Per Christian
Ricordo che nella serata del 19 novembre, nell’ambito della rassegna milanese “Tu se sai dire dillo”, sarà ricordata la figura umana e artistica del carissimo Christian Tito.
Ricordo che nella serata del 19 novembre, nell’ambito della rassegna milanese “Tu se sai dire dillo”, sarà ricordata la figura umana e artistica del carissimo Christian Tito.
Che cosa abbiamo saputo costruire noi, quelli nati a partire dagli anni Sessanta del Novecento, vale a dire coloro che hanno conosciuto fin da bambini l’Italia del cosiddetto benessere? Proprio perché più protetti dalle scosse della storia (almeno fino a un certo punto), proprio perché per la maggior parte di noi c’è stato un qual certo benessere materiale, siamo riusciti a smettere di essere figli per diventare genitori responsabili della vita di creature indifese?
Leggere la plaquette di Christian Tito Ai nuovi nati (edizione a tiratura limitata pubblicato dal Circolo Culturale Seregn de la Memoria, edizione degli Amici del Libro d’Artista, nella collana “Fiori di torchio” a cura di Corrado Bagnoli e Piero Marelli, con incisioni di Alejandro Fernández Centeno) mi ha fatto affiorare alla mente queste domande: c’è, deve venire nella vita di un essere umano il momento in cui smette di essere figlio (o figlia) per diventare padre (o madre) foss’anche di sé stesso, ma, comunque, persona adulta, capace di prendere decisioni motivate e autonome. Sul lavoro, nelle piccole incombenze della vita quotidiana, facendo la fila alla posta, la spesa al supermercato ho spesso la sensazione, al contrario, che apparteniamo a una generazione di “viziati” che non hanno mai smesso di essere figli e che pretendono che la vita dia loro “d’un colpo tutte le cose che crediamo di meritare” (le parole sono di Vittorio Bodini).
Leggere i versi di Christian è ossigeno per la mente:
Ti daranno infinite occasioni per piegarti
e tu non ti piegare,
basterà uno sguardo a certe facce
per sentire minacciata la tua fede,
ma tu credi, credi sempre figlio mio,
e non credere che ogni credo poi non muti,
ma dentro quel mutare qualcosa si conserva:
quel passarci dentro agli occhi un po’ di luce,
quel dirti a bassa voce solamente che ci siamo,
che per te volevamo solo esserci
e, miracolosamente,
nel miracolo della tua vita,
per un po’
ci siamo stati.
Il mio caro amico poeta ha raggiunto un’asciuttezza di dizione che, di per sé stessa, rende credibili e nobili i concetti espressi, s’affida a minime variazioni lessicali per spalancare prospettive nuove o inaspettate e, senza reboanti proclami, stigmatizza la colpa di una generazione che ha lasciato crescere e imporsi un sistema che esige dalle persone che si pieghino – ma Christian percorre la strada dall’essere figlio a diventare e essere padre dei propri figli cui, con la forza dell’amore, con una dolce fermezza che commuove, offre quel po’ di luce da passarsi gli uni gli altri dentro gli occhi.
Così chiedo agli avi i futuri codici
per attraversarla senza perdere niente questa nostra vita
per mettere in mio figlio e in tutti i figli
una traccia di senso possibile, un amore, una passione
per non perdermi pur perdendo continuamente
poiché la vittoria appare chiara e vacua in questo mondo
e a noi piace la piena ombra
poesia come massimo grado della sconfitta
poesia come massima distanza dalla resa
camminare a piccoli passi ma camminare
dire poche parole, ma dirle
perché noi crediamo nella parola
e forse più in quella data
prima ancora che scritta.
E Christian, che non gioca a fare il poeta, ma che la poesia vive dentro, ben dentro la sua quotidianità, talvolta amara e deludente, non può non confrontarsi con l’atto della parola, riuscendo a scrivere versi di meravigliosa verità:
poesia come massimo grado della sconfitta
poesia come massima distanza dalla resa
camminare a piccoli passi ma camminare
dire poche parole, ma dirle
perché noi crediamo nella parola
e forse più in quella data
prima ancora che scritta.
