Via Lepsius

pagine di Antonio Devicienti: concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Mese: luglio, 2016

Diniego a entrare alla corte del Re

 

 

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Monsieur de Sainte Colombe ricevendo gli emissari del Re
(e frenando il carattere brusco che pur gli appartiene):

“Egregi Signori,
grato per l’onore offertomi
ecco
dirò ch’è preferibile io rimanga qui,
appartato nella mia casa
e nella musica.

Una misura di neve che scricchiola sotto
il piede m’è più cara
dei tappeti di Versailles.

Mia figlia apparecchia la tavola
per il desinare: vogliono essere nostri
ospiti?
Sarà parco il cibo, ma freschi gli ortaggi
ed eccellente il vino.

Le Loro Signorie non se ne capacitano, lo so, ma
Monsieur de Sainte Colombe ha di questi vezzi –
o malinconie:

la finestra che s’apre sul limitare
della foresta gli è quadro più caro
dell’intiera collezione regale

e il desco serale possiede attrattive
e consolazione senza pari”.

 

 

Yves Bergeret traduce in francese l’articolo “Sul concetto di langue-espace”.

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Il 17 luglio scorso pubblicavo su Via Lepsius un articolo in cui cercavo di chiarire innanzitutto a me stesso e poi agli ospiti-lettori il significato e l’importanza dell’impegno umano, poetico e artistico d’Yves Bergeret nel nord del Mali; il carissimo Yves ha voluto tradurre di propria mano e quindi pubblicare sul suo blog il mio intervento, corredandolo di foto di notevole significato e importanza; siamo stati in frequente contatto per chiarirci a vicenda alcuni passaggi del testo e spiegarci alcuni concetti o affermazioni ivi presenti e questa si è rivelata esperienza bellissima e feconda perché la scrittura e l’arte più in generale mi si confermano, proprio grazie all’attività d’Yves Bergeret e al suo insegnamento sia artistico che etico, necessarie e libere. So bene che l’amico poeta mi direbbe ch’egli non ha niente da insegnare e non si reputa un maestro, ma per me, che da Via Lepsius osservo un mondo in preda a violenza e odio e, d’altro canto, constato quanto vanesia e superficiale sia una grande parte dell’ambiente culturale che mi circonda, per me quella lunga esperienza in Mali e tutto ciò che ne deriva nell’impegno attuale dell’artista francese e lo scambio d’opinioni con Yves Bergeret stesso costituiscono l’orizzonte a cui guardo per sottrarmi al senso di soffocamento che avverto e per condurre anche la mia modestissima scrittura dentro il dolore del mondo. E ribellarmi contro ogni forma di rinascente razzismo e d’intolleranza.

Sur le concept de langue-espace

Sul concetto di “langue-espace”

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Il villaggio di Nissanata, nel nord del Mali (luglio 2003).

Riflettendo sull’impegno artistico d’Yves Bergeret non può non essere evidente almeno un elemento, per me fondamentale: la sua ampia e approfondita cultura di matrice francese (e quindi europea) muove con determinazione verso il superamento dell’eurocentrismo e in direzione d’un dialogo (non semplicisticamente teorico o di facciata) con culture finora tenute da noi Europei e Occidentali ai margini.

Nel momento in cui Yves va a vivere nel villaggio di Koyo (dove abitano i Toro Nomu, l’etnia Dogon più orientale del nord del Mali, costretta circa mezzo millennio addietro a sedentarizzarsi qui dall’etnia islamizzata dei Peul) compie un’immersione totale e necessaria in una cultura e nella relativa lingua; deve entrarvi in punta di piedi, quasi chiedendo permesso per timore di disturbare, deve conquistarsi la fiducia e la stima di quelle genti. Non è facile e non accade in breve tempo.

Ma accade.

