che, coerente, prosegue le ricerche dei libri e delle opere precedenti; propongo infatti il concetto di metodo compositivo quale più efficace ed esaustivo che soltanto quello di scrittura perché Federico Federici andando oltre la scrittura in versi (pur senza rinunciare a essa), oltre la scrittura asemica, oltre la polifonia delle lingue, approda a una tappa ch’egli stesso definisce ricerca / Forschung – di conseguenza sarà necessario cogliere l’inscindibile unità dell’intero libro, comprenderne la coesistenza dei testi in italiano e della loro versione il più delle volte in tedesco, ma anche in francese e in svedese, comprenderne la strutturazione in testi verbali e in tavole verbovisive e, in taluni casi, puramente asemiche; infatti il realismo che voglio impiegare quale categoria descrittiva di questo libro consiste proprio nell’idea che linguaggio, scrittura, disegno e scrittura asemici, suono, spaziature, spazio costituito da una ripetuta diglossia (ribadisco: italiano-tedesco nella maggior parte dei casi, ma anche italiano francese in due casi e addirittura la triglossia italiano-tedesco-svedese in un caso) e spazio creato dalla compresenza di segni e di scrittura costituiscano e appartengano alla natura stessa dell’universo che abitiamo: un brusio costante che scaturisce dall’interazione complessa tra sistemi e allora Misura del sonno (ma anche Profilo minore di cui ho scritto qui e molte altre realizzazioni di Federico Federici delle quali ci si può fare un’idea visitando il suo splendido spazio Weißes Werk) non vuole soltanto rappresentare o descrivere quel brusio, ma vi appartiene, ne è parte in quanto opera del linguaggio e dell’occhio, del pensiero e dell’immaginazione – ecco perché fin dal titolo misura / Maß e ricerche / Forschungen risultano essere cardini dell’opera in atto, così come sonno / Schlaf in quanto il libro è, al tempo stesso, tappa di una ricerca, presa di coscienza del reale, parte costitutiva di quel medesimo reale perché frutto del linguaggio in atto e del convergere di segni differenti (non esclusivamente linguistici o alfabetici) e dello spazio onirico dell’inconscio. Ed ecco allora i Facsimili e altre registrazioni del sonno / Faksimiles und andere Schlafprotokolle costituiti dai due frammenti dei Papiri del sonno / Schriftrollen vom Schlaf (pp. 7, 8, 9) e dai testi in versi delle pagine seguenti: i “papiri” che richiamano, pur nella loro totale asemicità, la scrittura demotica egizia, aprono il libro con un preciso rimando storico-culturale a una radice necessaria del nostro presente anche in termini di enigma e di fascinazione per l’indecifrabile (o per l’indecifrato), associandosi al facsimile e al tedesco Protokoll che significa “verbale” e che etimologicamente deriva proprio dal nome dato al primo foglio cui venivano incollati via via i successivi a formare il rotolo di papiro e che recava il nome dell’estensore – stendere un verbale (o registrazione) delle fasi di sonno significa allora attraversare i territori dell’oscurità (anche quest’ultimo termine sia mondato da ogni pregiudizio di carattere morale e illuministico) e, dunque, dell’inesplorato, del nascosto, dell’inatteso, ma senza alcuna reviviscenza romantica e postromantica.