Continua il dialogo con “i nuovi nati” e in questi termini:
Meglio saperla
tutta la forza,
tutta la fragilità
se vuoi che si plasmi in forma d’uomo il tuo viso.
Allora nella notte non perderti d’animo,
nel chiarore resta sempre vigile.
C’è un fuoco da portare,
da passarci di mano,
da restituire alla terra.
Ecco: un poeta della generazione nata e cresciuta nel cosiddetto benessere, la quale forse non è stata colpevolmente capace di difendere e di accrescere la democrazia nel nostro Paese, con determinazione dice la necessità di essere coraggiosi, di rimanere vigili, di serbare quel fuoco che ci fa figli della terra e, quindi, umani. Christian raccoglie l’insegnamento del proprio padre, una delle molte persone che hanno vissuto con dignità e coraggio il proprio Sud e che l’ILVA di Taranto ha ucciso, e di un padre-fratello-in poesia (ma anche nella vita) ch’è stato Luigi Di Ruscio – con questo viatico invito a leggere il testo che segue:
Oggi diciassette febbraio dell’anno duemilaquindici
la terra ruota sotto le nostre suole
e mentre gira e tutti noi giriamo
sento il battito del mio secondo figlio
perso dentro quel ritmo penso al mio amico
ha un tumore al di sotto del cranio
perso
penso
prego che tra non molto
mani di uomini esperti,
ma spero anche buoni,
estraggano la vita dal ventre di mia moglie
e la morte dal cervello del mio amico
lui di figli ne ha già due
e i padri buoni sono pochi.
E conclude:
Ho tolto il relitto dal giardino, mamma
impediva all’erba di crescere
questa è la mia casa
qui ci sono i miei figli
ho aperto il cancello e l’ho lasciato andare
È difficile costruire un cancello, sai?
Ancora più che metterci dietro una casa
che sia la tua casa
senza lavoro non c’è mutuo
ma per questa mia casa
c’è voluto un muto lavoro
è stato quello
che mi ha insegnato a parlare
Caro, carissimo Christian, con commossa gioia ti dico grazie per queste pagine e spero, e m’ostino a sperare, la poesia sia sempre un atto di coraggio e di fiducia.
Via Lepsius torna a ospitare un cortometraggio-poesia di Christian Tito e Nicola Sisci; ci sono momenti davvero tristi, come il presente, in cui uomini politici dotati evidentemente d’istinto criminale invocano “una pulizia” delle città, ignorando (o facendo finta d’ignorare) la responsabilità che comporta l’uso della parola in pubblico e che un certo modo d’esprimersi innesca la violenza e l’intolleranza; avverto che un forte desiderio di fascismo sta riattraversando il mio Paese e a tale desiderio mi ribello; il mio caro amico Christian, poeta, scrittore, musicista e cineasta, propone qui pochi minuti d’immagini e suoni: sono quegli intervalli di tempo in cui la mente cerca requie e concentra sé stessa per capire e riprendere, più lucida, a guardare la realtà e in tale realtà intervenire. Credo sia questa una delle direzioni in cui debba muoversi l’arte e ricordo che Christian è anche l’autore di un’altra straordinaria opera, I lavoratori vanno ascoltati, dedicata ai lavoratori dell’Ilva di Taranto e alle loro famiglie: pochi giorni fa polizia e manifestanti si sono fronteggiati a Taranto, perché le vittime dell’Ilva continuano a non trovare né ascolto né giustizia, ma l’appartenere alla stessa comunità umana, il riconoscersi negli occhi di un’altra persona hanno fatto sì che un poliziotto e una manifestante si abbracciassero, che entrambi si riconoscessero fratelli perché entrambi sanno che cosa significa ammalarsi di cancro a causa della fabbrica maledetta. E in giorni bui, nei quali si continua un processo avviato da molto tempo che sta portando all’erosione sempre più ampia dei diritti delle persone, noi, dai nostri eleganti e sofisticati blog di poesia e d’arte, continuiamo a discettare di poesia e d’arte – e invece pubblico un video come questo di Christian (e dopo gli altri già pubblicati) chiedendo a chiunque passi di qui e si soffermi a guardare e a leggere di non dimenticare quanto sta accadendo attorno a noi: dimenticare o rimuovere o esercitare indifferenza è un atto di complicità e in tal senso l’arte sarebbe un atto osceno.
