A scuola da mio padre (di Gianluca Virgilio)

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

inverno leuca

 

Nei pomeriggi d’inverno, quando alle quattro e mezzo è già buio, mi rodevo d’impazienza se mio padre mi tratteneva nel suo studio per farmi fare i compiti del giorno dopo, mentre io sapevo che col buio imminente non sarei più potuto uscire in strada per giocare a pallone coi miei amici. Dovevo star lì, accanto a lui, e ripetergli le coniugazioni dei verbi latini mentre il sole inesorabilmente calava dietro le tapparelle semiabbassate. Allora, io lo odiavo, lo odiavo d’un odio quale può concepire un ragazzetto di undici, dodici anni, feroce e sordo. Oh, se lui non ci fosse stato! Alle quattro e mezzo era già buio e avrei dovuto rinunciare ad incontrare i compagni. Per fortuna, egli riposava per un’ora dopo pranzo, tra le 14:00 e le 15:00, e almeno in quell’ora io ero libero di uscire per strada e tirare quattro calci al pallone. Ma come potevo sopportare che mi fosse tolta l’ultima ora di luce del giorno? 

Con la bella stagione le giornate miracolosamente si allungavano ed anch’io mi prendevo qualche libertà in più. Mio padre mi attendeva per i compiti alla solita ora, quand’egli si sentiva rinfrancato dopo le lezioni faticose del mattino. Anziché tornare dal campetto alle 15:00, tornavo più tardi, a volte anche un’ora dopo; e dunque dovevo sorbirmi i suoi rimproveri prima di iniziare i compiti. Lui si metteva al suo posto dietro la scrivania piena di pile di libri, ed io di fronte, chino sull’eserciziario o sul manuale. Talvolta c’era da perdere molto tempo per scrivere il tema ed io mi chiedevo se avrei fatto in tempo a ritrovare i miei amici e a fare qualche tiro con loro prima di cena. Papà mi spiegava la traccia e mi dava qualche argomento che avrei potuto utilizzare per lo svolgimento del tema. Ma la mia mano sembrava incapace di condurre la penna, i piedi scalpitavano sotto la scrivania, i profumi del maggio odoroso mi frastornavano la mente e ogni argomento era vano o serviva solo a ricondurmi dai miei amici, nel campetto sterrato dove certamente continuavano a giocare malgrado la mia assenza. Chi avevano messo in porta al posto mio? Intanto, la pagina bianca mi assillava. Mio padre, di fronte a me, era intento a leggere e ogni tanto sollevava lo sguardo dal suo libro per vedere s’io stessi scrivendo. Dopo una buona mezz’ora mi chiedeva di leggergli quanto avevo scritto; ma per questo io mi sbrigavo in un attimo, perché nel frattempo avevo scritto poco o nulla. Presto fortunatamente sarebbe giunto uno studente per la lezione privata: era la mia salvezza. Mio padre, che lo attendeva, prendeva allora la decisione giusta: mi dettava il tema. In un quarto d’ora era bell’e scritto. Arrivava lo studente ed io ero libero. “Ti raccomando, ripeti i verbi, riguarda la Geografia, ripeti ad alta voce il riassunto!”: mi sembra di risentire la sua voce, di rivedere il suo indice didattico. Egli probabilmente sopiva il senso di colpa, derivante dall’avermi trascurato a causa del lavoro, con un eccesso di raccomandazioni. Io ero libero e questo mi bastava. Anzi, gli ero grato – e ne approfittavo – della libertà concessami.

A volte, quando era libero da impegni di lavoro, mio padre mi tratteneva più a lungo. Voleva ch’io gli ripetessi la Storia e le Scienze oppure mi chiedeva di riguardare gli esercizi di analisi logica. Allora i pensieri tetri mi riprendevano, mi sentivo vittima di un potere oscuro e ostinato che mi impediva ogni libertà; e certo io dovevo guardare con occhi d’odio mio padre, che mi si opponeva spietatamente continuando a interrogarmi. Lui era senza dubbio più forte di me ed io non avrei avuto la meglio se lo avessi colpito. Pertanto il linguaggio del mio corpo doveva limitarsi al rossore del viso, agli occhi feroci, le mani dietro la schiena chiuse a pugno, i piedi che non potevano star fermi in un sol posto. Sono convinto che mio padre mi capiva perché a un certo punto decideva di sciogliere la tensione del momento, che in lui sarebbe diventata sadismo e in me pulsione parricida, se si fosse prolungata più oltre. Mi accarezzava i capelli, guardandomi negli occhi, e mi diceva che potevo andar fuori a giocare coi miei compagni, che ne avevo tutto il diritto, e avrei avuto il tempo, a sera e poi al risveglio l’indomani mattina, di ripetere qualche nozione male appresa nel pomeriggio. E a mia madre che, vedendomi uscire di casa, si meravigliava ch’io avessi già finito i compiti, mio padre diceva: “Lascialo andare, è un ragazzo ed ha bisogno di giocare!”.