Note di lettura a “bottom text” di Antonio Francesco Perozzi

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

          All’interno del Sedicesimo quaderno italiano di Poesia contemporanea (Marcos y Marcos, Milano 2023) è pubblicata la raccolta di Antonio Francesco Perozzi   bottom text   (scritto proprio così, senza alcuna iniziale maiuscola – da pagina 285 a pagina 332 con Prefazione di Gilda Policastro).

        Articolato in tre parti (installazioni, stanze, anime) il lavoro potrebbe essere interpretato secondo l’idea di “terzo paesaggio” proposto da Laura Pugno in questo suo intervento pubblicato sulle Parole e le cose (a sua volta assaggio del volume edito da Nottetempo); scrive Perozzi già nel testo incipitario: «Ho un’immagine che mi sono costruito da solo: / sono delle sfere di metallo / grandi, sospese / venti metri sulla zona coltivata. / Le vedo – nel pensiero – salendo / sul bus che costeggia il Piave. / Il Veneto si presta a scavare allegorie / di questo tipo nel cielo – ad esempio / il tramonto qui è cianotico, / blu-viola, basso, cloud, robe del genere. / Oppure i tralicci dell’Enel che svettano sul grano / ancora non uscito […]» (Sfere metalliche in volo, p. 293) – bottom text è una sequenza di testi in versi che si confrontano in maniera diretta col paesaggio industriale e postindustriale («[…] diverse anse del basso Piave sono colonizzate / da capanni, voliere in cui raffinano la ghisa» (Industrie del basso Piave, p. 303) e anche (passaggio fondamentale per capire e apprezzare questo lavoro di Perozzi) col paesaggio psichico che ne risulta; l’autore sonda gli effetti sulla percezione e sul pensiero provocati sia dall’esperienza quotidiana che si muove tra capannoni, tralicci, periferie di città industriali, sia dal contatto costante con mezzi come i televisori, i computer, i telefoni portatili – ne deriva un paesaggio culturale e percettivo che la scrittura scandaglia e rappresenta dimostrandosi la scrittura stessa un lucido strumento di ricognizione e di presa di coscienza, un’indagine sulla percezione del reale iperinformatizzato come va profilandosi in questi primi decenni del millennio. 

        Significativo è, infatti, che il testo poc’anzi citato si chiuda con i versi «[…] io e l’autista / ci inoltriamo fino alla gola / e niente è più traccia di niente», stallo o difficoltà dell’atto conoscitivo che caratterizza tutta la silloge la quale, dunque, si muove tra l’impiego del linguaggio e della sua strutturazione in versi per penetrare il reale e il riconoscimento del fatto che tale operazione si conclude con un fallimento o, comunque, con un’approssimazione non del tutto sufficiente al reale – ma, a ben guardare, già questa raggiunta consapevolezza e la sua rappresentazione in forma di testo costituisce una presa di posizione anche ermeneutica perché proprio il testo è il referto di un tale stato delle cose posto innanzi al lettore che possiede la necessaria distanza e i necessari strumenti razionali per continuare in proprio l’operazione impostata da Perozzi.

 

Pali della luce

Cose come il rame e l'allucinazione
sono connesse nell'intimo.
Per ricreare artificialmente il giorno
si ricorre infatt a piastre d'acciaio
e fasci di rame che sanno spostare energia.
Questa è l nostra esperienza dlela luce:
qualcosa che spinge dal suolo, a intervalli,
e staziona in placche trasparenti;
qualcosa da manutenere.
Così vi raggiungo la notte
spezzato ogni quattro secondi
da un'illuminazione che è falsa.
(p. 294)


        Come si può constatare un filo conduttore (l’avevo anticipato) è costituito dal tema della percezione condizionata da situazioni create “artificialmente” e dei paesaggi (esterni e interiori) che ne risultano. Passaggi come «[…] L’impegno che mi prendo / è di schiacciare il pensiero – qualunque pensiero / – sulla scorza interna del cranio, o dei neuroni, non so. / Così il bidone mi appare bello solido, / il cemento battuto, il giorno caldo» (Generico, p. 295) oppure come «[…] / Ora c’è qualcosa di saldo e le plastiche / promettono eterna sicurezza, sono l’Eden / disseminato e i continenti, in barili, / formando isole al largo. / […] / Quando la fine arriverà – e, sì, arriverà – / sarà sgargiante, e noi pronti. / Tutti i nostri desideri finalmente confezionati / in capsule Dixan infrangibili» (Materiale resistente, p. 296) descrivono paesaggi della contemporaneità completamente artificiali e che hanno effetti fortemente condizionanti sulla psiche: «[…] le filosofie del loop infinito, / questo fatto di sentire l’ulteriore / camminando in un bosco o stesi / ci ripugna» scrive Perozzi nel medesimo testo.

