Breve nota intorno a “Onda statica” di Italo Testa
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Probabilmente è possibile leggere Onda statica di Italo Testa (Zacinto Edizioni 2022, collana Manufatto poetico 12) seguendo due direzioni parallele: l’una è quella del testo per il teatro, l’altra del testo per la lettura; le parti che compongono il libro infatti (Qualcuno che li pensi, Onda statica e Vieni) vengono definiti dall’autore stesso Tre atti unici e proprio Onda statica è stato rappresentato in forma di melologo per voce amplificata e supporto digitale, con musica e regia del suono di Cesare Saldicco, il 16 settembre 2020 alla Fabbrica del vapore di Milano (Giulia Zaniboni, soprano) e il 26 settembre 2021 al Teatro Litta di Milano (Valeria Matrosova, voce recitante).
Si è dunque innanzi a tre testi concepiti soprattutto per la voce e anche la lettura dev’essere capace d’immaginare questi testi risuonare in uno spazio che accolga e amplifichi la voce; se infatti stilisticamente i tre atti unici sono molto scarni, beckettianamente ridotti a battute brevi, a scheletri di dialogo quando, sempre, il tema conduttore sembra essere quello della solitudine, dell’impossibilità di dare forma verbale compiuta al vivere in un tempo straniante nel quale i corpi umani sembrano ridursi a voci più monologanti che dialoganti (Qualcuno che li pensi), o addirittura a un qualcosa che potrebbe definirsi una replicante umanoide (Onda statica) o soltanto a voci e ombre (Vieni), si può allora immaginare una messa in scena in cui le voci e i suoni restituiscano il senso di vuoto e di isolamento, una sorta di stridore che scaturisce dalla divaricazione tra il desiderio di essere ascoltati, accolti, amati, riconosciuti e un reale che manca di ascolto, accoglimento, amore.
La lettura attraversa a sua volta una scrittura che, come ormai sovente avviene nella ricerca di Italo Testa, ha da tempo abbandonato le categorie tradizionali e, senza lirismo alcuno né sentimentalismo, discende negli inferi della contemporaneità misurandosi con il mezzo e con la materia stessa dello scrivere (col linguaggio) e constatandone l’insufficienza e la debolezza dovute, in questo caso, a una situazione di base alienata e alienante.
Onda statica è, cioè, successione di testi che assumono la natura di referti circa, appunto, la staticità angosciosa e angosciante di un vivere deprivato di slanci, senza attese capaci di trasformarsi in azioni e in cambiamento, caratterizzato dall’evaporazione dell’umano del quale restano solo voci o corpi meccanizzati. E i nomi stessi (Elisa, Fabio, Sandra, Andrea) attribuiti a chi parla nel primo atto unico rimangono nomi senza corpi e senza storie, nomi di voci le quali possono soltanto pronunciare brevi frasi, ma dubitando, ma senza possedere coordinate concettuali, anzi: «Queste cose / Devo trovare qualcuno / Che le pensi» (p. 10) – nell’evanescenza dei nomi e nell’impossibilità di definire, di dare stabilità a quello che accade (o che, forse, non accade) si spalanca l’angosciante vuoto contemporaneo che ingoia l’identità di coloro che parlano: sono essi una sorta di revenants? oppure vittime di una qualche violenza? o alienati mentali? oppure, semplicemente, siamo noi, anche noi che leggiamo e che scriviamo?
Proprio il secondo atto unico con la donna prima immobile e che poi parla agitata al telefono per arrestarsi come congelata, che poi torna a muoversi come un burattino parlando ancora al telefono mentre una voce fuori campo nei minuti in cui la donna rimane immobile intesse paesaggi verbali di grande malinconia, proprio quest’atto unico, dicevo, culmina con la donna che «si sdraia sul letto. entra un ingegnere. le solleva la camicia. apre il vano posto nel grembo. controlla i circuiti. esce» (p. 22) – gli pseudo-dialoghi al telefono della donna meccanica rivelano il desiderio d’amore che non viene corrisposto, per cui l’onda statica sembra significare un vivere deprivato non solo dell’amore, ma anche del dialogo con l’altro e con il mondo, un’implosione dei processi mentali e affettivi che rendono un essere umano macchina soggetta a guasti che un impassibile ingegnere è incaricato di riparare.
Le battute tutte brevissime del dialogo che costituisce il terzo e ultimo atto unico sembrano mettere in scena un incontro sempre promesso e mai realizzato o, forse, non veramente voluto (per paura o per ignavia), o, anche, impossibile perché le voci (due? di più?) sembrano talvolta appartenere a piani temporali e spaziali diversi in un continuo scambio e cambio di prospettive, aspettative, atteggiamenti.
Ho sentito parlare dei mie pensieri Dei pensieri che passano nelle vostre menti Un fruscio che si allontana e disperde È mattino, la luce li espone Nessuno potrebbe mai pensarli Ero in un prato, correvano Parlo di quel giorno E di quelli che ti guardavano Ne ho sentito parlare Li hai sentiti sulle labbra O piuttosto ero in un parco Ti parlavano Correvano intorno Devo trovare qualcuno Qualcuno che li pensi (da Qualcuno che li pensi p. 9) anche tu, come tutti gli altri, tu come tutti gli altri, chiamalo come vuoi, chiamalo amore, come vuoi, è solo silenzio e fame, e gli altri che non ci sono mai, quando li cerco, quando ho bisogno, tutti, indistintamente, e io che non ci sono mai, io qui persa, io quell'ombra, l'acqua gelata, tutte le volte che tremo e non ci siete, non ci siete mai stati, tutte quelle parole e il buio quando parlate, e mi lasciate qui, in questo vuoto, questo vuoto che cammina, si specchia, cammina, telefona, questo vuoto che s'allarga, divora tutto […] (da Onda statica p. 20) […] - Fermati qui. - Non è il freddo. - Sono le tue mani. - Non lo sono. - Non possono esserlo. - Perché? - Sono le vostre mani. - Le mie. - Lo sono sempre state. […] - Vieni con me. - Quando? - Il giorno dopo. - Quando? - Se non saremo più qui. - Se non ci sarò mai stato. (da Vieni pp. 28 e 29)