La scintillante nobiltà del sonetto: su “Pallide pietre” di Federico Pietrobelli

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

          Con Pallide pietre (Transeuropa, Massa 2023) Federico Pietrobelli s’inserisce con autorevolezza nel novero di quei poeti che, fedeli alla tradizione dell’endecasillabo italiano e a quella del sonetto, con estrema consapevolezza ricorrono alle forme chiuse e a un lessico rigorosamente selezionato e proprio in anni in cui con altrettale autorevolezza le scritture di ricerca sia eredi delle neoavanguardie italiane che ispirandosi al panorama internazionale sembrano contestare e spesso ironizzare contro quelle medesime forme chiuse. 

          Da appassionato lettore seguo con grande interesse la pubblicazione di libri che sembrano porsi su fronti differenti quando non esplicitamente opposti, sforzandomi di riconoscervi la forza liberatoria del pensiero che si esplicita in linguaggio e sul linguaggio (sui linguaggi) si arrovella per proporre una testualità mai banale, mai conformista, mai scontata.

          Ecco allora che Pallide pietre, pur articolandosi in numerosi componimenti in versi endecasillabi strutturati il più delle volte in forma di sonetto, si dà a leggere non come una silloge, ma secondo un andamento poematico continuo e complesso confermato dal frequente ricorrere del sonetto caudato, quest’ultimo rinforzato in un caso per dir così “estremo” da ben quindici terzine dopo le due tradizionali; c’è un’occorrenza di un testo articolato in tre quartine, un’altra di un componimento in diciotto versi con il settenario quale metro ricorrente o di riferimento, una ancora di un testo di venticinque versi, un’altra di tre quartine e un distico finale, ma per il resto si è sempre davanti alla forma-sonetto classica o, in alcuni casi, al testo di quattordici versi pur non suddivisi in strofe.

          Esiste una celebre terzina goethiana che chiude un componimento intitolato proprio Il sonetto e che recita così: «Chi vuole cose grandi deve sapersi dominare; / nella limitazione si dà a vedere il maestro / e soltanto la legge può darci libertà»; è come se Pietrobelli avesse voluto dar seguito a questa autoimposizione e come se, continuando la nobile tradizione del sonetto (non solo Jacopo da Lentini, Dante, Petrarca, ma anche Shakespeare, Góngora, ovviamente e poi certe riprese e variazioni novecentesche di Ungaretti e Montale fino all‘Ipersonetto di Zanzotto e, anche, di Pier Francesco Uliana) Federico Pietrobelli ne volesse indagare le ancora intatte possibilità, le ancora possibili variazioni, come se volesse sperimentare all’interno di forme chiuse e consacrate dalla tradizione nuove aperture e nuove sprezzature.

          L’arduo discorso che infatti si dipana in Pallide pietre riguarda il farsi e il manifestarsi della poesia stessa, il venire alla luce della parola (il più possibile esatta e originaria, ma spiegherò presto secondo quale strategia espressiva l’autore ne dice), il rapporto di chi scrive con la scrittura e con le radici più profonde della lingua e della cultura cui appartiene, la sua relazione con le forze anche psichiche che sottostanno al vivere e al pensare.

          L’amore per la poesia (Pietrobelli mi sembra un autore che, mallarmeanamente, ha letto tutti i libri, ma senza la nausea conseguente, anzi con una sete ancora inestinguibile) e l’amore per la lingua italiana muovono i versi, li organizzano in una serie di espressioni eleganti e immaginifiche, trasparenti per una sorta di loro connaturata levità eppure pregnanti, tali espressioni e immagini poggiano poi su una sintassi rigorosa e complessa, si strutturano in quartine e in terzine e, giunti all’ultima sillaba, spesso è come si accorgessero di avere ancora bisogno di spazio ulteriore per il dire, che il ritmo e l’ampiezza del discorso devono continuarsi in “code” che, appunto, dilatano il sonetto, lo agganciano al successivo, di testo in testo, di pagina in pagina costruiscono il poema intorno a come si materializza un poema e a come, nascendo, la parola diventa forma sonora strutturata.

          Se ora andiamo a leggere il primo testo appartenente alla parte più ampia del libro intitolata Nuovi canti, possiamo raccogliere subito un buon numero di elementi utili all’attraveramento del libro:

 

Tarda, la notte riapre lo sguardo
ai naviganti nel segno celato,
vivi nel soffio dei vivi, che scioglie
le alte vele sui lidi dell'addio.

