Fratelli rabdomanti: su “Come colui che teme e chiama” di Nanni Cagnone

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

          Non m’interessano qui categorie critiche né metodologie più o meno raffinate perché sono giunto alla conclusione (personale e discutibilissima) che una delle ragioni dell’unicità della scrittura in versi di Nanni Cagnone è ch’essa resiste pervicace a qualunque indagine autoptica, decostruttivista, psicoanalitica, strutturalista, et cetera et cetera.

          Essa è.

          Cagnone dichiara quanto «lo innervosisca che i commentatori sian usi a citare versi dei commentati (se non altro, perché non si può provare alcunché tramite esempi)» (nota finale ad AntiCamera di Rune Christiansen, La Finestra Editrice, Lavis 2015, p. 127) e dichiara anche: «Sono stanco di sentir dire silloge, o raccolta, un libro mio» (Chiarimento a Come colui che teme e chiama, Giometti & Antonello, Macerata 2023, p. 5) – da parte mia non potrò però sottrarmi dal citare (cosa che, forse innervosendolo, ho già fatto con abbondanza nei miei interventi precedenti sulla sua scrittura), ma certamente mi proverò a parlare dei suoi libri recenti, e in particolare di Come colui che teme e chiama, quali organismi (definizione d’autore rintracciabile in più luoghi della sua opera) che per ciò stesso vanno osservati, percepiti vivere, esperiti nel loro «ritmo, dispositio, torsioni sintattiche, imprese ellittiche, slogature della lingua, transizioni pronominali (quell’oscillare che forza dialogicamente l’inevitabile monologo)» (ibidem). 

          Ogni pagina di questi libri-poemi è un procedere meditante imbevuto fin nelle midolla dell’istintiva e al contempo coltivata inclinazione alla sensualità che ha nella lingua (stimolata a donarsi nelle sue possibilità più delicate e, anche, inattese) il corpo desiderato e manifestato. «Oui, j’étais tendeur» potrebbe essere chiara dichiarazione d’intenti; il verso lo si legge alla pagina 6 di Ex animo (La Finestra Editrice, Lavís 2020) là dove in nota Cagnone spiega essere “tendeur” in argot l’uomo sessualmente operoso – sostituendo all’imperfetto il presente (“oui, je suis tendeur”) mi piace accompagnare la lettura dei testi in poesia con quest’immagine che ne significa il piacere raggiunto grazie al desiderio dei sensi, al loro operare vitale e danzante e, anche, quella sottile, provocatoria ironia con cui Cagnone guarda i conformisti e gli arrivisti, i poetini del falso idillio, i fatui della scrittura (e del vivere).

          Si legge in Doveri dell’esilio (Il Cobold-Night Mail, Genova 2002):

 

Qualunque arte, 
se non si fa smemorata
e senza mezzi, attenta solo
a seguire il movimento,
vale meno della sua materia.

Anche un albero,
fotografato
con troppa cura, si allontana.
(p. 104)


          Ecco, appunto, l’esilio. Più che l’essere, il voler essere in esilio rispetto a un mondo volgare e totalmente privo di finezza sia del sentire che del dire: «Onore ai clochards, / alla loro disapprovazione» (Come colui che teme e chiama, in Dopo la quarantacinquesima, p. 56) – «Ora sono fra i miei, / degno d’esilio» (ivi, in L’ultima, p. 107).

 

 

          Scrive Cagnone in quello che definisce «L’ultimo monologo» (Esito, La Finestra Editrice, Lavís 2024, p. 7):

 

Questo mi serve:
seguitar
lo stormo autunnale
d’oche selvatiche
e ammirare gli aculei
del riccio europeo.
La quercia collabora,
scoiattolo rosso
ha trovato ghiande.

Come dissi
in altro tempo,
síano,
le cose che sono,
piú ascoltate.

Esodo
in sgualcito universo,
sul piegar d’una via
lontana da vanità.
Risparmiati laggiú
i papaveri,
sottilmente simili
a carta velina.
Non so quanto a lungo
il mondo potrà resistere
ai predatori noi.
(Ivi, p. 78)


         E infatti, con caustica lucidità, è dato constatare che «Le fogne son salite in superficie – / dobbiamo scendere, / bassamente / scandire i giorni» (Come colui che teme e chiama in Dopo la seconda, p. 13) e che

 

Dopo la nona 

Non hanno senso,
gl'inni, i malvagi
imperversano
gli altri si curvano,
nessuno da lodare.
Primitive, ingloriose
servitù, polvere
in esclamazione di luce,
e noi senza dolcezza -
noi agonía.

Ed io
sfoglio il libro
dei morti
come colui che
teme e chiama.
(p. 20)


          Lungi da me suggerire che Come colui che teme e chiama sia un libro di reiterati malumori; esso è libro di nuovo discorde che sans gêne pagina dopo pagina riafferma l’eleganza della dizione e l’amore alla lingua (anzi alle lingue visti gl’inserti ricorrenti da lingue diverse dall’italiano), dedica pensieri commossi agli amici scomparsi (si “teme” la loro dipartita, li si “chiama” per constatare da un lato ch’è accaduto quanto temuto, dall’altro che il legame non è spezzato, né mai lo sarà); ed è l’infoltirsi del numero degli amici scomparsi a corroborare, tra l’altro, una visione (anche caustica) del presente:

 

Dopo la trentesima

Aromatica,
molta poesía
del Novecento,
lontana da scalpore -
fiori belli
che non nutrono.
Mi tengo a rispetto
e indifferenza, ben poco
nella mia dispensa.
Pur sapendo
della piccola ingiustizia
che fa nido
nelle predilezioni,
muovo verso pochi
rinuncio ad ogni altro,
meglio amorosi
che riguardosi e cauti,
meglio una parola
che senza legislatori
scivoli
nel palmo delle mani,
parola necessaria.