Sono felice e orgoglioso di poter proporre qui su Via Lepsius questi quattro inediti del mio fraterno amico Christian Tito il quale, dando seguito ad una bellissima idea già concretizzatasi in più di un efficace testo nel suo Tutti questi ossicini nel piatto (Zona editrice, 2010), continua a meditare con rigore espressivo e partecipazione umana su di una quotidianità milanese e metropolitana che commuove e costringe alla riflessione. Farmacista di professione, Christian si serve di un punto d’osservazione in qualche modo privilegiato, la Farmacia, appunto, facendone il motore per una scrittura limpida e capace di diventare indagine e testimonianza. Penso ci sia un fervore di scrittura in questo momento che tenta di far presa su di una realtà altrimenti liquida e sommersa; che i poeti trovino nelle proprie professioni ragione e spinta verso la scrittura testimonia di una consapevolezza etica necessaria e irrinunciabile.
Farmacia 12
Dopo la fatica il tuo cervello
era ancora in balia della furiosa costruzione
che a te faceva costruire chiodi
che non avresti saputo mai
chi avrebbero crocifisso
io invece so benissimo chi sono i poveri cristi
che devo crocifiggere
così
dopo la fatica il mio cervello
è ancora in balia della furiosa umiliazione
che a me fa costruire soldi
spalmando i corpi di oli
(fossi almeno Maddalena)
riempendo le bocche di pillole
(per sentirla tutta la consistenza della morte)
e alla fine
con questo sorriso atroce che devo portare
attaccando tutti al legno
con colpi secchi di siringhe
Farmacia 13
Un minuto di ascolto totale
non posso darti che questo Nina
così mi porto via da Piazza Bonomelli
almeno la tua voce la tua luce
“sono venuta dalla Persia”
dici
“dietro me c’è una sventura”
dici
“due lauree non bastano a colmarla e con la seconda mi hanno dato un lavoro.
Si può dire stage lavoro?
Qui in Bonomelli è pieno di arabi,
Milano è piena d’arabi.
Quando mi hanno scelta sembravano felici
– finalmente avremo qualcuno che può parlare agli arabi –
ma io l’arabo non lo conosco.
Io
vengo dalla Persia”
ambita e ben pagata è l’ignoranza
questa è la luce la voce , qui, Nina
per questo tifo buio
e, del rumore, l’assenza
Farmacia 26
Dicono che a Quarto Oggiaro meglio non andarci
troppe rogne dalle fogne troppi topi
ma io mi addomestico al ratto
abbatto paure sono matto
svaniscono i mostri se mostri la luce
o meglio è la luce che mostra che i mostri
la tana migliore tra spazi interstizi
nel buio tenace tra i nostri neuroni
Farmacia 41
(al bar di fronte)
Le slave sono le peggiori
a quelle ci piacciono i soldi a quelle
non è che gli offri un drink
le porti a casa
ci fai quello che devi fare
arrivederci e grazie
no
a quelle ci piacciono i soldi a quelle
solo quelli sanno succhiare
a ‘sto punto vai sui viali che spendi meno
le chiavi
dove sono le chiavi?
Un po’ come a dei figli voglio bene a ciascuno dei miei cortometraggi. Con ciascuno di essi esiste un legame personale che me li rende cari nonostante le loro imperfezioni, anzi, probabilmente, proprio come a dei figli , a partire da esse. Generalmente il punto di partenza prima di cominciare a montare un lavoro è una sorta di fusione reversibile con l’ambiente. È capitato nel tempo e in particolar modo negli ultimi lavori, che io e Nicola Sisci, compagno di tante avventure, nonché talentuoso curatore della fotografia, a un certo punto, cominciamo a passare del tempo in qualche luogo, con qualche persona, per qualche ragione. I perché di questa necessità, mentre vengono soddisfatti con abbozzi di risposte, restano in realtà oscuri e spesso rimangono tali sino a diverso tempo dopo che il lavoro è stato portato a termine. Ci siamo solo noi, con la telecamera e il nostro comune piacere di “stare” insieme, in quella situazione. Ma ogni esperienza vissuta su quei set è realmente non solo una piacevole necessità, è proprio un’esperienza formativa dal punto di vista umano oltre che una continua scoperta di possibilità e mezzi che il cinema, per due autodidatti un po’ naif come noi , offre.
