Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: dicembre, 2016

Per un omaggio a Sylvano Bussotti

 

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Enrica Dorna ha fondato e anima con passione (che non ha bisogno della ridondanza degli aggettivi per essere definita) la Casa Editrice torinese Coup d’idée; sarebbe più corretto parlare della molteplicità d’interessi che Enrica Dorna coltiva, all’interno dei quali si pone il suo amore per la poesia e per i libri anche in quanto creazioni d’arte e proprio tale poliedricità l’ha portata a ideare per la sua Editrice prima la collana di poesia “La Costellazione del Cigno” e, più recentemente, la collana “In Dies”, la cui prima uscita è Prose, poesie e sonetti del Maestro Sylvano Bussotti.
Il punto di partenza è sempre il medesimo: Enrica Dorna sceglie opere d’indiscutibile valore stilistico e intellettuale che poi trovano in volumi elegantissimi, curati in ogni particolare, la maniera migliore per giungere tra le mani di lettori esigenti da ogni punto di vista. Altro luogo di partenza è il rapporto personale che Enrica imbastisce o già da tempo ha con l’autore o l’autrice, perché ella sa che dietro ogni libro c’è una persona e una storia, una vita e che l’energia che percorre ogni scrittura di valore è generata per virtù di stile, d’idee e d’umanità.
Succede allora che il rapporto d’amicizia con Sylvano Bussotti prenda corpo anche in un volume di squisita fattura come questo di cui con piacere scrivo: il Maestro ha infatti affidato alla cura di Enrica Dorna un suo diario-quaderno-collage ch’egli stesso ha letteralmente costruito, rilegato e scritto con le proprie mani e Coup d’idée pubblica, grazie alle perfette riproduzioni fotografiche di Francesco Cerchio (per esempio: sul recto di pagina 81 è stata riprodotta una macchia evidentemente presente nell’originale), all’impaginazione di Riccardo Penna e al progetto di copertina di Bruno Sacchetto, la fedele restituzione di quest’opera di Sylvano Bussotti. Il Maestro ha infatti ritagliato da carta per pacchi diverse decine di pagine che ha legato insieme a formare una sorta di quaderno che ha poi racchiuso in una copertina completamente nera; il più delle volte sul verso di ogni foglio ha scritto, con grafia elegantissima e limpida, i testi per questo suo lavoro, numerandone con cura le pagine e annotandovi in calce luogo e data di composizione (o di ricopiatura) del singolo testo.
Non desti meraviglia tutto questo: fin dall’inizio della sua attività artistica Sylvano Bussotti si è dedicato anche al disegno, alla grafica, alla pittura, i suoi spartiti musicali sono essi stessi, spesso, un luogo nel quale disegno e notazione musicale, costruzione dello spazio e scrittura s’intersecano, si attraversano, dialogano, si dispiegano; e mi piace qui, su Via Lepsius, e ne approfitto proprio scrivendo di Bussotti, ricordare almeno l’alta figura di Aldo Braibanti, cui Bussotti fu legato, tra l’altro, nell’esperienza comunitaria del torrione Farnese di Castell’Arquato e del quale il Maestro toscano ha spesso inserito dei versi nei propri lavori musicali, ma tantissimi altri nomi sarebbero da citare, tutti legati a un émpito di rinnovamento dell’arte e della società, tutti convintamente antifascisti e libertari – e scrivo questo perché in Prose, Sonetti e Poesie proprio la felice e sbrigliata giocosità, l’acceso e libero e celebrato erotismo, la danzante andanza del linguaggio, del lessico, del ritmo, l’armonioso disporsi dei testi nello spazio della pagina (l’autore decide, di volta in volta, se lo sfondo della pagina debba restare quella del colore e dell’allinearsi tipico delle fibre di cui è costituita la carta per pacchi o diventare il bianco di un sottile foglio di carta incollato o addirittura e sovente la vasta campitura del bianchetto) costituiscono un vero e proprio Leitmotiv capace di guidare a un attraversamento del libro, attraversamento che può rivendicare per sé, a sua volta, la più totale libertà: ma questo non esclude che il Maestro faccia spesso ricorso a forme chiuse (quella del sonetto o della quartina, appunto), alla rima e all’endecasillabo, in un ideale rispecchiamento della sua arte musicale, costituita di libertà estrema e di richiamo alla tradizione, di giocosità e di severa costruzione architettonica; opere come questa che ci troviamo, felici, a sfogliare e a centellinare e che catturano la mente liberandola (oh verità dell’ossimoro e del paradosso!), ci restituiscono a uno spazio dell’arte e nell’arte in cui libertà e gratuità accompagnano i giorni, ricordandoci che esistere dovrebbe essere, anche, cercare accesso a livelli superiori di coscienza e quindi di creatività.