Parola in una bocca buia nido nella tenebra di un ramo che si fa albero, bosco, montagna, mondo. L’assoluta luce che governa il tempo e contorna il buio ha da questa parte un varco stretto per l’eternità: l’occhio che la copre illuminato. (p. 11)
Penso non sarebbe neppure errato parlare di una poesia de rerum natura e lucrezianamente in equilibrio perfetto tra osservazione razionale della natura e percezione della sua bellezza che viene, appunto, verbalizzata, protocollata – è bellezza che scaturisce sia dalla conoscenza della tramatura fisico-matematica del reale, sia dal portato di emozione che la conseguente bellezza di tale tramatura possiede; si noti infatti che il testo s’inizia proprio con “parola”, vale a dire con l’elemento fondante del parlare e dello scrivere e che la parola è situata “in una bocca buia”, con sinestesia oltremodo significativa e perfettamente in linea con uno dei filoni maggiori della poesia dell’ultimo secolo, con quello che vede la condizione umana essere gettata nel silenzio, nella tenebra, nell’abisso del senso e nel buio che avvolge ogni tentativo di conoscenza. Con un rapido movimento del pensiero e dello sguardo ecco poi che il ramo (“tenebra” per il nido) diventa “albero, bosco, montagna, mondo” e si tratta di versi che perfettamente esprimono, tra l’altro, una ricerca che Federici conduce da anni e che lo porta nei boschi, soprattutto appenninici, ma anche dei dintorni di Berlino, letteralmente a registrare non solo nei propri taccuini, ma anche con videocamere e microfoni i suoni e le presenze animali e vegetali che animano il bosco-mondo – è ancora il brusio del reale a venire indagato in un continuo sovrapporsi e incrociarsi di tecniche e strumenti. E trovo interessante che nella versione in tedesco della sequenza «di un ramo / che si fa albero, bosco, / montagna, mondo» e che suona «eines Zweiges, / der ein Baum, dann ein Wald, / dann ein Berg und die Welt» (sott. wird) “Baum” e “Berg” si richiamino per allitterazione e anche per la loro verticalità e che “Wald” e “Welt” siano, se pronunciati, pressoché uguali a meno delle rispettive vocali (in effetti un bosco è un mondo); dal punto di vista ritmico mi proverei a suggerire una lettura del tipo (mi scuso per la trascrizione estremamente rozza) derainbáum – dannainwált – dannainbérk – unddiiwélt nella quale sistematicamente ricorrono due sillabe consecutive con accento debole che preparano l’enunciazione della sillaba ad accentazione forte (e sempre del sostantivo); nella versione italiana rimarchevole è la forte allitterazione montagna-mondo. È qui anche questione di “luce” e di un “varco stretto” (“fester Durchgang” in tedesco, alla lettera “passaggio, attraversamento, varco solido, fermo”) e di sguardo (“l’occhio / das Auge”), per cui ben si comprende perché le due pagine immediatamente successive ospitino due opere verbovisive, Il varco di Tiresia e Tiresia’s gate, affrontate e che costituiscono un dittico le cui due ali sono perfettamente sovrapponibili e che, tra le maglie della loro complessa struttura a griglia ospitano l’una parole in italiano l’altra in inglese (di Tiresia’s gate ho già scritto qui) riferite al concetto di buio, di passaggio, di corrente d’acqua, di schiuma: ma sono soprattutto in gioco i concetti di cecità e di veggenza (e, anche, di pre-veggenza) riferibili a ogni ambito possibile del reale (esistenza, indagine scientifica fisico-matematica, filosofica, linguistica, scrittura, neuroscienze…), così che il sonno acquista l’ulteriore valenza di esperienza esistenziale e conoscitiva malgrado e, contemporaneamente, proprio in virtù della “cecità” (l’occhio non vede il mondo esterno, ma ne scorge uno interiore) e il varco o “gate” traverso cui passa Tiresia-cieco-e-dormiente immette nell’altro lato del reale; non per caso, inoltre, quella che ho chiamato “l’ala sinistra” del dittico sembra disegnata en grisaille mentre “l’ala destra” è in pronunciato bianco e nero: cancellate, figurazioni di schede-madre (molte realizzazioni simili di Federici sono intitolate proprio Motherboard) o di circuiti elettronici stampati, forse anche Sprachgitter di celaniana memoria, queste realizzazioni verbovisive sono aperte a più interpretazioni indotte anche dalla sensibilità e dalle esperienze di chi le studia e perfettamente coerenti con la fluidità e l’enigmaticità insite nel reale e predominanti nello stato di sonno (e di sogno).
E infatti:
Sono chiuse le pietre, l’invisibile impenetrabile. Sentiero di pietra nel buio, l‘inconcepibile (p. 14)
E c’è qualcosa del fascino e della verità dei frattali nei versi a pagina 15: «Nella pietra / il peso di una montagna intera» anche perché il distico «L’intera realtà / – una parola annegata» (p. 16) pone ineludibile la questione dell’indicibilità ditutto il reale, della sua impenetrabilità: «l’invisibile impenetrabile» di pagina 14 sembra trovare nel tedesco una cadenza ancor più tragica: «und das Unsichtbare ist undurchdringlich» con il primo, forte accento che cade su entrambi i prefissi privativi “un-”, ma che perfettamente consuona con le due parole sdrucciole italiane (“invisibile”, “impenetrabile”).
