Leggendo “Bianco Guglia” di Paolo Fichera

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

      tillmans-italian-coastal-guard-flying-rescue-mission-off-lampedusa-2008

 

         Quello cui Paolo Fichera dà forma nel libro Bianco Guglia (Genesi Editrice, Torino 2022) è un poema articolato in 15 parti il quale, in continuità con Figura (Musicaos Editore, Neviano 2019), attua un’idea chiara e senza compromessi della scrittura in poesia: rifiuto reciso di qualunque registro medio-basso e/o colloquiale, concezione di una scrittura in versi che si ponga sempre (e, mi sembra di capire, con fierezza) quale altra rispetto a qualunque linguaggio contemporaneo perché essa rivendica uno spazio all’interno del quale il discorso cerca costantemente di distanziarsi dalla quotidianità quando quest’ultima è penuria spirituale ed espressiva e si vota con coraggio e con una scelta probabilmente controcorrente verso quelle che potrei chiamare figure archetipiche: l’acqua, la voce, il sangue, l’angelo, il seme, (non a caso titoli anche di alcune parti del libro e nuclei tematici a partire dai quali e intorno ai quali Fichera intesse variazioni e fughe anche in senso strettamente musicale), la guglia stessa, la rosa, la casa, il mare, la neve… 

        Nell’apparente ermeticità di taluni passaggi, figure, espressioni, nelle atmosfere rarefatte o enigmatiche, mai pacificate, mai rassicuranti, accade, invece, qualcosa di peculiare e molto, molto interessante: l’intero libro è dedicato a Vladimír Holan e, dunque, Bianco Guglia vuole anche raccogliere l’eredità del maestro praghese, poeta di culto in Italia qualche tempo fa e oggi forse obliato, se non fosse per i pochi che ne continuano (che ne continuiamo) a leggere e amare i testi difficili e oscuri, ma in senso direi celaniano – l’oscurità non è mai gratuita o forzata, ma connaturata al mondo stesso, essa sostanzia e determina il nostro stesso vivere: la scrittura non la elude, ma vi affonda con temeraria consapevolezza.

        In tal senso mi piace leggere questo libro come un itinerario ascensionale dal buio e dalle tenebre verso il biancore dell’elemento architettonico più alto, la guglia appunto, mentre che Bianco Guglia non teme di essere anche un attraversamento cerimoniale (e periglioso) del buio e del male, un confronto continuo con la morte, un reiterato sottoporre ed esporre la parola alla prova dell’indicibile o dell’impronunciabile, al pericolo della sua vanificazione, del vuoto di senso.

        Holan docet, dunque e Paolo Fichera cerca la poesia come momento abissale dell’esperienza umana, del conoscere, dell’amare, del perdere, del cercare, del sentire il tempo e l’ignoto. Ed egli non è solo se, leggendolo, penso ai versi bachmanniani intitolati Nella bufera di rose dove rose, spine e rombo di tempesta raccolgono in pochi, incisivi versi (cui Anselm Kiefer consacra dipinti di rara potenza espressiva) la vicenda umana ostensa all’urto con la storia e con la violenza, o se l’angelo mi riporta ovviamente a Rilke e alle Elegie duinesi, se l’emozionante sequenza della sezione Bolgia mi fa pensare senz’altro alla Commedia, ma anche all’inferno raffigurato nel mosaico otrantino e certi tesi passaggi che portano il linguaggio alla lotta corpo a corpo con la rovina e la minaccia sembrano echeggiare della musica di Carlo Gesualdo che è corda tesa (fino a rischio di spezzarsi) tra fede e disperazione, tra suono e silenzio mortale, tra invocazione del nome di Dio e sua incolmabile lontananza.

        Immagino l’impegno e il continuo dubitare che hanno accompagnato Paolo durante la stesura di un libro come questo, la consapevolezza di affidare al linguaggio un attraversamento periglioso e a continuo rischio di fallimento perché è facile che il verso si accartocci su sé stesso, che si depotenzi in estenuanti quanto insignificanti immagini o espressioni, che giri a vuoto – invece il verso libero dà vita qui ad agglomerati di testo che sanno aderire alle differenti esigenze espressive, che tra rientri e spaziature, salti strofici e figure di suono intesse una sorta di cattedrale (tanto per richiamare un’altra figura-concetto cara a Paolo Fichera) di musica e di parole di notevole complessità e sapienza compositiva e che invita a percorrerla (ad ascoltarla) dal basso verso l’alto, in profondità, cercandone i luoghi più riposti, vero e proprio “trialogo” (così s’intitola una delle raccolte holaniane) tra chi scrive, l’abisso del mondo e chi legge.