Non dimentichiamo ch’egli è un Francese, discendente diretto dei colonizzatori. Ed è anche un uomo e un poeta che, nutritosi di Montaigne e di Rimbaud, di Char e di Frénaud, innamorato di Bach e di Holan, ha la volontà determinata di ripensare la propria cultura e scrittura venendo a confrontarsi (per desiderio di conoscere e di capire) con le culture subsahariane di un’ex colonia francese.

Incontra così (e pian piano ne riceve la fiducia) i cantori di Koyo. Immagino o provo a immaginare quei momenti: Yves entra in contatto con una cultura essenzialmente orale, ancora profondamente animista malgrado i frequenti (e non sempre pacifici) contatti con genti di religione islamica; i segni visibili della cultura Dogon sono pitture parietali, maschere rituali, tessuti e poverissime case d’abitazione nei villaggi sparsi tra deserto e altipiano. È una civiltà nella quale la ritualità scandisce e riempie di significato ogni atto umano e nella quale il contadino o il pastore è anche cantore e possiede le conoscenze necessarie per celebrare i diversi riti della nascita, della circoncisione, del passaggio, della sepoltura… S’intuisce facilmente, allora, come Yves Bergeret abbia imparato a conoscere una civiltà nella quale si continua una plurimillenaria coincidenza tra rito e canto, parola poetica ed esistenza – non vi si è verificata, cioè, la frattura tra performance propriamente poetica ed esistenza sia comunitaria che individuale.

Ma non basta: il canto sopravviene anche a narrare i fatti della giornata – e il canto connette l’universo umano a quello degli spiriti, mentre la pittura parietale probabilmente rende (rendeva, dato che di sovente la sua interpretazione è andata perduta) visibile la presenza di tali spiriti.

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Yves Bergeret ha così l’occasione di conoscere una civiltà il cui orizzonte culturale e cultuale è ancora unitario (pur con vuoti dovuti a una trasmissione interrotta o incerta delle conoscenze) e all’interno del quale la parola ritmata e cantata è naturale e condiviso modo d’espressione. Si tratta d’un contesto culturale che in Europa sopravvive o è sopravvissuto quale un “relitto” (uso qui un’espressione peculiare di Ernesto De Martino) – si pensi ai riti della Taranta nel Salento, per esempio, che sempre De Martino connette anche a riti nordafricani (si noti) e, attraverso di questi, al voudou haitiano.

Succede, ben lo si comprende, che Yves Bergeret, poeta europeo e in quanto tale profondamente condizionato da una cultura della scrittura e illuministica, entra in contatto con un universo, vivo e vivace e coerente al suo interno, che si può ricondurre e apparentare a tutte le esperienze culturali, cultuali e sociali che hanno caratterizzato l’area mediterranea (ma non solo), sahariana e subsahariana per millenni.

L’esperienza in Mali diventa per Yves di deflagrante verità: è l’assenza totale di qualsivoglia atteggiamento letterario nei cantori Dogon e, come Yves stesso direbbe, è la justesse della loro esperienza (in essa, lo ripeto, coincidono canto, racconto, ritualità, spiritualità, la comunità per prima non percepisce il canto come distinto dalla propria vita, ma al contrario come necessario e a essa connaturato) – juste è per Yves (ma il concetto è presente già in Char) qualunque esperienza che coinvolga la parola, purché tale esperienza sia con ogni evidenza necessaria e possegga una sua coerenza interna, ma rimanendo coerente pure con il sistema culturale e sociale d’appartenenza.