 

 

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Una tazza di caFFè che ne significa due

 

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Fotografia scattata da Yves Bergeret a Parigi il 17 dicembre 2016.

 

 

Il poeta, che attribuisce a sé stesso con convinzione e orgoglio tale parola, esplora, a passi lenti e lentissimi, la banlieue cercandone l’umanità e imbastendo lunghissimi dialoghi con gli esseri umani che la abitano.

Il poeta si porta in tasca un libro di René Char e, seduto al tavolino di un caFFè, osserva le persone, ne ascolta le voci, annota in un carnet la vita che, inarrestata, fluisce per quelle stanze vetrate, su quei marciapiedi ben visibili dal tavolino dove una tazza di caFFè dice la sosta e la meditazione del corpomente.

Il poeta mi parla di un tavolo di legno tra due finestre che dànno sulla vertigine dell’Oceano e di una bimba che gioca, felice, con la luce e con il salino; il poeta mi racconta d’arrampicate vertiginose dentro il corpo vivente della falesia e d’un altro amico e poeta, dalla monacale concentrazione.

Il poeta si porta nel corpo il dolore e nella mente intraprende un viaggio di traversata e slancio (non sempre risponde il corpo alle sollecitazioni, ma la mente è impaziente, tiranna talvolta, perché ha fame): la mente ha un’inestinguibile fame.

Il poeta ama poesie che nascano a quattro mani (quattro mani significano due menti che s’incontrano, due storie che si mescolano, due visioni che s’accostano, due andanze che si congiungono, due che s’intessono, s’incrociano, s’attraversano, si toccano, se desarrollan in fuga bachiana).

Il poeta canticchia Bach tra sé e sé, toccandosi la caviglia dolorante si ricorda di portare nei tendini e nei muscoli, nella pelle e nelle ossa la stessa mineralità della montagna del Vercors, la stessa polvere vegliata dagli animali sacri e dagli spiriti della falesia dei Toro nomu – come un taglio violento di coltello gli attraversa la mente la nostalgia e la voglia d’aria aperta, sconfinata, à la belle étoile

Il poeta vive nella poesia ogni istante della propria esistenza: qualche volta la sua giornatapoesia diventa scrittura, più spesso è essa andare, guardare, conversare: è cercare esseri umani, parlare con loro, ascoltarne la poesia del tono di voce e della loro vita mentre si racconta, quand’è raccontata.

Il poeta non si vergogna d’essere poeta (e perché dovrebbe? solo perché lo dicono i soloni dell’aridità, dell’avarizia e del coitus interruptus?) – egli legge lo spazio e, come i suoi amici Toro nomu, posa segni nella mente di chi gli parla, intanto che si disseta alle parole delle persone, ai loro gesti, ai segni che ogni persona ha sulla pelle, nei vestiti, nell’intonazione della propria parlata.

Il poeta, che guardando l’Europa ne vede l’inveterato razzismo, la vanesia superbia, l’esausto strascinarsi a esistere senza più slancio, l’inane crogiolarsi dentro smorfiosi intellettualismi, il poeta corrisponde, febbrile, con poeti che hanno mani sporche (meravigliosamente sporche) di quotidianità: ed è, per esempio, l’amico che sale sulla montagna a osservare, solitario e per giorni, il planare e l’involarsi d’uccelli d’alta quota e ne racconta, tornato a valle, con commozione immutata, con immutata convinzione.

Il poeta non sa che in questo momento, mentre pensandolo scrivo di lui, ascolto la voce di Mercedes Sosa e poi di Maria Farantouri e mi commuovo fino alle lacrime perché considero e riconsidero il loro coraggio e la loro determinazione, perché l’emigrazione ne ha marchiato a fuoco le menti e il giovanissimo poeta migrante approdato in Sicilia ha tra le mani una poesia a forma di carena che fende la notte e sfida l’odio ed egli, venuto dall’Africa, ha incontrato il poeta più anziano figlio d’Europa e insieme hanno parlato, scritto, dipinto. E la Sicilia, bellissima e stratificata, rimane immobile, incatenata a un suo medioevo senza futuro.

Il poeta, che conosce Praga e Lisbona, la Martinica e Cipro, che abita dentro stanze nobilissime escavate nella pietra millenaria delle mura romane e, contemporaneamente, due spazi minuscoli nel corpo secolare di Parigi, il poeta apre un libro di Elytis per raccogliere nel proprio sguardo l’andare incessante della poesia, l’orizzonte vastissimo del canto.