 

santa-lucia_del-cossa_washington

 

 

Ombra risorta s’incorona fiamma
salma del nome tra le cose, quando
dalla vista un acuto e mai sfinito
dono, risuona per sua vocazione.


A ogni taglio figura nasce incisa
mano, preesiste la morte all’immagine
data. Linee irriflesse rigenera
in fiamme per sangue, tra lama e aria.

(p. 15 dalla sezione EVENTO)








nell’opera che travalica la sua notte
disabitato è il grido che scisse
l’idea dalla sua fenice.
avvinta alla voce
vibra in cerchio l’unione
d’aquila, eternamente
precipitata, oltre la sua fine.


coesa al presagio minerale
s’avvera, in fiato, l’immagine

(p. 28 dalla sezione VOCE)








tempi bui imperversano
incompiuti.
siero per linfa a disporre del seme.
abitata battaglia
ogni stele accorda luce con buio.
scorge ombra, l’occhio adagiato
nel grembo. l’estremo vivo ha passi.
sia vicino ai morti il legno d’acero,
l’inviolato paesaggio tra mani
nel bosco, ai soli vivi.

(p. 41 dalla sezione SEME)








Avremo perdono in questo campo 
così spoglio, così povero di stagioni?
La musica trattiene i gemiti
filigrana di chi, trascinato nell’ombra, 
dimentica i propri passi nell’acqua.
Guardi l’inudibile tra la neve e scopri
quanto rumore dà l’urto del dono
sul visibile informe, quando tutto
è sostanza di un’idea che ti lega
e ti apre, come s’apre lo sguardo
a fronte d’un fiume, ignaro di te.

(p. 50 dalla sezione VASO)








1
fruttifica la bolgia
apiario di sirene
fortifica il battito, sente dolore
la pietra redenta dall’acqua,
solidifica la lotta l’erbario
in scarti di felci


                        nel cerchio, il tavolo stava,
a contatto, in noi, l’immagine mai data, ferrea 
per altro intendimento, il confine
varcato:
                   è: incidere il volto di dio
tra bende e legno. Tra retta via e guarigione
la luce accede al firmamento, accresce
l’adunata dei primi suoni. “Non
questi suoni”
avanzano


l’evento del fuoco, immaginato
dal tempo, nell’ora pensata, sottrae
origine al grembo antico. Scioglie
fili, perline, ricordi marini:
dissepolte vite. Colpi d’ascia
disvelano mosaici velati. Uncini
ovunque
[...]

(p. 59 dalla sezione BOLGIA)








accade come nulla accade
radice, ombra di meridiana
- morte:
vita esposta, polline
di simbolo, sale

(p. 71 dalla sezione POLLINE)








sollevati nel rito incessantemente
cadiamo come goccia
sfaldata nella durezza apparente
del ghiaccio. nulla cade per essere abbandonato. 
il ritorno, dalla morte, affratella.


il rito fissa lo spazio dello sguardo nel tempo

(p. 77 dalla sezione SANGUE)








Angelo (è lama) che
germoglia nella vena
semina celeste l’occhio
(a terra), carapace,
teschio bifronte.
Due volti.
Due le morti promesse.
Come tracce notturne
assediano neve
il volto intona
l’andante
che prega  alghe cortecce
di farsi aghi
per altri sanguinanti nomi.

(p. 86 dalla sezione PANE)








Bianco


guglia 
nel suo colore


quando, inchiodati piedi
a una stessa croce


siamo inseparati
solchi
per la pioggia a venire.


Disvelto l’argine
il fiume s’acquieta


tutto cade per sempre apparire


migra nel biancofiore
il minerale di un segno


beato sia
povero in spirito.

(p. 94 unico testo della sezione conclusiva GUGLIA)