        L’io che spesso affiora nei testi è quanto di meno “intimo” o “interiore” o “soggettivo” si possa concepire, dal momento che l’intero lavoro è un movimento di distanziamento e di oggettivazione, una sorta di nouveau réalisme i cui materiali assemblati sono trattati con estrema lucidità (tengo a ribadirlo) e con la consapevolezza di chi impiega il linguaggio mostrandone anche i limiti rappresentativi e conoscitivi, ma che, nel fare questo, riesce a mettere a nudo i meccanismi del reale in cui tutti ci muoviamo. È perciò che l’io che osserva il televisore mentre il padre lo ripara in giardino («[…] Vedo, almeno, / queste centrali, il retro dei programmi, / come sarebbe l’ordine globale / a partire dalla scocca» Televisore LG 50PG6900, p. 297) e che conclude «Non lo so dire, / ma avverto dai quadranti scoperti / nuove notizie arrivare» è un io che usa un linguaggio di registro medio con numerose inserzioni di frasi fatte ed espressioni comuni, maschera che Antonio Francesco Perozzi indossa proprio per rivelare i livelli di inconsapevolezza e di mancanza di coscienza critica, proponendo così una modalità di scrittura in versi che sia, viceversa, coscienza critica e contestatrice; mi spingerei a parlare di un’ironia e di un sarcasmo che innervano i testi in quanto Perozzi assume il punto di vista sia mentale che percettivo di chi dice “io”, ma ne vede bene i limiti e i condizionamenti che lo dominano. «L’esperienza più radicale» è infatti «entrare in un ferramenta / a sera, a luci spente sulla strada, e scorrere / i reparti cercando chiodi» (Assortimento di oggetti in metallo, p. 298), passare in rassegna la merce offerta alla vendita e concludere «[…] Poi do al cinese i soldi che vuole / e nell’aria ghiaccia di novembre come una lima / nel timpano mi parla di atomiche, di Shinkansen» (ibidem) – la “lima” facendo riferimento anche alle linee ferroviarie dell’alta velocità del Giappone anticipa un altro Leitmotiv della silloge legato alla popolarità di quegli aspetti del mondo nipponico che hanno grande successo in Occidente, compresi gli anime, vale a dire i lavori di animazione che non a caso danno il titolo alla terza parte di bottom text.

 

 

Infrastrutture + vegetali

Tutta la mia vita in Veneto
è stata avvicinarsi a una cosa:
arbusti verdi e calmi posizionati
sugli edifici, fiori paralleli alle travi
blu del ponte, micro-foreste sui terrazzi.
[…]
Ma non c'è conflitto.
Ho imparato così la vegetazione
avere qualcosa in comune coi nonluoghi -
figurano al limite e si lasciano
abitare. Da quando sono rientrato
ho pochissimo da dire.
(p. 299)

        Questo testo mi appare come uno dei centrali sia perché enuncia perfettamente il concetto di “terzo paesaggio” in relazione alla scrittura (focalizzazione sui margini, i limiti, le porzioni pressoché invisibili di territorio, su fenomeni che si producono come seguendo un’anarchia di vita e di senso), sia perché si afferma esplicita la scelta del Veneto quale sfondo di questo dire in versi, ma, mi sembra, è un Veneto paradigmatico di una realtà contemporaneamente industriale (e postindustriale) e periferica, mercantile e alienante in quanto l’io appare spesso reso cosa tra le cose o, più precisamente, merce tra le merci, prigioniero di un impotente malessere e la lotta politica è depotenziata: «Siamo io contro i colossi economici / nel discorso che mi porto sempre dietro, / che mastico sotto gli altri / […] / Ma è qui / che le aziende mi sanno colpire, nei momenti / di emicrania» (Emicrania con marxismo, p. 300) perché l’emicrania provoca paesaggi mentali confusi e, in definitiva, paralizzanti: «[…] Gli occhi chiusi / accelerano i processi della storia, / vedo come maree alzarsi architetture / che sono segni del futuro, credo, / la vittoria finalmente di noi sconfitti / in partenza / […] / […] e faccio tutto per dissolvere / il diluvio in questi affreschi neurali / di astronavi e contadini, di noi impadroniti / di nuovo del nostro tempo,e dei campi / […] / E per qualche minuto esisto come lotta / tra un gigante progetto installato / in me da qualche parte e i vortici gialli / che dietro le palpebre tirano a terra» (ibidem).

