
Senza temere quella che potrebbe sembrare enfasi o retorica, da Via Lepsius segnalo la pubblicazione di un libro di raro valore sia per la grandezza (indiscutibile) del poeta – Michele Sovente – sia per la qualità del lavoro filologico e critico che hanno impegnato Giuseppe Andrea Liberti e la Casa Editrice Quodlibet (che non finirò mai di ringraziare quale presenza davvero luminosa nel panorama editoriale e culturale italiano ed europeo).
C’è un discorso sulla poesia e sui libri di poesia fatto anche di cura e di attenzione, di meditazione traverso la sedimentazione temporale, di fedeltà alla memoria. E, aggiungo, la casa Editrice Quodlibet (anche ispirata dalla suggestiva interpretazione agambeniana della poesia quale bilinguismo, quando non, come in questo caso, trilinguismo – e non per la ragione, banale, che Sovente scrive in lingua campana, italiana e latina) continua a seguire le tracce di una poesia sottratta a mode e proclami, ma seriamente inchiavardata nel corpo delle lingue e nel fluire del pensiero.
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Con la sua consueta gentilezza e attenzione (di cui di cuore lo ringrazio) Paolo Ottaviani invia questa sua nota critica, già apparsa su Literary nel 2009 e dedicata a Carbones, altro capolavoro di Michele Sovente:
E’ noto come l’apparire della poesia in un testo scritto sia del tutto indipendente dalla lingua usata, dalle forme metriche che emergono dal caotico formarsi dei suoni e dei ritmi, e persino dall’oggetto, dalle eventuali storie, sentimenti o emozioni narrate. Assai meno noti sono i meccanismi attraverso i quali un’unica sorgente poetica possa contemporaneamente inverarsi dentro diverse lingue e distinte strutture metriche. Vi è un nesso perennemente sfuggente tra il manifestarsi della “res poetica” e le forme nelle quali questo apparire si solidifica per consegnarsi alla visibilità dell’essere. Il mistero si infittisce quando uno scrittore, nel nostro caso Michele Sovente, ci consegna un testo trilingue Carbones dove la poesia si insinua e fugge, rimanendo intatta nella sua irraggiungibile leggiadria, da ogni contesto linguistico: il facile e suggestivo latino catulliano riletto alla luce delle laudi medioevali, il dialetto campano dei Campi Flegrei reinventato e piegato alle proprie insopprimibili necessità espressive e la lingua del Novecento letterario italiano. Tre impetuosi torrenti linguistici per accogliere l’acqua di un’unica pulsione poetante: erano davvero necessari? Si sarebbe tentati di dire che l’ictus originario della poesia trovi la sua naturale solidificazione negli intriganti suoni dialettali della terra natia e che il resto sia faticoso lavoro di autotraduzione: la sonora e schiva bellezza di “tramènte c”a luce scurnosa luntano accumpare” invano si ritroverebbe nel didascalico latino “dum longe lux apparet silenter” e sparisce in quell’italiano semiaulico di “mentre lontano la luce in silenzio appare”. Eppure il fascino di un endecasillabo “fervono nella memoria gli amori” non è restituito dal pur accattivante “tramènte ca jarde ll’ammore”, ma risuona potente nel “dum fervent/in memoria amores…”. Che dire? La poesia si conferma sovranamente indifferente anche al poeta che, labore atque studio, è in sua perenne ricerca. Stavolta si è voluta posare qua e là, saltando leggera tra “Carbones” accesi e ceneri spente.