Tu sullo stretto, altre volte hai vissuto,
o sull'istmo dei regni, una congerie
di ossa e ori, quando marea è bassa
e affiora il fasto di ogni rotta d'uomo.

Vieni. Ma l'altezza è di chi è solo
- alza al volto la conca: solo il solo 
conosce il solo – e nell'eco: in fondo

al solo, niente – ma guarda: coralli,
porpora, perle – e nell'eco: niente, niente...
che ora incanta il cuore a un bimbo

che a riva ammira, mai visto prima,
il montare del mare, ed è un soffio
che lo sveglia, nel sogno, al largo, al largo...
(p. 7)

          L’esergo di Pallide pietre è costituito da sette versi dal XXXI Canto del Purgatorio: Dante vi esprime l’incapacità, anche di chi fosse eccellente allievo di Parnaso, di dire la bellezza del volto di Beatrice («isplendor di viva luce etterna») – se dunque l’astro intorno a cui ruota il libro di Federico Pietrobelli è la luce intesa come rivelazione del divino (o, almeno, hölderlinianamente e heideggerianamente dell’origine), della bellezza, del senso, tutto il poetare che si dipana pagina dopo pagina canterà (non casuale, ma significativo il titolo di questa prima parte) dell’aspirazione (vanificata, eppure persistente e testarda) di riuscire a dire in maniera compiuta l’indicibile, cercherà di poetare intorno a quello “stretto” e “istmo dei regni” che, dantescamente, è proprio il punto (e il momento) in cui Beatrice si rivela nel Paradiso terrestre (ossia in cima al Purgatorio) per iniziare l’ascesa al Paradiso.

          Non a caso il primo sonetto (caudato) inizia con la metafora dei naviganti e delle vele (riecheggiando l‘incipit del Purgatorio, ma ricorrendo anche a una metafora diffusissima nella lirica occidentale), avvia il viaggio del pensiero e della scrittura; si osservi la ripetizione in forma di eco dei vocaboli “solo”, “niente” e del sintagma “al largo”, tratto stilistico ricorrente nel libro perché la strategia espressiva cui accennavo consiste proprio nella ripetizione che da un lato rappresenta la ricerca della parola, il suo venire alla luce per farsi luce e il suo essere chiamata da chi la cerca, dall’altro la difficoltà di un tale processo, la necessità di una conferma oppure la rappresentazione del fatto che, però, la parola è (platonicamnete? dantescamente?) eco o ombra di una parola che mente e orecchio umani possono soltanto intuire e non cogliere nella sua pienezza oppure il suo ripetersi ha luogo per non essere distolti dall’intento del viaggio – e il certosino labor limae cui Pietrobelli ha sottoposto i testi ne è ulteriore indizio; leggiamo così, a mo’ di esempio (e mi scuso perché faccio violenza ai singoli testi isolandone minime parti): «[…] là splende Antares, / un rosso, un punto, un niente, vedi // dove il corpo insanguina la luce, / nel tuo dolore, che non sa dove / le rose che fioriranno fioriranno» (p. 10), «Rossa terra del ferro, e frane e frane / sui bui degli avi e sepolti e sepolti / gli ultimi sguardi ai germogli e agli arcani» (p. 14), «Un poema di acque da dire alle acque» (p. 18), «[…] corpo offerto al largo, // vedrai al largo come lieve è l’abisso» (p. 29), «e l’ala all’anima, e l’anima al cielo, / e il cielo al letto oscuro, e sul letto / oscuro il male lo lascia e traspare» (p. 31); «Parlami nella notte, la tua notte / è per noi luce» (p. 36) – naturalmente vanno notate anche le iterazioni, il ricorrere della congiunzione “e”, il fatto che il tessuto poematico di Pallide pietre consista di numerose paronomasie, allitterazioni, rime e assonanze ché Pietrobelli esprime nei propri lavori un amore che definirei sensuale per la lingua italiana, per i suoi suoni e per le sue possibilità espressive, per cui un itinerario di lettura potrebbe essere anche l’abbandonarsi al piacere di leggere e di ridirsi ad alta voce i versi, riscoprendo o confermando la bellezza di una lingua come l’italiana con la sua vocalità piena e armoniosa, con il suo lessico mostruosamente ricco e passibile di infinite variazioni, capace di esprimere infinite sfumature di suono e di senso – fabbro educato sull’esempio dei Grandi, Federico edifica con Pallide pietre un poema che è omaggio sia alla lingua italiana che alla tradizione lirica occidentale; l’itinerarium poeticum del libro non è, infatti, debitore soltanto alla Commedia, ma è anche un viaggio odissiaco – si legga la stupenda, geniale terzina che qui trascrivo: «per tornare al letto in vetta all’ulivo / alto di albe e auguri, alla fonte / dove la casa e il viaggio sono uno» (p. 11), così che Pallide pietre si profila come un viaggio alla ricerca della parola poetica, attraverso la lingua e, non lo si dimentichi, la tradizione: se i «i pioli dell’esilio» (p. 13) rimandano alle «altrui scale» di dantesca memoria, un testo come il seguente, che dà anche il titolo all’intero libro, ne conferma caratteristiche sia concettuali che stilistiche:

 

Pallide pietre,sul passo che solo
tenne il cammino, ai picchi tramati
sugli orditi del vuoto, dove poco, 
poco è l'immenso tra il respiro

e lo spirito, e per breve volo
lungo è l'abisso, per ogni destino
d'uomo, come alto sulle vite, vita
che vede la vita, strano vedere, 

come nubi, gli anni, preparano
il naufragio alla mente dell'uomo
in ogni ora in cui non colse il ritorno.

Ma torna, lungo i passi d'uomo, ogni ora, 
sulle pietre slavate dal pianto, pianto
scorso sui denti del lamento, denti

sfranti su un palmo, e sul palmo il sale
chiaro dell'occhio cresce del suo specchio, 
cresce l'occhio nello specchio di un arco

sulle vette che le labbra richiudono,
da cui tu anche ricevesti il silenzio
del cielo che ti cela l'infinito.
(p. 9) 

       

 

         E, poco oltre, il seguente sonetto mi appare come una dichiarazione non solo di poetica, ma quale chiara presa di posizione anche politica nel senso ovviamente alto e aristotelico del termine:

 

Il Lossia ti cerca. C'è una festa
chiara d'incendi che hanno indetto
i suoi nemici. Lui vorrebbe invece
solo un po' di buio in cui risplendere.

Suonano oscure le tue parole
e ora ti fa chiaro che han da esserlo:
un lago non dà luce, ma quando ha
luce, se è limpido mostra il suo fondo.

Gli altri, afferma, si inquietano
sempre degli occhi, invece è all'acqua
che si deve ogni cura. Se l'occhio

non fosse luce non la avrebbe. Ma è.
Se l'occhio non fosse acqua, nemmeno.
Illimpidisci il buio, dice, in cui vengo.
(p. 33)

          Il dio dagli oracoli ambigui e, nel testo a pagina 32, «Bivi, trivi, sacri a Ecate, la via / che guida all’invisibile», a pagina 39 «Gli asfodeli sacri alla vergine / amata dall’invisibile» sono tutte, per dirla con Aby Warburg, consapevoli manifestazioni del Nachleben di figure (divine) del mito che Pietrobelli, sulla scia delle interpretazioni più moderne (devo citare Nietzsche, Jung, Károly Kérény, Ginette Paris, eccetera?), lascia manifestarsi sulla pagina in quanto portatrici di precisi significati; è probabile che Friedrich Hölderlin sia una delle voci poetiche che hanno suggestionato maggiormente Pietrobelli e si pensi per esempio alla lirica Andenken / Ricordo (cui, tra l’altro, è ormai indissolubilmente legata la nota analisi di Heidegger circa la ricerca dell’origine e il viaggio per acqua – «quando non chi parla / o chi intende eri, ma ascolto dell’ascolto» scrive Pietrobelli a pagina 37), ma anche agli Hymnen e allo Hyperion e la postura rispetto al reale, la tessitura retorica dei testi, la tensione intellettuale verso l’assoluto, la rappresentazione di spazi vasti e acquorei fanno pensare a due autori tradotti da Federico Pietrobelli, vale a dire Victor Segalen e Saint-John Perse; potrebbero esserci punti di contatto, per esempio, tra il “tu” ricorrente in Pallide pietre e il “tu” si Stèles o tra il tema delle acque e degli spazi (sia terrestri che stellari) e Amères o Anabase – mi è accaduto di specificarlo altre volte, ma l’identificazione di nessi (stilistici e tematici) con altri autori non denuncia ai miei occhi un atteggiamento epigonico o imitativo, bensì, al contrario, il fermento di una scrittura che si nutre di modelli alti, che ne ha fatto parte essenziale di sé continuandone il magistero con amorosa dedizione.

          Infatti c’è un testo esplicitamente intitolato Poetica:

 

Il tono minore è per il mondo,
qui castagni forsizie pampini
tutto puoi dire ma devi scendere
al livello dell'erba, ritirarti tra l'erba.