        In qualche modo in Città viste dall’alto (p. 301) si potrebbe scorgere una mise en abîme dell’intera silloge: «[…] / Per fortuna esistono strumenti di elevazione, / ad esempio gli elicotteri, i droni, le funivie – / e da ogni strumento la verità / così come lo strumento può tagliarla. / Raggiunto il Faro voltiano Como ci è apparsa / di carta, compresa / dalla linea delle vecchie mura. / Nelle città viste dall’alto / non vivono gli uomini ma i criteri / per farli morire» – gli “strumenti di elevazione” si offrono nella duplice accezione sia ironica che allusiva; intendo dire che l’ironia (per esempio Marco Giovenale docet) è ormai irrinunciabile in poesia se non si vuole scadere nel ridicolo di una scrittura attardata e passatista, ma si vuole contemporaneamente alludere alla necessità di strumenti che “elevino” lo sguardo sul paesaggio contemporaneo che è ormai in gran parte antiumano e alienante (ovviamete non si tratta di un “elevarsi” di carattere morale o pedagogico, ma conoscitivo e critico, affilatamente critico).

        Il discorso portato avanti da Perozzi è, ovviamente, anche scopertamente politico, non solo per riferimenti espliciti, ma soprattutto per come esso è impostato proprio nella sua tensione conoscitiva: «L’aria è di proprietà della Vodafone / e di altre compagnie telefoniche. / […] / Ma ora la salute dell’aria è scoperta / un artificio: trattiene in verità dei flussi, / delle reti trasparenti al di sopra delle teste / […] / […] Un sogno sarebbe un magnete / in grado di intercettare, se sollevato, l’onda del linguaggio. / Sapere così, con un bastone, / chi ha messo le molotov nella Diaz» (Campi di telefonia mobile, p. 302).

        Altrettanto coerente è allora la seconda parte che, tematizzando in maniera esplicita il meme cui il titolo dell’intero lavoro rimanda, mostra la serialità allucinata e allucinante dei fabbricati e del paesaggio contemporaneo (negozi, centri commerciali, appartamenti, stanze in cui si lavora o si abita): «Alcune abitazioni possono essere lette / come fossero dei meme. […] / […] / Se poi avere un serbatoio di immagini / cui attingere, di Shrek deviati e cartoni dell’infanzia / moificati, sia un bene non lo so. / Ma: i nuovi palazzi a schiera sono dei meme / perché si ripetono con scarse variazioni. / E: tutto ciò che possiamo dire o fare è il bottom text / di quei meme, la parte in calce, / la deduzione di qualcosa di fabbricato da altri» (Variazioni nell’edilizia, p. 310). Ed è dato leggere: «{…] / La Calabria si misura in realtà / pianificate di colpo / interrotte. […] / […] quando percorro la distesa / mi vengono incontro mostrando le ossa, / ovvero i pilastri grezzi come costole, / scale mozzate a ridosso del cielo» (Ecomostri, p. 311), oppure: «Radicati nella mia psiche sono i bracci delle gru / che asportano materiale, intagliano una fossa / qui dove una volta c’erano lamiere» (Stanze II, p. 312) e la memoria delle stanze dell’infanzia, delle case di famiglia perde ogni eventuale traccia di sentimentalismo o di nostalgia, tutto viene ricondotto a spazi geometricamente limitati e seriali, meme, appunto, cui la scrittura funge da testo in calce, in cui Reddit e simili costituiscono la “nuova” socialità e possibilità espressiva, Android «la grande rivoluzione» (Spirito Android, p. 319 e siamo nella terza e ultima parte di bottom text) dato «il completo controllo del sistema, / l’interfaccia liquido e intuitivo, / questa facilità di ottenere una guida» (ibidem) – sottolineo che, a differenza di molti poeti attivi negli ultimi decenni, Perozzi non introduce termini dell’informatica e dei social in maniera forzata o per far apparire la sua scrittura “aggiornata”, ma dà vita a un processo serio e meditato di necessario e ineludibile confronto da parte della scrittura in versi con, appunto, i nuovi paesaggi anche lessicali e, soprattutto, percettivi e psichici sorti negli ultimi decenni; non si tratta di “adeguare” la poesia al “nuovo”, ma di cogliere i nodi fondanti di una realtà che ha definitivamente cessato di essere tardo-ottocentesca e novecentesca e portare la scrittura a reagire – la proposta di Antonio Francesco Perozzi mi appare molto seria e capace di porsi quale esempio da studiare.

