Sorrisi e risate (di Gianluca Virgilio)

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

 

Ogniqualvolta ho cercato di risalire indietro nel tempo, nel tentativo di individuare con precisione il momento esatto in cui, da bambino, mi accadde di perdere il sorriso, sono sempre andato incontro al fallimento e ho dovuto constatare che i miei sforzi erano vani. La stessa cosa dicasi del tentativo, reiterato molte volte, di capire quali siano state le cause della mia perdita del sorriso. Mi sento giustificato se considero che nell’età adulta non è facile recuperare situazioni e stati d’animo vecchi di mezzo secolo, e anche più. Ero molto piccolo, avrò avuto tre, quattro anni appena, o forse meno: anche questo non posso precisarlo con sicurezza. L’unico fatto certo è che, quando questo mi accadde, ne ebbi subito contezza; a tal punto che, da allora, ho diviso la mia vita in due parti: prima e dopo la perdita del sorriso. 

Ora, ragionandoci su, credo di capire che il sorriso che mi sembrava di portare stampato in faccia fosse una diretta conseguenza dell’inconsapevolezza nella quale ero vissuto fin dalla nascita; ed è molto probabile ch’io in realtà non sorridessi e che quel sorriso fosse solo uno stato d’animo. A quell’età, il mio rapporto col mondo era mediato dalla barriera protettiva che i genitori innalzano intorno ai propri nati per meglio difenderli da eventuali insidie. I giocattoli, i vezzi, le favole, il loro prenderci per mano e condurci, il cullarci, le carezze, il sorriso, nell’insieme formavano intorno a me una cintura di sicurezza così spessa, ch’io al di là di essa neppure intuivo l’ignoto, col quale ero troppo piccolo per cimentarmi. Il mio sorriso era quello di Adamo, prima del peccato originale, nel giardino dell’Eden. Il mio Eden sarà stato la poppa materna, la culla, il giocattolo che mi portava mio padre…; tutto mi faceva sorridere e, forse, anche quando piangevo al fine di ottenere dai miei genitori qualcosa di desiderato, anche allora in cuor mio sorridevo, perché in fondo il puntiglio infantile mi serviva solo per mettere alla prova l’amore dei miei genitori, che trovavo riconfermato anche dopo un severo e definitivo diniego. Cominciavo a capire che non tutto si può avere a questo mondo: minima consapevolezza del fanciullo, non tale da impedirgli, dopo un pianto dirotto, di riacquistare il sorriso.

Che cosa è successo, a un certo punto, che ha rotto l’incantesimo e spento il sorriso? Come ho detto, non saprei essere preciso a questo proposito, perché nella mia memoria non è rimasto segnato un evento drammatico o un fatto scioccante, ma solo il ricordo generico e un po’ confuso di un periodo nel quale mi era divenuto chiaro che qualcosa era cambiato rispetto al passato; e la novità era che avevo perso il sorriso. Facevo brutti sogni, da cui mi svegliavo di soprassalto, piangendo e invocando la presenza dei miei genitori; a cui chiedevo che mi raccontassero una storia; e quando questo accadeva, interrompevo il narratore sempre con mille perché, disturbando il racconto e facendo perdere a mia madre o a mio padre il filo del discorso. La mia vita non era cambiata in nulla, sennonché ora frequentavo l’asilo infantile, dove ogni mattina mi trascinava la Maria, una donna a cui i miei genitori mi affidavano e con la quale, a piedi, attraversavo la piazza del paese verso il tetro edificio abitato da austere suore per nulla tenere con i bambini: dovevano insegnarci la disciplina! Circolavano storie orribili, di punizioni dentro una stanza buia, dove si veniva rinchiusi se non si era buoni, cioè zitti e fermi, due condizioni che io non avrei mai saputo rispettare. Tuttavia, non credo di esserci mai finito in quella stanza buia, sebbene ancora oggi saprei localizzarla nella mia mente. Fu questa la causa della perdita del sorriso? Credo di no. Forse fu una delle tante cause, ognuna delle quali corrispose ai miei contatti col mondo, quell’ignoto che si trovava al di là della cintura di sicurezza dei miei genitori e che, piano piano, giorno dopo giorno, diveniva noto in maniera direttamente proporzionale alla mia consapevolezza. Ero fuori dal giardino dell’Eden, pur senza avere mai peccato. Del resto, non avvertivo nessun senso di colpa, ma solo una strana paura. Piangevo, come fanno i bambini, e, dopo il pianto, scoprivo di non saper più riacquistare il sorriso, capivo che un cambiamento ero avvenuto dentro di me. Infatti, il mio volto si ricomponeva, ridevo come uno sciocco, quando un adulto, non sopportando il mio pianto, mi incoraggiava a ridere, ma il sorriso… era perduto per sempre.

***

Quando facevo la scuola elementare, il giorno prima delle vacanze pasquali si saltavano le ultime ore di lezione. Per dire che si usciva prima del solito, cioè verso le undici, si usava il latino ecclesiastico: lectio brevis; ed infatti, non si era liberi di andare a casa, ma si era precettati dalla scuola, ovvero si doveva partecipare al precetto pasquale, messa che ci introduceva ai misteri della settimana santa. Tutti in chiesa, dunque, in fila per due.

Seduti sui banchi di legno, sei per banco, prima che iniziasse la funzione, sgomitavamo e scalciavamo come tanti puledri riottosi, cercando tuttavia di non farci riprendere dalla maestra. Inizia la messa: tutti in piedi. Poi, rispondendo all’ordine del celebrante, tutti seduti. Qualcuno fra i compagni del mio banco dice una parola, una parola che oggi ho dimenticato, ma che dà la stura a non so quale sentimento represso: ci mettiamo a ridere, a ridere a crepapelle, di una risata isterica e nervosa, che sembrava non poter essere frenata. Mi sembra di vederli questi sei compagni di banco piegati su sé stessi – per fortuna non eravamo tra le prime file -, qualcuno si appoggia all’inginocchiatoio antistante la panca, il che poteva apparire come un atto di contrizione, e cerca in ogni modo di soffocare dentro di sé una risata che non voleva finire e che si rivelava solo in singulti (ma potevamo essere così contriti?); se solo ci fossimo levati dritti a sedere, i nostri volti sarebbero apparsi paonazzi. Furono minuti di vero terrore perché ciascuno di noi aveva paura di essere scoperto e cacciato fuori dal tempio. Ridevamo terrorizzati, ma ridevamo; sicché da allora ho imparato che la più grande paura può sempre essere accompagnata dalla più grande risata. La nostra risata era irrefrenabile. Cessò solo quando l’officiante ordinò di alzarci in piedi, secondo quanto prevedeva il rito. Allora fu giocoforza smettere di ridere e ritrovare la calma. Il nostro volto doveva ancora avere i lineamenti contratti come quelli d’una maschera carnevalesca, ma probabilmente il prete, preso com’era dal suo ufficio, non se ne accorse o fece finta di non accorgersene perché la cerimonia non fosse turbata. Chi invece se ne accorse fu la maestra che, tutta corrucciata, all’uscita dalla chiesa, ci chiese che motivo avessimo di fare delle gran risate durante la messa. Noi non avemmo il coraggio di guardarla in faccia e, a testa bassa, mortificati, non fummo in grado di fornire nessuna spiegazione. Ella ci rimproverò severamente, ma poi forse si ricordò che, almeno per pochi giorni, stavamo per andare in vacanza, e allora ci diede gli auguri, fummo congedati e il nostro precetto pasquale ebbe termine.