Leggendo “Bianco Guglia” di Paolo Fichera
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Quello cui Paolo Fichera dà forma nel libro Bianco Guglia (Genesi Editrice, Torino 2022) è un poema articolato in 15 parti il quale, in continuità con Figura (Musicaos Editore, Neviano 2019), attua un’idea chiara e senza compromessi della scrittura in poesia: rifiuto reciso di qualunque registro medio-basso e/o colloquiale, concezione di una scrittura in versi che si ponga sempre (e, mi sembra di capire, con fierezza) quale altra rispetto a qualunque linguaggio contemporaneo perché essa rivendica uno spazio all’interno del quale il discorso cerca costantemente di distanziarsi dalla quotidianità quando quest’ultima è penuria spirituale ed espressiva e si vota con coraggio e con una scelta probabilmente controcorrente verso quelle che potrei chiamare figure archetipiche: l’acqua, la voce, il sangue, l’angelo, il seme, (non a caso titoli anche di alcune parti del libro e nuclei tematici a partire dai quali e intorno ai quali Fichera intesse variazioni e fughe anche in senso strettamente musicale), la guglia stessa, la rosa, la casa, il mare, la neve…
Nell’apparente ermeticità di taluni passaggi, figure, espressioni, nelle atmosfere rarefatte o enigmatiche, mai pacificate, mai rassicuranti, accade, invece, qualcosa di peculiare e molto, molto interessante: l’intero libro è dedicato a Vladimír Holan e, dunque, Bianco Guglia vuole anche raccogliere l’eredità del maestro praghese, poeta di culto in Italia qualche tempo fa e oggi forse obliato, se non fosse per i pochi che ne continuano (che ne continuiamo) a leggere e amare i testi difficili e oscuri, ma in senso direi celaniano – l’oscurità non è mai gratuita o forzata, ma connaturata al mondo stesso, essa sostanzia e determina il nostro stesso vivere: la scrittura non la elude, ma vi affonda con temeraria consapevolezza.
In tal senso mi piace leggere questo libro come un itinerario ascensionale dal buio e dalle tenebre verso il biancore dell’elemento architettonico più alto, la guglia appunto, mentre che Bianco Guglia non teme di essere anche un attraversamento cerimoniale (e periglioso) del buio e del male, un confronto continuo con la morte, un reiterato sottoporre ed esporre la parola alla prova dell’indicibile o dell’impronunciabile, al pericolo della sua vanificazione, del vuoto di senso.
Holan docet, dunque e Paolo Fichera cerca la poesia come momento abissale dell’esperienza umana, del conoscere, dell’amare, del perdere, del cercare, del sentire il tempo e l’ignoto. Ed egli non è solo se, leggendolo, penso ai versi bachmanniani intitolati Nella bufera di rose dove rose, spine e rombo di tempesta raccolgono in pochi, incisivi versi (cui Anselm Kiefer consacra dipinti di rara potenza espressiva) la vicenda umana ostensa all’urto con la storia e con la violenza, o se l’angelo mi riporta ovviamente a Rilke e alle Elegie duinesi, se l’emozionante sequenza della sezione Bolgia mi fa pensare senz’altro alla Commedia, ma anche all’inferno raffigurato nel mosaico otrantino e certi tesi passaggi che portano il linguaggio alla lotta corpo a corpo con la rovina e la minaccia sembrano echeggiare della musica di Carlo Gesualdo che è corda tesa (fino a rischio di spezzarsi) tra fede e disperazione, tra suono e silenzio mortale, tra invocazione del nome di Dio e sua incolmabile lontananza.