Il tono maggiore è per l'oltre,
là che è qui silenzio e tutto
puoi dire, ma devi ascendere
dentro te oltre te e oltre non c'è te.

Il tono medio non è poesia.
Nell'alta società delle arti 
non sono ammessi parvenus.
E l'Ospite si tace.
(p. 50)

          Apprezzo molto il fatto che Federico Pietrobelli scelga una posizione così esplicita e che non lascia adito a dubbi; con questo testo in particolare, ma, in verità, con tutto il suo libro, egli s’inserisce in una tendenza vitale della poesia di questi anni che, distinguendo i vari “toni” del comporre, avversa ogni riduzione della scrittura a mimesi del parlato e a rappresentazione del quotidiano (o di ciò che, di volta in volta e più o meno correttamente, s’intende per “quotidiano”); dirò che non condivido del tutto la distinzione tra i “toni”, che non condivido assolutamente il concetto di “alta società delle arti”, che per me non esiste “la” poesia o, addirittura, la “Poesia” come altri autori scrivono, ma rispetto quanto Pietrobelli dice e, anzi (e penso appaia chiaro in quanto vado scrivendo), ne ammiro e apprezzo la qualità dello stile e la capacità di costruire i testi, l’esplicitezza delle idee, la scelta che definirei nobilmente “antimoderna” (sia chiaro che io stesso NON identifico automaticamente la modernità con il cosiddetto progresso o con qualcosa che sarebbe, in quanto “moderno”, per ciò stesso positivo). Ecco allora che si coglie un’eco leopardiana nell’attacco «Ora posa mio cuore. Le sirene / del nuovo non incantino il tuo ritmo» (p. 21) e, nello stesso tempo, un’orgogliosa scelta di campo se si volesse pensare a una contrapposizione tra chi ha voltato le spalle alla tradizione lirica e chi in tale tradizione continua a riconoscersi.

          Tutto questo non m’impedisce di apprezzare l’immagine iniziale (efficace e indimenticabile) e il prosieguo del testo seguente (oltre che Pallide pietre nel suo insieme):

 

Con arco di labbra e corda di lingua 
saetta le tue frecce d'oro e di voce,
cantore vestito d'alba, risplendi
sul mare che tutto vela e disvela,

colpisci e dammi fertili ferite,
perché con innamorato dolore
possa imparare la tua arte di luce,
come di notte, al cero, sui testi

più antichi, i dotti si fanno più chiari.
Ma ombre solo delle tue frecce in volo
al bersaglio delle Muse le mie

frecce sono, sul bianco arenile
delle sponde, ma tu scagli sulle onde...
E al largo chi ti segue, e veglia, e vive?
(p. 38)

          È certamente anche sofferenza («fertili ferite», «innamorato dolore») il tentativo di trovare l’espressione precisa, adatta, pregnante, è, da sempre, necessario il multum invigilare lucernis, le “Muse” potrebbero essere anche interpretate quali energie intellettuali che provocano la scrittura, per cui nella mente di chi scrive torna ad aver luogo un agone tra desiderio di dire e sua espressione poetica, tra concepimento di un’idea e sua realizzazione in forma d’arte – per questo tornano costanti in Pallide pietre le immagini delle onde e del largo, della notte e della luce.

 

 

          La seconda parte del libro si chiama RIFLESSI e, nel tema dello specchio e dello sguardo («Guardati: lo specchio è bruciato // […] guardati: l’isola scende […] // guardati: licheni fluorescenti / si nutrono a minerali, a vento // […] guardati: il mare ha tutte le rotte» a pagina 42) , esplicita il rapporto tra percezione del mondo e autopercezione, tra realtà esterna e soggetto percipiente:

 

Rorido mondo, nessun bisogno di noi,
se non di ogni canto, da ogni canto,
perché risegni splendore il raggio,
e oscuro l'ombra, e allora il poi.
Sia così, schegge di beltà
il nostro ragionare amici,
sia solo selci ciò che dici
e questo nostro segno di chiarità.
Ancora oltre il manto si dispiega 
oltre il filo ce non si manifesta,
se non in gola, nodo, per noi tutto,
ora che è notte, che è chiusa la festa,
il passo al suolo al duolo si piega
e sa ciò che è: buio e raggio, astro e lutto.
(p. 46)