Fiore di nuovo richiuso il vento non è la tua chiave. Da tempo, non comanda il tuo giardino una parola che ti interroga come altri hanno fatto prima di me. (p. 17)
Dal mondo naturale provengono i prelievi lessicali e visivi di Federici, ma anche su di una linea di continuità forse con la poesia di Camillo Pennati e di Pier Luigi Bacchini e innovando in modo radicale una tendenza classica della poesia in lingua tedesca, ovverosia la Naturlyrik – e certo, costante e fondamentale è la presenza della neve e del bianco, della pietra e del buio elementi tutti che rimandano direttamente a Paul Celan e al suo magistero. Non si tratta di descrittivismo o di evocazione, bensì di un processo conoscitivo che si sviluppa e dirama consapevole dei propri fallimenti, mancanze, insufficienze; e se pure in questo caso si legge il testo in tedesco si constata che “comanda” è reso con “regiert” (“governa”) e che il soggetto del verbo è “kein Wort” (“alcuna parola”) e l’oggetto “deinen Garten” (“il tuo giardino”), per cui (e mi preme sottolinearlo) non bisogna assolutamente cadere nell’equivoco di considerare i testi in tedesco come mera traduzione, ma parte essenziale e irrinunciabile dell’identità stessa di ogni singolo testo sia perché talvolta i versi in tedesco completano o variano leggermente quelli in italiano, sia perché appartiene alla natura stessa di Misura del sonno questa pluralità di lingue e di direzioni, anche perché è la stessa “lingua del sonno” a essere almeno bifida, risonante di echi.
Dietro la nebbia, la montagna. Dietro il pensiero, la cosa pensata. (p. 18)
Nell’impressione di essere innanzi a un cammeo di poesia cinese o giapponese si cela la laconica e lapidaria constatazione (oserei definirla d’ispirazione heisenberghiana) della distanza incolmabile tra percezione e oggetto della percezione, tra pensiero e oggetto del pensiero, la misura (dalla quale scaturisce la scrittura stessa) di quanto inattingibile resti la conoscenza diretta del reale, ma anche della consapevolezza di una tale impossibilità.
E se la tavola verbovisiva di pagina 21 si chiama First line of dark e riproduce l’addensarsi sulla pagina delle parole e delle linee di scrittura battute con una macchina per scrivere Olivetti (strumento di scrittura quest’ultimo usato in queste e in molte altre precedenti tavole), linee di scrittura che recitano proprio “first line of dark” è perché Misura del sonno non è solo un susseguirsi di testi in versi, ma uno stratificarsi di testi di diversa natura e forma e la lettura del libro non è solo quella abituale, ma si amplia ed è necessitata a orientarsi in direzioni che fuoriescono dal tradizionale moto dello sguardo (il quale, lo si sa, si muove da sinistra a destra, rigo dopo rigo dall’alto della pagina verso il basso) e che corrispondono in pieno ai modi che le più recenti acquisizioni della fisica propongono ed esigono per una “lettura” sempre più corretta e realistica sia della dimensione macroscopica che microscopica. Accade (e deve dunque accadere) che ogni tavola verbovisiva nel medesimo tempo inviti e costringa l’occhio a muoversi cercando i punti focali, valicando quello che appare al primo sguardo, collegando e destrutturando, prendendo in considerazione i rapporti spaziali, grafici, verbali, scoprendo che, come la tramatura del reale, anche la tramatura del testo non verbale oppure commisto di parti verbali e di parti non-verbali è complessa, sfuggente, enigmatica, capace di rinnovarsi o mutare a ogni nuovo accostarsi a esso.