 

 

 

Passeggiata + internet

Tenere in tasca uno Xiaomi produce cosmi.
Capita che attraverso il paese
da casa mia in collina fino alla piazza
e mi pare di avere Chernobyl sulla coscia, non lo so,
come un dio che chiuso Instagram si sparpaglia.
Incontro nell'ordine: due mucche, una Hyundai,
mia zia, certi che odio.
Ma chiunque saluto è niente
rispetto all'arcangelo quadrato che mi accompagna.
Così il vento mi batte le tempie e il mio cranio
ha trentamila anni, è un tipografo fiammingo;
in salita faccio fatica ma le mie ossa
le trapassa una freschissima Via Lattea.
(p. 321)

        La versificazione libera, il lessico quotidiano privo di abbellimenti anche stilistici, la perspicuità dei contenuti, il ritmo del dire dettato soltanto dagli a capo dei versi porta alla costituzione di testi di relativa brevità e che focalizzano situazioni ben determinate, come se la “poesia” fosse ormai destinata a risolversi in prosa (anche a tal proposito si pensi alle riflessioni di Marco Giovenale) e, nell’accogliere un numero sempre maggiore di termini e concetti diffusi nel web, si lasciasse assorbire nell’universo digitale e/o virtuale costituito da oculus (p. 322), dalla dubstep (p. 325), da Geomag (ibidem), dai Pokémon dell’infanzia (p. 326), da Street View (p. 327), da The flight tracker (p. 330) – «Credo che accoglierò la realtà aumentata / come naturale prosecuzione dei sogni / da sveglio che faccio già, loro applicazione / tecnologica» (Mindscapes, p. 322) – ma proprio facendo oggetto dei propri testi questi paesaggi mentali Perozzi continua a usare la scrittura come momento e strumento di distanziamento e di oggettivazione, prosegue a dire “io” («[…] / Ad esempio con Street View cado nel corpo / di un biker tra le foreste di Yamanashi, / Giappone, e i suoi occhi li sento nei miei» – Prefettura Yamanashi Google Street View, p. 327) o “noi” («Conosciamo la violenza più turpe / grazie a puntuali canali Telegram» – Profondo gore, p. 328), ma persegue e raggiunge il fine contrario dell’identificazione e del soggettivismo: brechtianamente mostra, analizza, guadagna coscienza, sottilmente (e ironicamente) accenna a timori (o speranze) di apocalissi come quella, per esempio, in cui il sole si dilati fino a lambire col suo fuoco la terra «con le schede madri arse e ovunque / l’aurora» (Tempeste solari, p. 331). I paesaggi mentali e virtuali creati nella psiche dagli strumenti digitali e, soprattutto, dalle loro diverse applicazioni così capaci di pervadere e dominare ogni momento delle giornate di milioni di individui sono, in ultima analisi, fragilissime realtà, veramente la scrittura sembra rivelarsi un ironico e pietoso bottom text in calce ai miliardi di meme in cui si è trasformato il vivere perché proprio la scrittura conserva la capacità di prendere le giuste e necessarie distanze per capire e, come minimo, sorridere di realtà forse aumentate, ma probabilmente inautentiche e alienate.

NOTA: l’immagine in apertura è una fotografia di Josef Sudek, la seconda fotografia è di Thomas Ruff.