L’esperienza nel nord del Mali porta il poeta a congedarsi definitivamente da vezzi e abitudini mentali propri dei poeti europei; Yves Bergeret vive con la comunità e vi viene accolto, la langue-espace più che un concetto è (è bene sottolinearlo) un’esperienza, un itinerario e un apprendimento fisico e mentale: quelli che Yves esperisce in Mali sono spazi vasti ed essenziali, nudi se si tratta degli altipiani e del deserto, oppure altrettanto essenzializzati quando si tratta d’interni (abitazioni o luoghi per i riti) – in tal modo la parola cantata (sempre orale) dà continuità a una civiltà che s’accontenta (o deve accontentarsi) di pochissimi oggetti (quelli essenziali per la sopravvivenza) e che spalanca, viceversa, un patrimonio culturale enorme, complesso e raffinato, la cui salvezza è affidata alla memoria e alla trasmissione di generazione in generazione, esattamente come accadeva nella civiltà contadina fino a pochissimi decenni addietro, per esempio, o in molteplici casi ancora oggi nelle comunità Rom e Sinti.

L’espace è, dunque, anche questa profondità memoriale e quest’appartenenza della parola a tutta la comunità; per un poeta-dotto come Yves Bergeret è uno scavo dentro l’atto del canto, un cercare le radici della poesia contemporanea, un fare esperienza diretta di quello che doveva essere il “fare poesia” nei tempi omerici e pre-omerici.

È il griot e indovino Soumaïla Goco Tamboura a introdurlo, no, il termine esatto è a “iniziarlo” alle conoscenze e ai modi del canto. Egli vive nel villaggio di Nissanata dove sono concentrati gli “schiavi” (recanti tutti il cognome Tamboura) sottoposti da circa mezzo millennio all’etnia Peul – il villaggio di Koyo gli è interdetto e lui stesso non sa di chi è “schiavo”, a dimostrazione di una trasmissione ininterrotta, ma anche non sempre perspicua, di rapporti sociali e di nozioni culturali; il ruolo di Soumaïla Goco Tamboura all’interno della comunità è, ai nostri occhi d’Europei, particolare e complesso: da un lato è temuto e soggetto a una serie di divieti o tabù, dall’altro essenziale alla comunità in quanto cantore (in lingua Peul) e indovino – Soumaïla Goco Tamboura cerca di passare dalla parola “fluida e volatile” della cultura Peul della sua regione (la cultura, ricordiamolo, che l’aveva schiavizzato), alla parola “stabile e fondatrice” dei Toro Nomu, ché occorre comprendere quanto diverse e talvolta contrapposte possano essere comunità anche ristrette di esseri umani che da secoli pur vivono molto vicine.

Il legame con Yves Bergeret s’approfondisce, Soumaïla Goco Tamboura chiede insistentemente all’amico occidentale fogli quadrettati (il griot vive in una situazione di povertà assoluta – con sciocca retorica potrei affermare che le sue ricchezze immani sono le sue conoscenze e la sua voce di straordinaria bellezza, anche se proprio Soumaïla afferma più volte di “voler imparare”). Yves gli regala due quaderni di scuola e il cantore ricompensa l’amico restituendogli (o meglio, come Yves stesso s’esprime, “descrivendogli e offrendogli”) foglietti riempiti con disegni geometrici coloratissimi che rappresentano i “geni” e il sistema cosmologico ch’egli canta durante i riti e il cui stile Bergeret apparenta alle raffigurazioni rintracciabili sui prodotti tessili del villaggio – Soumaïla Goco Tamboura stesso è agricoltore e tessitore e su quest’ultima autodefinizione insiste (e proprio noi Europei, lo ricordo, impieghiamo da secoli la parola testo in letteratura…) Yves Bergeret si lega anche d’affetto a quest’uomo che sta dando vita, ben comprende il poeta francese, a uno straordinario tentativo di sincretismo culturale e religioso e Soumaïla Goco Tamboura sente la necessità e il piacere d’iniziare l’amico Yves ricorrendo, in via eccezionale, alla visualizzazione pittorica d’un universo religioso, simbolico e morale, il quale include anche i mestieri della comunità – il fabbro, il carbonaio – e che fino a quel momento aveva trovato espressione pressoché esclusiva nell’oralità – benché le pitture parietali rintracciabili nelle grotte della regione e che con altri cantori di Koyo Soumaïla Goco Tamboura cerca di decifrare facciano presupporre un tempo in cui la cultura di Koyo s’esprimeva anche attraverso la pittura parietale e il cui significato è andato perduto.  E se pensiamo agli altri cantori con i quali Yves Bergeret entra in contatto, persone che conoscono e praticano i riti della circoncisione e della sepoltura, notiamo la vicinanza e la solo apparente contrapposizione delle due funzioni proprio come già accadeva nelle civiltà preindoeuropee del bacino mediterraneo – e proviamoci a riflettere su figure appartenenti o appartenute al nostro stesso orizzonte spirituale e culturale (le accabadoras sarde, le macàre salentine, i serpari maltesi e siciliani…)

