Fratelli rabdomanti: su “Come colui che teme e chiama” di Nanni Cagnone

 

          Non m’interessano qui categorie critiche né metodologie più o meno raffinate perché sono giunto alla conclusione (personale e discutibilissima) che una delle ragioni dell’unicità della scrittura in versi di Nanni Cagnone è ch’essa resiste pervicace a qualunque indagine autoptica, decostruttivista, psicoanalitica, strutturalista, et cetera et cetera.

          Essa è.

          Cagnone dichiara quanto «lo innervosisca che i commentatori sian usi a citare versi dei commentati (se non altro, perché non si può provare alcunché tramite esempi)» (nota finale ad AntiCamera di Rune Christiansen, La Finestra Editrice, Lavis 2015, p. 127) e dichiara anche: «Sono stanco di sentir dire silloge, o raccolta, un libro mio» (Chiarimento a Come colui che teme e chiama, Giometti & Antonello, Macerata 2023, p. 5) – da parte mia non potrò però sottrarmi dal citare (cosa che, forse innervosendolo, ho già fatto con abbondanza nei miei interventi precedenti sulla sua scrittura), ma certamente mi proverò a parlare dei suoi libri recenti, e in particolare di Come colui che teme e chiama, quali organismi (definizione d’autore rintracciabile in più luoghi della sua opera) che per ciò stesso vanno osservati, percepiti vivere, esperiti nel loro «ritmo, dispositio, torsioni sintattiche, imprese ellittiche, slogature della lingua, transizioni pronominali (quell’oscillare che forza dialogicamente l’inevitabile monologo)» (ibidem).  Leggi il seguito di questo post »