Ecco allora che versi come «Vorticano astratte / miniature di astri / insetti / spiriti / e universi ventosi / agli angoli delle stanze » (p. 23) costruiscono un ponte diretto con Profilo minore (soprattutto con la prima parte) e anche qui dicono della nostra immersione totale nel reale, venendo letteralmente accostati sulla stessa pagina a questi altri versi: «(l’insegnamento / degli ingrandimenti / riguarda anche i ciechi)» che in tedesco suonano così: «(die Lehre / von Lupen und Linsen / gilt auch für Blinden)» – “Lupe” è specificamente la lente d’ingrandimento, “Linse” è la lente (anche degli occhiali o del telescopio oppure del microscopio) e siamo di fronte a una sorta di variatio che rende l’italiano “ingrandimenti”, ma che cita, in tedesco, gli strumenti concreti della vista e dell’osservazione, quelli che dovrebbero aiutare a vedere sempre più dettagliatamente e che, secondo l’insegnamento di Heisenberg, interferiscono con il fenomeno osservato alterandolo.
Nelle pagine 24 e 25 ecco il “Canto CXVII”, ancora due tavole verbovisive affrontate che sviluppano il tema del chiaro-scuro, della limpidezza, dell’occhio anche ricorrendo a inserti di testo in italiano, inglese e tedesco; in qualche modo siamo nel centro anche fisico del libro e le due tavole sono determinanti in sede di teoria dello scrivere e del percepire: all’interno di quelle che somigliano a linee di scrittura a mano, ma indecifrabili, e del classico schema a griglia si legge chiaramente: «quando scrivo / un (…) / l’intera questione di (ecc.) / questo è rumore granuloso + 3: / LIMPIDEZZA LIMPIDEZZA / le parole sono materia che si stampa: / geometria dell’occhio + / geometria dell’orecchio =». Saremmo dunque di fronte al frammento di un ampio poema suddiviso in canti ma nel quale, ovviamente, la presunta (o pretesa) onniscienza del cantore viene meno, infrangendosi contro i grovigli di buio e d’impenetrabilità del reale (e, non lo si dimentichi, del sonno), affiorando per frammenti e baluginii, invocando una “limpidezza” cercata e sfuggente; e “Canto CXVII” è evidentissimo rimando all’ultimo dei Cantos poundiani rimasto allo stato di pochi appunti, sancendo così l’incompiutezza dell’intera opera; ma quella di Federici non è la registrazione di un fallimento, bensì la presa d’atto di una situazione dalla quale e malgrado la quale muovere possedendo coscienza di un materialismo riconosciuto ed esercitato, ché rumore e visione si dispongono secondo geometrie parallele e concomitanti, la “granulosità” del rumore stesso riporta a quel brusio di cui scrivevo in precedenza.
In che direzione si getta il sonno, a che profondità? Con che ampiezza? Sonno sonoro sonaglio […] (p. 33)
Misura del sonno è libro in incessante movimento (così come lo è il reale) ed è libro sonoro: altrettanto pregnante l’effetto dell’allitterazione nella versione tedesca «Schlaf / Schall- / Schelle» (alla lettera “sonno / suono – / campanello” oppure “campanello di suono” ma ci si accorge subito dell’efficace resa della triade in italiano condotta cercando e trovando affinità sonore più che lessicali) – in entrambi i casi il sonno / Schlaf contiene in sé il “sonoro sonaglio”, cioè la “Schall-Schelle” confermando quanto Federici lavori anche sui fonemi che, lucrezianamente combinandosi e ricombinandosi, fanno scaturire nuovi aggregati di senso.
In sovrappiù attraversano il libro i motivi conduttori della cicatrice – «Il filo del sonno / cuce cicatrici di luce» a p. 32, «Sonno: / cicatrice del risveglio, / palpebra del buio» a p. 33 – e della soglia – «Sbocciano / gli occhi dal sonno / gemme dopo il temporale / domande / alla soglia dello spirito / dove attecchisce il mondo» a p. 30, «la morte // che misura le soglie» a p. 34, «Nel fiato del sonno / oltre la soglia segreta / l’anima soffre» p. 36 (là dove “soglia” è resa in tedesco ora con “Schwelle” ora con “Saum”, vocabolo quest’ultimo che significa alla lettera “orlo”); torno a indugiare anche sulle versioni in tedesco perché esse sono variazioni, o meglio slittamenti lessicali e concettuali determinanti all’interno del testo nel suo complesso (e d’altro canto nulla impedisce di leggere prima il testo in tedesco e poi quello in italiano…); il testo non è definitivo né imbalsamato in un’impossibile e inutile sacralità, lo stesso movimento che costituisce una sorta di basso continuo dell’intero libro veglia-sonno e viceversa appartiene a pieno titolo al divenire incessante del reale, a uno scorrere continuo (da qui l’altro tema dell’acqua e, appunto, del suo fluire).
