Breve nota all’     “Inquilino delle parole”     di René Corona

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

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          Il libro in poesia di René Corona L’inquilino delle parole (Book Editore, Riva del Po 2022) propone un esercizio intelligente, raffinatissimo, oltremodo consapevole della letteratura intesa nel suo senso più alto: e la poesia scaturisce proprio (luminosamente negando il devastante, idiota pregiudizio romanticheggiante di poesia quale “espressione spontanea del sentire e dell’io” e di “ispirazione”) da una profondissima conoscenza degli autori, dei loro testi, delle tecniche compositive, degli accorgimenti retorici. E utilizzando una scrittura  derivante dalla musica René Corona smonta e rimonta i propri testi, riprende, varia, talvolta ironizza temi e stilemi, inventa giochi di parole, sempre, come per un sentimento pessoano dell’immaginazione, muove alla commozione o al sorriso proprio in virtù di quest’amore totale per la letteratura, di quest’estrema lucidità e consapevolezza nei confronti dei materiali linguistici, dei temi conduttori, delle strategie espressive. 

          Che ogni testo possegga un esergo d’autore non è mania citazionista o esibizione di cultura, ma necessario e necessitato punto d’avvio al testo che si dipanerà, poi, originale e personale accampandosi sulla pagina con arguzia, o con lieve malinconia, o con sottile ironia, o con pensose cadenze, oppure con giocosa allegria, o con calibrata sentenziosità.

          Un inquilino abita una casa pagandone l’affitto, mai possedendola, consapevole di poterci vivere per un lasso limitato di tempo e, per dir così, “in punta di piedi”: e allora ecco questo libro che è un libro d’amore dichiarato alla scrittura, alla poesia, alla letteratura, ma anche un atto (rarissimo) di umiltà proprio nei confronti della letteratura, della scrittura, della poesia perché René Corona intesse un fittissimo dialogo con i suoi maestri, rivela quello che non è semplicemente à côté della sua attività di studioso, ché esistono due scritture, direi, che in costante interscambio si nutrono a vicenda (quella del saggista e quella del poeta) e non stento a credere che l’una perirebbe di asfissia senza l’altra e viceversa.

          Occorrono infatti incondizionato amore e grande umiltà per scrivere un libro che, testo dopo testo, perlustra la casa della letteratura (e della vita) festeggiandone emozioni e malinconie, nostalgie ed entusiasmi, vezzi e malvezzi – c’è una sottile malinconia in questo libro perché l’infanzia (l’età della rivelazione e della scoperta) è irrimediabilmente lontana e perché il tempo del vivere passa, ma anche una ritornante incontenibile allegria che scaturisce da musiche e da testi amati e dall’invenzione stessa dello scrivere; c’è l’ironia e l’autoironia di chi conosce bene il mondo della letteratura, c’è il senso della profondità cronologica e storico-letteraria, c’è la fascinazione delle affinità elettive con certi testi e con certi autori e c’è un lieve, accettabilissimo autobiografismo (e intendo dire qui che la materia autobiografica viene filtrata, sorvegliata e liberata da ogni rischio o caduta sentimentalistica proprio attraverso l’estrema consapevolezza dell’autore e dello studioso di letteratura).

          Scrive René Corona nel testo eponimo del libro: «prendo in affitto le parole / e come un giocoliere maldestro / come il clown di Théodore de Banville / che saltando vola via / le lancio verso le stelle / affittuario pure del cielo e delle nuvole / le mie stelle / […] / e con le parole degli altri prese in prestito / con l’aiuto del grimaldello / di sillabe operose e pallide / assorte nella contemplazione del dentro / e della poesia / in tutta la sua splendida scrittura / l’inquilino delle parole / tenta di offrire qualche ragguaglio / non risposte certe comunque suggerimenti / – la vita è anche questa – / ma non viene quasi mai compreso / solo da pochi / che sanno guardare l’ontano lontano / ad un passo da qui / mentre si china verso di te / per qualche confidenza» (pp. 43 e 44). L’iperletterarietà è, in questo libro, ragione stessa dello scrivere (non vizio come più volte si afferma) perché coincidente in tutto e per tutto con l’esperienza esistenziale, con le ragioni medesime dell’esistere, che, in questo tempo che ci è dato di vivere, è consapevolezza piena di sistemi, di strutture, di strategie del dire e dello scrivere – un’iperletterarietà che, ribadisco, non disturba e non è mai fuori posto, ma che appartiene, al contrario, a una naturalezza dello scrivere se può accadere che molti versi sappiano suscitare commozione o complicità, se mai si percepisce snobismo né esibizionismo; continua a essere un fraudolento luogo comune quello che pretende di riaffermare una “spontaneità” della poesia, là dove, invece, l’hypocrisie del lecteur di baudelairiana memoria è coscienza modernissima dell’atto poetico, delle sue implicazioni, motivazioni, movenze, della sua bellezza inscindibilmente radicata nell’esistere.     

          Intelligente e partecipata è la Prefazione di Claudio Piersanti e ha suscitato in me un grande piacere ritrovare nel libro, complici di René Corona in poesia e in umanità, i nomi di Daniela Pericone e di Alessandro Quattrone. 

(In apertura particolare della Morte di Procri di Piero di Cosimo).   

 

et in Arcadia ego

«dites-moi que bientôt je tournerai dans les airs
comme samares de tilleul»
      Jean-Baptiste Para, Une semaine dans la 
vie de Mona Grembo

le disamare degli aceri sicomori
cadono dalle stelle alla terra 
con un turbinoso movimento di pale di elicottero
i bambini rimangono incantati da questo cadere
e le lanciavamo nel vento
a più non posso
mentre guardavamo anche cadere la sabbia
nella clessidra
e il tempo che volteggiava
nei turbinii delle sfere misteriose

disamare significa anche andare verso il basso
lasciando una scia di lacrime amare
l’uomo disamorato è disarmato 
di fronte alla vita sociale
è come un mese di settembre senza pioggia
o un natale senza grossi fiocchi di neve

amare disamare le disamare amare
staccare le marre amarare sul mare ancorare accorare
echi che si rispondono nella memoria
rumori di fondo
dolori
(p. 97)



fulmine a ciel inquieto


«Ils entrèrent dans la solitude de la pluie»
              Jean Giono, Le chant du monde

toccare tutte le corde della viola d’amore
per celebrare il tempo passato
e il nostro incontro in quella classe buia
mentre fuori il vento di ottobre
sferzava le foglie e la pioggia cadeva
sugli ippocastani malinconici
la maestra dettava appoggiata alla cattedra
sonnecchiavo vicino al termosifone ronzante
guardando dal vetro rigato l’imbrunire
delle parole
un angelo passava
eri intenta a sedurmi affascinarmi
rapirmi per sempre rapinare le mie certezze   
rendermi il tuo schiavo amoroso
un sorriso triste sulle labbra
un gesto antico un volgere le pagine
fino alla fine dei tempi
e del capitolo
(p. 152)



tornanti

«Autunno. La luce che scendeva dal cielo
diventò scura sulla città.»  
                  Henry Green, Vivere
i lunghi stradoni con grandi tornanti
da capogiro con le scritte viva la classe
W Dancelli e Bitossi mezze cancellate
salgono verso l’alto verso le nevi eterne
e gli ultimi manifesti defunti e cinema sociale 
vengono strappati dal fare curioso del vento
che vuol sapere cosa c’è dietro 

vite mezze cancellate e strappate via
(p. 184)