          C’è qualcosa che ricorda Stefan George (qui, ma anche in altri testi) e lo Stil novo nel concetto del gruppo di amici che insieme ragionano, nel loro desiderio di bellezza, nella dialettica tra buio e luce, nella poetica del guardare e dell’occhio, nell’immagine della festa, altrove nel Leitmotiv delle perle, dei minerali baluginanti nel buio, dell’alba. Das Wort / La parola è un testo chiave proprio di George ed ecco quello che scrive Federico Pietrobelli:

 

Meraviglia della parola

Quale meraviglia che una parola
permanga dentro fluendo fuori,
che una parola divenga altrove
permanendo dove fu e ancora,

che una parola sia mia e sia tua,
che in me e te sia una parola,
allora cos'è me e te, 
allora cos'è la parola?

C'è chi dice merce, di scambio,
un pacchetto a te e uno a me,
dentro: informazioni,
fuori: mimiche, vagiti, rutti.

Anche un rutto dice cose.
Disarticolato, ma articolato
per chi vuole intendere. Intendi
quale meraviglia è la parola?
(p. 56)

          Siamo nella terza parte del libro (Controcanti cui appartiene anche Poetica) e l’arduo viaggio cerca di trarre ora alcune conclusioni se, com’è probabile, esso dovrà continuare ancora oltre questo libro; stupore e interrogazione costituiscono la temperie sia intellettuale che emozionale del testo spiegando il formarsi di Pallide pietre, confermandone sia l’impostazione innologica (alla maniera di Hölderlin, ancora), sia quella itinerante: «[…] Ecco il cosmo / e il suo testo oscuro. Ma il poeta disse: / di cantare le lodi, ciò è il mio vanto» (in La via che non si vede, p. 57).

          Termina il libro con un sonetto che, rievocando la fine di Bisanzio e l’atto estremo da parte dei difensori di esporre le sacre icone sulle mura prima dell’assalto finale e fatale, sembra, in concordanza con Dante e Petrarca, un inno conclusivo alla Regina coelorum la quale (spero mi scuserà Federico se sono in errore) è anche immagine della musa e della poesia, della parola che, pur umanamente debole quando, appunto, è pronunciata da labbra umane, si strugge (faustianamente) per la bellezza e l’assoluto:

 

CODA
Regina, ombra di morte è tra noi,
Bisanzio è caduta, e i secoli spirano
dalla tomba che i tuoi passi coprivano
e che ora la selva veglia per noi,

spira il ricordo, e una icona di noi
traduce alle mura, e si aprivano
le porte della notte, e pativano
nuovi occhi e nuova luce: siamo noi,

Regina, mentre ai vivi tutto è bara,
nati nella morte, su questa soglia
che è la terra e la carne, qui è l'ara

che il nostro fiato infiamma, qui è la foglia
che ci copre e che brucia, brucia il regno
che ci hai dato in grembo in quanto segno.
(p. 58)

          Il segno in quanto scrittura (e parola) chiude eloquentemente il libro il quale è un disporsi di segni in forme chiuse eppure palpitanti di spazi immensi («Ed ecco il vento. Il vento alita ovunque», p. 57) e dell’energia d’amore («Perché non è un nome il tuo nome, e tutto / è in tuo nome, e il tuo nome in nulla, / noi soli in noi ti diamo nome: Amore, // oh, un nulla, se non amando…», p. 23), specialmente se lo sguardo cade su un paesaggio contemporaneo di «[…] terrazzamenti / disertati di un’èra disertata / dove il deserto avanza e il miraggio // impera, e dove l’uomo senza storia / va e spera» (p. 39), ma è dato anche leggere con toni che ricordano Kavafis: «[…] // Augurio del ritorno vi sia il viaggio // […] // Oh, che un nulla vi sia allora il naufragio. / Amaro certo, ogni flutto è da bere, / però il sale conserva alla bocca // il nuovo canto di un’alba più chiara» (p. 41) e se «[…] l’io d’uomo / si svia in una tenebra esteriore» (p. 35) l’azione del pensare, del sentire, del poetare consiste nell’andare oltre le apparenze, oltre i luoghi comuni, oltre il buio apparente e le ciarle.

          Ecco: il rigore stilistico e intellettuale di Pallide pietre, indipendentemente da come si concepiscano scrittura e poesia, si afferma con la passione e il diuturno studio che Pietrobelli ha dedicato al libro e, di conseguenza, ai suoi lettori.

*

        Le pietre che corredano il saggio sono realizzazioni dell’artista salentino Pasquale Fracasso. Il dipinto (Le linee del mare) è di Piero Guccione.