Laura Caccia scrive per la quarta di copertina una nota di grande bellezza e verità, una perfetta prosa poetica che in breve e denso spazio coglie le identità profonde del libro di Federico Federici; Laura fa, tra l’alto, un giusto riferimento a Paul Celan e da parte mia riconosco i sigilli celaniani di un dire che guarda e ascolta l’indicibile e l’impenetrabile, che ne subisce le sconfitte con consapevole coraggio, che si trasforma in lacerti di scrittura asemica, in griglie d’inchiostro nero, che non ignora abbandoni lirici di grande bellezza:
La betulla battezza la neve nuova. Il cervo venuto dal sonno non cancella le tracce. Lo segui perché sa il tuo nome. anche tu venivi dal sonno. (p. 35) Anche i fiocchi turbinanti nel sonno frastornano i pensieri. L’intero sonno è un paesaggio di metafore innevate in pugno ai venti. Un bianco che ferisce. (p. 46)
A ben pensarci, infatti, il tempo del sonno e l’attività onirica occupano una parte notevole del vivere, immagini e situazioni del e nel sonno sono cariche di un portato simbolico di determinante importanza anche per e nello stato di veglia; di conseguenza la grande balena che si materializza nei versi di pagina 37 («Notte – / un cardiogramma le onde / di balena addormentata») e nelle tavole verbovisive delle due pagine successive è il corpo del mondo o, comunque (come già la pietra rispetto alla montagna) «una parte del mare» (p. 38) – «(A giudicarla dal mare / soltanto non si può dire / sia falsa / o sia vera)» si legge sempre a pagina 37 ritrovandoci in tal modo per l’ennesima volta nel cuore dell’ardua questione cognitiva, perché il Canto di balena addormentata / Chant of a whale asleep (pp. 38 e 39), che potrebbe alludere in qualche modo anche al cosiddetto paradosso “del gatto di Schrödinger” (anche la balena di Federici sembra, nello stesso momento, viva e morta, esistente e non esistente, quindi contemporaneamente congetturale e reale), torna a porre il problema degli strumenti d’indagine conoscitiva e dei sistemi linguistici, grafici, simbolici necessari per rappresentare l’atto stesso della conoscenza e i suoi risultati, un realismo perfettamente cosciente della propria approssimazione e congetturalità e che non può non avere ricadute anche in sede estetica:
nel frattempo è addormentata morta nella sua porzione d’acqua ferma respira
così che si sviluppa il tema del respiro, dei polmoni, ripreso e ulteriormente variato anche nella terza tavola verbovisiva (p. 40) il cui titolo (Geometrische Formen zwischen den Armen / Forme geometriche tra le braccia – Es bringt dich um den Schlaf / Ti toglie il sonno) rimanda alle «costole che dormono / costole addormentate» e alle numerose variazioni intorno al tema delle “costole / ribs” contenute nella stessa tavola, forme geometriche, appunto, le quali, dando vita alla gabbia toracica (posta tra le due braccia) ospitano i polmoni, sede del respiro. Sono persuaso che Virate del respiro (Atemwende) siano tutte le combinazioni che la balena addormentata (la quale però, allo stesso tempo, «non riesce a dormire / non riesce a morire» sempre a p. 38) esperisce: «polmonipienidiacqua / […] / polmonipienidiluce / polmonipienidibuio / polmonipienidiventi / polmonipienidialghe / alghepienedionde / alghepienedibalena» (p. 38); la balena stessa sembra essere a sua volta un’immensa cassa toracica, il che significa anche cassa di risonanza e, inoltre, la connessione tra sonno e acqua potrebbe rimandare alla condizione prenatale, alla memoria inabissata o sopravvivente a livello onirico della comune origine acquatica; non meno cogente è la concomitanza tra sonno e morte, tra lo stato organico e quello inorganico.
