Michela Murgia. Una creatura che dava gioia. La sentivo parlare: un italiano fraterno, senza ombre, avvincente. Una limpidezza spietata. Era, essa stessa, il corpo di quella lingua. Nominava Gesù e, sempre, di sfuggita, attenta a non svelare troppo un amore segreto. Non amava i fiori, e questa vicinanza mi faceva sorridere. Non ho visto fiori ai suoi funerali. I fiori, specie quelli incelofanati, ammucchiati, tolgono respiro alla morte, avviliscono la memoria.
A chi, negli ultimi tempi, le chiedeva del dolore, rispondeva con un sorriso che, invece di santificare la sofferenza, la respingeva: “Ho sempre le pillole con me”. Negli infiniti giorni della sua vita è stata fonte di gioia per molti. Gli scrittori di questo paese è raro abbiano amici come li aveva lei. Roberto Saviano scoppia a piangere; Chiara Valerio, accoccolata tra i banchi, lo guarda piangere e non sa come consolarlo. C’era, poi, il suo amore principesco per gli sconosciuti. La sua ironia, ballabile, allegra. Oltre agli amici, amava gli “sconosciuti”. Michela rimane una fonte di gioia per la lingua italiana. Il dolore. Si affrontano dolori che uno conosce; c’è, poi, il dolore che non si conosce, che immerge i suoi coltelli, indifferente; a volte atroce. Resto scettico sull’amicizia del corpo umano: spesso distrugge l’anima. Torno alla gioia di Michela, al suo meraviglioso ragionare e ascoltare. Aveva un orecchio bello quanto la sua bocca. Ribelle per vocazione, nutriva una simpatia innata per la verità, ma non era una mistica della verità. Leggeva molto, e i libri che leggeva l’amavano. Preferiva scrivere nei bar, quando poteva; non aveva un debole per la solitudine. Desiderava circondarsi di facce.
Tra le sue ultime immagini: è seduta, le braccia sul tavolo, vedo la sua testa tonda, nuda; un sorriso lievissimo, la meraviglia di sentirsi nell’amore; quelli che le stanno accanto aspettano il soffio amoroso della morte. [ROCCO BRINDISI, inedito]