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“Langue-espace” esprime allora con chiarezza questo status per cui lo spaziotempo (il cronotopo) è di fatto, nella percezione della comunità, unità inscindibile.

Ma Yves Bergeret è costretto a lasciare il Mali: la sua sicurezza personale, in quanto occidentale, è in pericolo, la regione è preda delle incursioni di banditi Tuaregh e di tribù di fede islamica – lo stesso Soumaïla Goco Tamboura morirà durante una lite con tali “islamizzatori”.

Oggi Yves Bergeret ripensa la propria esperienza maliana, continua a renderla parte vivificante della propria esperienza poetica, etica, esistenziale. Lui stesso è uso dipingere grandi pannelli che colloca all’interno degli spazi dove recita ad alta voce i propri testi, spesso accompagnati dalla musica. Lo spazio del testo è, dunque, non quello piatto e disanimato della pagina, ma quello pluridimensionale del Battistero di Poitiers, per esempio, o degli spazi all’aperto di Noto Antica o delle chiese ipogee di Cipro.

La “langue-espace” non pertiene al poeta sedentario e rinchiuso in sé stesso: i “posatori di segni” (poseurs de signes) sono nomadi per eredità antropologica e per scelta (non ci si faccia ingannare dal loro appartenere a una comunità sedentaria o sedentarizzata: queste persone cantano un universo mobilissimo, politeista, seppur riconoscibile nei suoi tratti salienti e spesso – Yves lo ha dimostrato coi fatti – tra i migranti che approdano alla riva italiana ci sono poeti provenienti dalle regioni interne dell’Africa, stavolta costretti a farsi nomadi, a entrare con il loro francese appreso a scuola e con i loro numerosi dialetti-lingua-madre dentro il dialetto siciliano e dentro l’italiano che sono le lingue che incontrano sull’opposta riva) e Yves Bergeret appartiene alla poesia della migrazione per tempra personale, scelta culturale ed etica e ancora in questi giorni egli torna a prendere in mano i fogli dell’amico griot, a ritagliarne i disegni, a incollarli dentro piccoli taccuini sui quali scrive poesie brevi e aforismi, ai quali aggiunge proprie figurazioni colorate e lo fa spesso durante le sue appassionate escursioni nei dintorni di Die, l’amatissimo villaggio nelle Alpi francesi in cui vive per lunghi periodi dell’anno – ma, poeta-esploratore, Yves è capace dello stesso atteggiamento nei confronti delle genti e dei luoghi di Normandia, della periferia parigina, della Sicilia interna, delle Antille francesi… La “langue-espace” è tale se nasce dalla bocca della gente (un’amica tenutaria di un bar a Gentilly, i migranti in transito traverso la Sicilia, amici pittori e scultori, venditori al mercato) e se il poeta continua la lezione appresa dai cantori e dagli artigiani (spesso analfabeti o semianalfabeti) del nord del Mali.