È un paradosso il fatto che stiamo attraversando da svegli un libro che appartiene al sonno – oppure si tratta di un libro circa l’impossibilità di comporre un libro in stato di sonno dal momento che il libro può materializzarsi sempre soltanto dopo il sonno, figliato dunque da una distanza che è misura di sé stessa e dei due stati della mente, la veglia e il sonno, complementari e in costante interscambio.
La ricerca di Federici è, allora, questo realismo che fa continuamente i conti con sé stesso, ivi comprese le proprie mancanze data l’impossibilità di cogliere la res in maniera esaustiva sia perché essa oppone resistenza sia perché i mezzi conoscitivi sono insufficienti oppure costringono a continue approssimazioni («mondo indistricabile / delle cose mai dimostrate, taciute» p. 45) – di conseguenza la scrittura stessa, alfabetica o asemica che sia, si manifesta per lacerti, schemi, appunti, sovrapposizioni finalmente negando e contraddicendo il mitologema di una supposta “perfezione” cui dovrebbe giungere l’opera d’arte in base all’equivoco di carattere metafisico o spiritualista decisamente fuorviante e inaccettabile.
Il testo stesso, a sua volta de-sacralizzato, riceve e subisce la piena materialità di un atto quale può essere quello, per esempio, di versare sulla pagina del liquido che va a far sbavare, in parte cancellarsi, in parte velarsi l’inchiostro: ecco dunque la grande tavola che occupa totalmente le pagine 42 e 43 e cui fanno da preludio i versi di pagina 41 (“le parole sono materia che si stampa” come già sappiamo da pagina 23):
Su questo foglio: macchie della materia liquida dopo l’anarchia del sonno. Si può distinguere: il movimento dall’azione dell’acqua lo sviluppo la disidratazione del sonno l’impossibilità di risvegliarsi altrimenti.
Nel «frastuono del marchingegno onirico» (p. 47) ecco «sordo rimbombo di parola / su cui cade ombra il pensiero» (ibidem) ed è interessante come la versione in tedesco («so rau dröhnt das Wort auf das / ein Gedankenschatten fällt») faccia corrispondere al sostantivo “rimbombo” la voce verbale “rimbomba” e premetta l’articolo indeterminativo al composto “ombra di pensiero”, proponendo anche in questo caso leggeri slittamenti che rendono il testo al suo stesso interno mobile – si tratta, anche, di un antagonismo «contro il potere del mondo», cioè «gegen die Weltgewalt» (p. 49) e anche in questo caso il testo tedesco fa “slittare” la carica semantica dell’italiano, ovvero chiosa l’italiano in quanto “Gewalt” è, alla lettera, “violenza”: potere anche in quanto atto di violenza.
Misura del sonno si chiude con un’immagine di neve («[…] // Una parola infine. / Una parola che punge. // Neve nella neve / che il freddo separa» p. 51) e con due tavole verbovisive, l’una è, di nuovo, Tiresia’s gate ma profilato, in bianco-grigio, su fondo nero (si direbbe ottenuta riportando il calco impresso sulla pagina nera di un foglio di carta carbone) e l’altra, intitolata Beim Erwachen / Al risveglio, che suggerisce il dissolversi, il “gocciare via” del sonno, visto che l’usuale “griglia” di Federici si dà a vedere in dissolvimento, grandi gocce come d’inchiostro nero sembrano scivolare lungo di essa dall’alto in basso cancellandola e solo la parola “light” è leggibile in due punti, minuscola, quasi invisibile, ma presente, sorta di contrappunto al Tiresia’s gate che, viceversa, immette nel buio, ma di nuovo in connessione con Profilo minore in cui molte pagine sono dedicate proprio alla luce.
Misura del sonno va, come ogni opera di Federico Federici, ben oltre le comode abitudini di lettura indotte e cullate dalla stragrande maggioranza delle case editrici, obbligando a un cambio di paradigma radicale, a una visione finalmente adulta del reale e della sua misurazione. Questo libro ci conduce ad limina scripturae varcando soglie che immettono in altrove molto vasti e tutti da esplorare (erforschen oppure erkunden direbbe la lingua tedesca…)
L’ha ripubblicato su WEISSES WERK.