Il poeta invita volentieri a sedersi con lui chi, passando di lì, ha i denti cariati dalla bellezza della vita (e dalla sua agrezza). Miserabili i molti pallidi poetini che leggono solo sé stessi. Un’amica che racconti con lucidità ed entusiasmo di quando combatteva nel maquis, un’altra ancora, figlia di Russia, che offra nel suo caFFè buonissima birra gelata color d’ambra e scaffali ricolmi di libri, una tazza di caFFè che abbia sapore di Francia o di Turchia o di Grecia e che specchi in ogni sorso una nota di Bach, un verso di Frénaud, un segno che significa “montagnavivente”, un suono creolo antillano, tutto questo è atto di ringraziamento per ciò che esiste.

 

 

Facchetti

 

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Se Facchetti ancora s’invola
lungo la fascia del campo
penetrando poi nell’area di rigore
o prima del fischio d’inizio
scambia il gagliardetto della sua squadra
con quello del capitano avversario
ed è stretta di mano, promessa di lealtà –

i ragazzi sciamavano per Piazzale Loreto
felici dell’inizio delle vacanze estive:
certo i maschi avrebbero cercato
rettangoli di sterrato per dare calci
al pallone
fingendo indifferenza verso le ragazze lì vicino –

se il pallone spinto avanti, alti la testa e lo sguardo
a cercare il compagno smarcato,
il difensore in controtempo,
e San Siro a trattenere in gola l’urlo –

erompeva la voce rauca di Sandro Ciotti
fuori dalla radio a transistor
che il ragazzo si portava incollata all’orecchio
mentre traversava Piazza Fontana
deserta la domenica –

se Facchetti che senza timore ma con rispetto
guarda negli occhi Puskas e Di Stefano
tocca con grazia da violinista il pallone
a ruotare vorticoso nell’erba
a ricordare per sempre a chi è lì,
sugli spalti gremiti, che quell’istante
non filmato né fotografato
ha solennità di bellezza –

Milano attraversava inquietudini
la nebbia dei suoi inverni non
celava il cammino irrisolto
né i ringhi ritornanti di camicie nere
(eppure le bandiere per il 25 aprile
dicevano una promessa, uno slancio, un assenso) –

se c’è nuova fuga lungo l’ala sinistra,
il passaggio da orologiaio per Mazzola,
l’elevazione a colpire di testa il pallone
e piazzarlo tra palo e traversa
come se cinetica meccanica e balistica
fossero colorati sassolini da rigirare
fra le dita della mente –

i ragazzi si baciavano sul tram
rubando la tenerezza d’un pomeriggio nel cortile della Statale
al sole musicante sulle ringhiere
ai tesi tracciati e perfetti dei cavi per il pantografo
che vanno da qui alla memoria, dal fondo dello ieri all’oggi –

se il pallone calciato da Facchetti nel rettangolo di San Siro
ha andanze di ricordo,
la mia Italia, quest’Italia di cui scrivo,
ancora m’interroga, pretende ascolto, memoria,
apre furori.

 

È da moltissimi anni, ormai, che non seguo più le vicende del giuoco del calcio, né esse m’interessano. Tornano, tuttavia, cari ricordi da un’infanzia e da una giovinezza nelle quali il calcio è stato anche per me una passione. Devo a due poeti e a due loro testi la nascita di questi versi: il primo è Lutz Seiler e il suo poemetto Die Fussinauten (I Calcionauti), il secondo Claudio Pasi e il suo testo Tempo di guerra (La 17ª giornata del campionato di serie B, 1939-40) citato da Nino Iacovella in Latitudini delle braccia.
Uno dei tanti motivi che mi ha spinto a pubblicare versi dedicati a un uomo onesto e leale (Giacinto Facchetti) è anche la solidarietà e l’affetto che nutro, da insegnante e da padre, nei confronti dei giovani italiani che menti scellerate e disoneste continuano a offendere e umiliare.

 

 

Citera in inverno

 

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Citera in inverno torna ad appartenermi.

La distanza dagli occhi diminuisce se
l’inverno s’apparecchia
scacciando il superfluo e l’accessorio.

Citera in inverno ha una solitudine
che me l’avvicina:

bisognoso di sobrietà
l’ordine dei pensieri
acquista bellezza
di disertato mare.

 

 

Lenteur, lentezza, Langsamkeit

 

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(per Y. B.)

Lentamente:
il lento andare nella città
accresce lo sguardo
i luoghi si conquistano una loro geografia minuziosa
perché
una mappa va disegnata
passo dopo passo

il piede tocca il pensiero
lo sposta nell’ignoto e,
divenuto l’ignoto noto, ancora
avanti e avanti.

 

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Le tre foto illustrano l’installazione realizzata da Carlo Bernardini al Castello Svevo di Trani “Catalizzatore di luce, 2007″ e provengono dal bellissimo sito dell’artista.