Immagino l’impegno e il continuo dubitare che hanno accompagnato Paolo durante la stesura di un libro come questo, la consapevolezza di affidare al linguaggio un attraversamento periglioso e a continuo rischio di fallimento perché è facile che il verso si accartocci su sé stesso, che si depotenzi in estenuanti quanto insignificanti immagini o espressioni, che giri a vuoto – invece il verso libero dà vita qui ad agglomerati di testo che sanno aderire alle differenti esigenze espressive, che tra rientri e spaziature, salti strofici e figure di suono intesse una sorta di cattedrale (tanto per richiamare un’altra figura-concetto cara a Paolo Fichera) di musica e di parole di notevole complessità e sapienza compositiva e che invita a percorrerla (ad ascoltarla) dal basso verso l’alto, in profondità, cercandone i luoghi più riposti, vero e proprio “trialogo” (così s’intitola una delle raccolte holaniane) tra chi scrive, l’abisso del mondo e chi legge.
Ombra risorta s’incorona fiamma salma del nome tra le cose, quando dalla vista un acuto e mai sfinito dono, risuona per sua vocazione. A ogni taglio figura nasce incisa mano, preesiste la morte all’immagine data. Linee irriflesse rigenera in fiamme per sangue, tra lama e aria. (p. 15 dalla sezione EVENTO) nell’opera che travalica la sua notte disabitato è il grido che scisse l’idea dalla sua fenice. avvinta alla voce vibra in cerchio l’unione d’aquila, eternamente precipitata, oltre la sua fine. coesa al presagio minerale s’avvera, in fiato, l’immagine (p. 28 dalla sezione VOCE) tempi bui imperversano incompiuti. siero per linfa a disporre del seme. abitata battaglia ogni stele accorda luce con buio. scorge ombra, l’occhio adagiato nel grembo. l’estremo vivo ha passi. sia vicino ai morti il legno d’acero, l’inviolato paesaggio tra mani nel bosco, ai soli vivi. (p. 41 dalla sezione SEME) Avremo perdono in questo campo così spoglio, così povero di stagioni? La musica trattiene i gemiti filigrana di chi, trascinato nell’ombra, dimentica i propri passi nell’acqua. Guardi l’inudibile tra la neve e scopri quanto rumore dà l’urto del dono sul visibile informe, quando tutto è sostanza di un’idea che ti lega e ti apre, come s’apre lo sguardo a fronte d’un fiume, ignaro di te. (p. 50 dalla sezione VASO) 1 fruttifica la bolgia apiario di sirene fortifica il battito, sente dolore la pietra redenta dall’acqua, solidifica la lotta l’erbario in scarti di felci nel cerchio, il tavolo stava, a contatto, in noi, l’immagine mai data, ferrea per altro intendimento, il confine varcato: è: incidere il volto di dio tra bende e legno. Tra retta via e guarigione la luce accede al firmamento, accresce l’adunata dei primi suoni. “Non questi suoni” avanzano l’evento del fuoco, immaginato dal tempo, nell’ora pensata, sottrae origine al grembo antico. Scioglie fili, perline, ricordi marini: dissepolte vite. Colpi d’ascia disvelano mosaici velati. Uncini ovunque [...] (p. 59 dalla sezione BOLGIA) accade come nulla accade radice, ombra di meridiana - morte: vita esposta, polline di simbolo, sale (p. 71 dalla sezione POLLINE) sollevati nel rito incessantemente cadiamo come goccia sfaldata nella durezza apparente del ghiaccio. nulla cade per essere abbandonato. il ritorno, dalla morte, affratella. il rito fissa lo spazio dello sguardo nel tempo (p. 77 dalla sezione SANGUE) Angelo (è lama) che germoglia nella vena semina celeste l’occhio (a terra), carapace, teschio bifronte. Due volti. Due le morti promesse. Come tracce notturne assediano neve il volto intona l’andante che prega alghe cortecce di farsi aghi per altri sanguinanti nomi. (p. 86 dalla sezione PANE) Bianco guglia nel suo colore quando, inchiodati piedi a una stessa croce siamo inseparati solchi per la pioggia a venire. Disvelto l’argine il fiume s’acquieta tutto cade per sempre apparire migra nel biancofiore il minerale di un segno beato sia povero in spirito. (p. 94 unico testo della sezione conclusiva GUGLIA)