Mia la negazione
e vostra solamente,
l'accortezza.
(p. 41)


          Nelle pagine iniziali di Sans-gêne (La Finestra Editrice, Lavís 2023) Cagnone si chiede, ironizzando su sé stesso, s’egli non sia un Neinsager; direi ch’egli è, nella palude di ruffiani e ipocriti in cui stiamo soffocando (pardon, volevo dire di “accorti”, di “riguardosi e cauti”), tra i pochi a conservare coerenza di pensiero e di scelte, in orgoglioso esilio dal vasto parterre di super ineguagliabili poetini e poetine che certo dànno lustro alle patrie lettere.

 

Dopo la trentaquattresima

Colui che giunge tardi,
non allo Stift di Tübingen
ma alla torre sul Neckar,
preceduto dalla follía
degli dèi, considera
non poter tornare
a quando non sapeva – ora
guarda alle proporzioni
da cui accomodate le cose,
impara l'alimento
che deve amareggiarlo
e i lunghi sorsi delle foglie
al temporale.

Lo rallegra
esser servitore
di confusi alfabeti,
lo rischiara
essere stanco
e stancamente
dover riconciliare.

A qualunque tu:
non sto parlando
di Hölderlin.
(p. 45)


          Nessun libro di Nanni Cagnone è un balletto delle ovvietà o dei loci communes similletterari – a mo’ d’esempio la moda hölderliniana che sembra aver contagiato molti professionisti dello scrivere in Italia viene qui sbeffeggiata con la crepitante rivelazione della terzina finale e non posso non pensare a un libro di Angelo Lumelli (Verso Hölderlin e Trakl, La Finestra Editrice, Lavís 2017) la cui lettura mi è stata suggerita dallo stesso Cagnone facendomi scoprire un libro tra i pochissimi che con coraggio che definirei addirittura fisico s’immerge nei testi e nella lingua del poeta svevo (non nelle artefatte leggende nate intorno alla torre e alla “follia” e coltivate da scrittori stitichi e in deficit di creatività); siamo noi a giungere sempre tardi alla torre sul Neckar, noi a guardare negli occhi la follia degli dèi e a non poter più tornare indietro dopo tale esperienza, la nostra stanchezza, causata da quell’eccesso di consapevolezza, è, paradossalmente, allegrezza e rischiaramento. Siamo noi a giungere fatalmente troppo tardi rispetto a chi per primo seppe che gli dèi avevano disertato la storia degli umani, noi epigoni e moderni proprio perché incapaci di sostenere lo sguardo gettato nell’abisso del tempo.

          E siamo Apache che devono scegliere se rimanere confinati (imbalsamàti) nelle riserve o accogliere il nobile insegnamento degli antenati nel fiero, eletto esilio.

 

 

Dopo l'undicesima

Soggetto
non io né l'opera,
bensí la relazione.

Mi servirebbe
una dieta teoretica
un sottovoce un riparo,
son mute da tempo le vie
e scarsi noi, nel giorno
che sparge lontano
un'anonima malinconía,
nel vento che dà merito
ai corvidi, nel fuggitivo
intúito – ecco,
si tratta sempre di noi,
ritti'n su la tolda,
vascello in naufragio.
(p. 22)





Dopo la trentasettesima

La figura d'un ulivo,
quando figura, e non
generoso insegnante,
non è che trattenuta
mortalità. Figurare
un vivente, equivale
a far tassidermía, cosa
priva di conversazione,
sconfitto docile aspetto,
orso che non spaventa
serpe che non inquieta
Apache che non corrono
verso i loro antenati -
anche una riserva indiana
è tassidermía.
(p. 48)





Dopo la quarantacinquesima

Scomparsi da secoli
i profeti, pure
si conosce e teme
il mondo avvenire,
di già avverato.
Lusinghe
in luogo di speranze,
tedio ustione sordità
e per residenza l'oscuro,
ecco le prodezze
del mondo odierno.

Ma noi, respinti
e irraggiungibili, stranieri a quel che
vilmente si agita,
prepariamo per pochi
una dimora avvenire.
Noi, numero magro,
sfuggenti a lor didascalíe
e discordi senza voce,
ma sudditi già mai.

Onore ai clochards,
alla loro disapprovazione.
(p. 56)





Dopo la settantatreesima

Degli amici non so,
da quando sono morti,
fratelli rabdomanti
che mancano
all'universale
nostro discorrere,
impongono
silenzio o balbettío,
echi senza sostanza,
consegnandoci
a schierate moltitudini.

In scarsità, nel livido,
nel senza – quale sarà
il sentimento intelligente,
oltre rimpianto?
Al commiato
seguirà porta socchiusa?

Non saranno individuali,
le mie ceneri.

Per Gino, Danni, Edoardo
(p. 85)
Le fotografie che corredano l’articolo sono di Edward Sheriff Curtis; la prima è identica all’immagine di copertina dell’edzione Giometti & Antonello Before the storm (1906).