Abitare la sillaba Tà

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

 

Gianfranco Ferroni: Ciotola nera, 1991.

 

 

significa andare ad abitare la poesia della spoliazione e del silenzio prima ancora ch’essa si dia a vedere, prefigurarsela nel -glio presente fin dal titolo, poesia (non raccolta, dunque, men che meno silloge) poesia-poema che si dischiude per spiragli (tagli anch’essi per lo spirare di fiato e di parola, ma pure di luce e di buio, dipende) e che si dà a vedere come la neve che possiede la lingua del silenzio e del bianco.
All’origine dei tolki c’è questa poesia pensata come spazio («luogo austero. Forse una casa, forse una ex-fabbrica… una futura scuola o lo scantinato d’un teatro. Forse un vecchio monastero. È un luogo limitato da assi, chiuso da lenzuola…» p. 11) – ed è semplice e bellissimo pensare la poesia come spazio, bellissimo riuscire a vederla, a vederlo: inoltrandosi nella visione-ascolto (ché questo spazio è abitato da parole, poche, pausate, spesso reticenti, spesso rasciugate, ma parole) ci si inoltra in uno spazio in qualche modo familiare perché čekhoviano e beckettiano, ascetico ma non per questo privo o dimentico di passioni e di dolori, di desideri e di memoria.
Abitare la sillaba Tà significa venire ad abitare un luogo bianco (ogni cosa può accadervi, ogni voce esservi accolta, ogni movimento disegnarvisi) vibratile di rimandi, allusioni, echi: «Ognuno metà santo, ognuno metà imperdonabile. […] Ma ora a guardar bene, qui c’è solo neve… c’è solo tanta neve» (pp. 12 e 13) – Cristina Campo, Paul Celan, l’Andrej Rublëv di Tarkovskij, il suono che si tramuta in silenzio, che cerca il silenzio o l’ascesi della semplicità come nella musica di Anton Webern, come in quella di Arvo Pärt.
Abitare la sillaba Tà significa contemplare gesti minimi, al limite dell’immobilità, forse anche una danza butō ma deprivata dei movimenti improvvisi e convulsi, una danza bianca e dai gesti lenti, quasi reticenti – i tagli (gli spiragli) di Lucio Fontana aprono abissi nello spazio della poesia (“C’è l’infinito, là dentro…” recita uno degli esergo del libro e sono parole, appunto, di Fontana).
Entrare con lo sguardo e con l’udito, raccogliere minimi, quotidiani oggetti (netti ed evidenti nelle loro sagomature come gli oggetti dipinti da Avigdor Arikha) e farsi guidare da loro come fossero talismani per venire ad abitare lo spazio spoglio della poesia.

Entrerò nelle tue orecchie
dormirò nelle tue mani

Sale il bisbiglio
rampicando fino in cielo…

Cosa fai, benedetta figliola
ti metti a sognare, adesso? (p. 42)

Il vento si gira a guardare

Troverai qualcosa per terra

che so, una forbice, una chiave

o forse la catena del cancello

forse la foglia verde…

Intanto, prendi da me questo occhio

guarda (p. 113)

S’accende la fiammella e quest’antichità
non passa, torna la nevicata

La bella nevicata ti coprì sul nascere
tranquillo è l’albero, nel battito serale

Potrai tornare al nocciolo
vedrai nel cielo la grande schiarita

Non c’è al mondo niente di più bello
del tuo ovale solitario, del tuo braccio solitario
del tuo sonno scuro tra gli alberi (p. 148)

Abitare la sillaba Tà significa ascoltare i dialoganti monologhi dei tolki, partecipare della loro attesa, essere vestiti, come loro («Li riconosci dalle tute, dai grembiuli collettivi» p. 12), di spartane vesti, di laconiche parole. E significa sospettarne (ma forse mi sbaglio) affinità con i Trasparenti chariani perché capaci tutti di abitare la poesia quando questa è quotidiana comune solitudine di gente comune, di persone che si chiamano Attè, Inna, Usov, Katrìn, Antòn, Olin e hanno l’età della terra, della neve e degli alberi. Oppure dentro questa spoliazione di spazi e di parole può venire ad abitare anche il nome di Kaspar Hauser, chissà, o quello del Van Gogh-Mistral di Ida Vallerugo.

Il cancello era nero, era spalancato

Lei aspettava la grande ombra
ma il gigante era dentro
era passato dalla porticina

Ora due servi vivono nella tazza
vivono soli, là nella grande tazza (p. 46)

C’è una casa al limite del bosco, il vento
soffia l’acqua contro i vetri

– Mi sai dire chi abita lì? –

Quelli siamo noi come eravamo mille anni fa
come saremo mille anni fa

Ti ricordi lo sgabello, la forcina per terra?

Qualcosa di più alto ci consola, ci consola vedere
un risveglio così semplice (p. 115)

Ognuno se ne sta
come un bicchiere
al suo posto, al suo posto
aspettando che venga
una mano

al suo posto
vedremo uno stelo

il cielo è scosso
dal breve rifiorire
dall’improvviso
rompersi del vetro (p. 120)

Abitare la sillaba Tà e ricordare le opere di Gianfranco Ferroni, ascoltare la sillaba Tà («come la lancetta che si sposta […] come un taglio nella tenda […] come tavolo, talamo, tasca […] come fine d’eternità… realtà, libertà… volontà… verità, vanità, carità, carità, carità!» pp. 11 e 12) e ricordare le fotografie colme di neve di Abbas Kiarostami, pensare luoghi santificati dal lavoro e dal silenzioso vivere quotidiano come un’officina, una bottega di sarto o di falegname; prestare orecchio ai suoni del mondo e alle sue lacerazioni.

Vi serva di lezione il grido dell’ebete nel bosco
i capelli come paglia, come paglia al fuoco

Un nido

Chiaro è il timbro della voce, dai piedi sale il discorso
Vi serva di lezione il grido dell’ebete nel bosco (p. 122)

 

Ovviamente il libro è: Ida Travi  Tà – poesia dello spiraglio e della neve  Moretti & Vitali Editori, Bergamo 2011.