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L’esperienza umana e artistica d’Yves Bergeret è cioè significativa e innovativa proprio perché mette in discussione da decenni il modo tutto europeo e occidentale di scrivere e di pensare la poesia e dimostra con il suo lavoro silenzioso e pervicace come un luogo apparentemente minuscolo ed estremamente periferico sia in grado d’esprimere complessi e raffinatissimi universi di senso e d’immaginazione. Il viaggiatore occidentale assume su di sé il compito di confrontarsi con il colonialismo di cui è, volente o nolente, erede e di superarlo offrendo alla sua stessa cultura di provenienza orizzonti capaci di ricondurla alla propria origine rimossa o perduta.

Se Yves Bergeret scrive versi all’alba del terzo millennio lo fa proprio all’interno di un “espace” dove dialogano la coltissima cultura analfabeta e contadino-pastorale di cantori Dogon e l’altrettanto coltissima cultura alfabetizzata e industrializzata di un parlante francese, di un Europeo. Lo fa preparando con cura, come in un rito, i colori e gli inchiostri, tracciando su taccuini (dei quali annota con precisione le dimensioni) versi e aforismi, fedele al legame ormai inscindibile con la natura intesa come ciclo delle stagioni e del tempo.

Quella d’Yves Bergeret è un’esperienza umana e culturale ch’intesse legami con molteplici esperienze di diversi luoghi del pianeta, che vuole riportare l’atto poetico alla sua complessità originaria: oralità della parolacanto, segno, danza, musica. È spazio che canta, è colore che avvolge, è parola scritta che tende ad abbandonare la pagina bidimensionale, è improvvisazione, è memoria, è un nuovo modo di pensare la geografia, di pensare l’Europa.

Desidero esprimere con quest’articolo la mia gratitudine nei confronti d’Yves Bergeret per la sua poesia e per la sua attività d’intellettuale e contemporaneamente ricordare le vittime della strage di Nizza del 14 luglio 2016 e ribadire il vincolo fortissimo che lega Via Lepsius a quegli aspetti della cultura e della storia di Francia che rimangono per me (come per molti altri, lo so) spaziotempo di civiltà, libertà, dialogo, curiosità, rispetto, apertura al mondo e a tutte le culture del mondo.  (A. D.)

Il presente articolo è stato tradotto da Yves Bergeret e può essere letto in versine francese nel suo Carnet de la Langue-Espace.

Vivere coi polmoni della parola

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Che cos’è un mondo? Una voce di poeta, per esempio e una casa sull’Isola di Kampa o in riva ai laghi di Ganzirri.

Per chi vive coi polmoni della parola un mondo è anche Praga e voce segregata di poeta o il periglioso attraversamento dello Stretto.

Un cerchio di pietre a saldare Europa a Sicilia, Sicilia a Mali, Mali a Sicilia.

E l’innocenza di Billy Budd (ch’è disciplina nell’esistere: se musica è geometria di variazioni – geometria per variazioni – il viso come prono sulla tastiera – che cosa significa questa volontà di geometria – l’eremita di geometria –  che cosa cerca questo lavorìo – Britten umile artigiano il viso avvicinato alla tastiera e comporre – a comporre – questa disciplina nell’esistere).

Da Via Lepsius a Poitiers, da Poitiers a Die, da Die all’immane Outremer e i poemi di Monchoachi, canto creolo e mescidato, ininterrotto andare e andando, sempre andando. E posare segni.

La piana vastissima della Loira. Le Alpi, biblioteca delle nevi. Il Mediterraneo olivo ferito a morte. Il Mare del Nord mentre distende silenzi.

(Certi nomi d’amici-fratelli vanno detti sottovoce, con commossa devozione: Soumaïla Goco Tamboura, per esempio).

(Ma anche certi nomi di Maestri, comuni Maestri: René Char, per esempio e il suo paese d’acque).

Per chi vive coi polmoni della parola e si porta l’altezza della montagna dentro, un cerchio di pietre non chiude, ma apre, non delimita, ma canta. Ed è la lingua dimora in cui stare a cucinarsi parco cibo prima di ripartire a incrociare altri viandanti, altri pellegrini-nell’-andare.