I sette minuti di Somewhere rappresentano al massimo grado un’espressione di quella fusione reversibile cui accennavo. Per tre anni, in estate, io e Nicola ci siamo recati nel cuore del Parco nazionale del Pollino facendo base a Casa del Conte, minuscola frazione del bellissimo paese del Pollino Lucano “Terranova del Pollino”. Qui vive una persona speciale dotata di un carisma fuori dall’ordinario. Abbiamo avuto il piacere di diventare suoi amici e di passare del tempo indimenticabile insieme a lui e la sua altrettanto speciale compagna. Stanchi e a volte logorati dalla frenetica vita delle metropoli in cui vivevamo e viviamo, pochi giorni in quei luoghi così ameni, essenziali, per certi versi anche duri, erano in grado di ricaricarci per mesi.
Nacque un progetto iniziale che era quello di ritrarre tutto ciò attraverso il nostro carismatico amico; ma, come sempre accade nell’arte e soprattutto nel cinema, esistono tali e tanti fattori incontrollabili che ti portano inevitabilmente a modificare l’idea iniziale e a metterti al servizio di un qualcosa di nuovo. La soluzione migliore, ho avuto modo di imparare, è quella di non opporre mai troppa resistenza quando questi imprevisti accadono. In questo caso il nostro amico era tanto carismatico quanto umile e dunque l’idea di essere il fulcro, il centro d’interesse di un documentario lo metteva a disagio e, a causa di ciò, decise per un docile rifiutò . Ma noi, attraverso di lui, entravamo sempre più in contatto con l’ambiente e la gente del luogo. Attraverso lui, abbiamo incontrato decine di persone che ci hanno mostrato qualcosa di intimamente segreto della loro vita, della loro personalità. Senza lui, questo sarebbe stato impossibile. Poté invece accadere semplicemente perché di lui si fidavano e di conseguenza si fidavano anche di noi. La fiducia è alla base di certi miracoli. Nient’altro.
Così abbiamo accumulato diverse ore di girato per farne un documentario di una certa durata. Ma poi è accaduta un’altra cosa imprevista e imprevedibile: una delle bands da me tra le più amate, l’ islandese Sigur Ros, invita i film maker di tutto il mondo a scegliere un qualsiasi brano dell’allora ultimo loro album “Valtari” per farne un video secondo la massima libertà possibile di espressione. Per me fu un richiamo irresistibile. Avere la possibilità di usare non clandestinamente una colonna sonora di quella qualità (tra le musiche dal mio punto di vista più adatte a un certo tipo di cinema fortemente onirico ed evocativo) perché, in qualche modo , erano stati proprio i suoi autori a concederlo e a chiederlo. Mi misi subito all’opera e dopo avere scelto il brano dovetti operare un’altra faticosa e difficile scelta: rinunciare a tantissime persone e a tantissime sequenze ambientali perché avevo solo 7 minuti a disposizione. Questa è la dura, ma fortemente educativa, legge del montaggio: imparare a rinunciare a cose in se stesse anche molto intense e belle, ma che nell’equilibrio generale di un’opera non servono realmente. Dunque da diverse ore di immagini rimasero 7 minuti, 4 personaggi e un ambiente, che, come mi insegnano vari giganti del cinema, non è solo sfondo su cui i personaggi si muovono, ma personaggio anch’esso e tra i più vitali.
Che cosa resta in fin dei conti allora, un documentario? Non direi. Un videoclip? Neanche. Allora che cosa? È rimasto qualcosa che ha a che fare con tutto ciò che qui ho raccontato: quel legame personale che sta a monte delle storie che poi finiscono in un piccolo film. Resta qualcosa che richiama alla mia mente quel meraviglioso brano di De André dal titolo il suonatore Jones. Resta la libertà che lui aveva visto laddove di solito gli altri non vedevano niente e di cui egli cantava.