Fa piacere ed emoziona vedere approdare tra le proprie mani una pubblicazione materiata da due fogli di sottilissimo e aereo cartoncino tagliati a mano, ripiegati a metà e cuciti sempre a mano in modo da ottenere un esilissimo libretto di poche pagine: in copertina è applicato un quadratino di carta lucida che riporta il particolare dell’opera completa, visibile all’interno nelle pagine centrali, anch’essa stampata su cartoncino lucido applicato a mano – si tratta della riproduzione di Terrazzamenti, carboncino su tela di Anna Mottarella, opera che dialoga con il testo poetico leggibile anch’esso nel libriccino intitolato Sponda retica, autrice Fiammetta Giugni, editore Gattili di Cologno Monzese.
Dopo molto tempo la carissima Fiammetta torna a pubblicare (seppure in edizione limitatissima) suoi versi e con grande piacere ne scrivo qui, da Via Lepsius.
L’opera di Anna Mottarella fa intuire che i terrazzamenti siano quelli dei vigneti che abitano la sponda retica, la Valtellina cioè che spesso è stata epicentro della poesia di Fiammetta Giugni e torna a esserlo in questo breve testo che celebra il coincidere tra forte presenza della natura, lavoro dell’uomo e tensione spirituale dell’uomo stesso e della poesia:
misericordie eterne
ha sparso la speculum justitiae
su queste balze ariose
dove i filari vitati vitali
disegnano horti conclusi
e fonti sigillate esplodono
in certe uggiose primavere
da misteriose polle
allagando invòolt e tabernae
– l’italiano, il prediletto latino e il suo dialetto valtellinese tornano a convivere anch’essi nei versi di Fiammetta e dicono di una presenza divina ed eterna (la speculum justitiae delle Litanie lauretane), di un disegnare (splendida scelta lessicale) che fanno i filari (si noti quel magnifico sintagma vitati vitali – vitis non può non rimandare a vita, la linfa che scorre nei tralci per dare alla luce i grappoli che saranno poi trasformati in vino è energia naturale e anche divina) – e i filari disegnano giardini coltivati (i vigneti) che terrazzano un territorio impervio eppure finemente lavorato da secoli dai viticoltori, orografia che accoglie nel suo invisibile ventre l’acqua, a sua volta elemento vitale, ma pure, talvolta, minaccioso (i Valtellinesi lo sanno bene…) eppure irrinunciabile: ecco perché l’elemento naturale, il lavoro dell’uomo e l’appellarsi di quest’ultimo alla presenza del divino donano la peculiare intonazione a questa prima strofa.
e allora fuori prepunti ai balconi
quando passa la madre di tutti
(quella madre operosa che un dubbio gusto
clericale ha vestito di bianco e di azzurro
togliendo alla sua vesta
quel tanto di logoro e cenere
e quel blu stinto d’uva
nel quale riflettere il proprio grembiale)
Ecco: il senso del divino, che da sempre innerva la poesia di Fiammetta, torna a imporsi prepotente nel suo varcare epoche e culture, saldando, anche grazie a una lieve ironia, la spiritualità intimamente legata alla natura con la propria profonda cultura cristiana che non ha nulla di limitante e di escludente, ma che, anzi, si apre ad accogliere o a recuperare proprio quei segni provenienti dal mondo naturale (pagani, potrebbe dire qualcuno – ma non si dimentichi che pagus è il villaggio abitato da quella comunità che non ha ancora perduto la consapevolezza della propria filiazione dalla natura) e dal lavoro dell’uomo duro, talvolta, ma sempre inteso a coltivare sé stesso assieme ai filari che terrazzano costoni impervi, eppure accoglienti – e coltivare è fare cultura, mettere a coltura le parole significa tracciare filari di versi.
Grazie a Yves Bergeret che ha voluto tradurre in francese e pubblicare il mio intervento Sul concetto di poesia-in-atto già apparso, in italiano, sulla Dimora del Tempo sospeso il 13 maggio 2020.
dédié à Yves Bergeret qui m’a inspiré ce texte
Ricordo una fotografia di Pietro Masturzo: sui tetti di Teheran le donne, al crepuscolo serale, cantano la loro protesta contro il regime. Le finestre illuminate dicevano di case vive e abitate, le terrazze trovavano voci di coraggio e di libertà. Era il giugno del 2009 e le persone, alle 22.00 in punto, salivano sui tetti e dicevano la loro protesta. Si muovevano rapide tra ombra e luci notturne, tra buio e riflessi dal cielo.
Una libera Repubblica allogata sui tetti e sulle terrazze potrebbe sfuggire, allora, all’occhiuta sorveglianza, all’artigliante controllo?
Ricordo le terrazze di Exàrcheia, nel cuore di Atene. Come si può rimanere dentro le stanze della casa quando una lunga stagione clemente invita a stare all’aperto, magari in alto, lontano dall’asfalto immondo ma rimanendo nel cuore della città-civetta? La sera e la notte vanno onorate nell’intimità di terrazze popolate di sedie e di volti amici mezzo nascosti nel buio baluginante di Sud-Est.
Una Costituzione della libera Repubblica dei tetti dovrebbe fondarsi sul piacere dell’amicizia e sulla sacralità della conversazione nella penombra di terrazze votate al culto di ἐλευθερία.