L’esitazione è una koinè: su “Scenario” di Riccardo Benzina

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

          “Scenario” è il vocabolo, proprio l’ultimo, con cui termina il libro omonimo di Riccardo Benzina (Taut Editori, 2022), ma è anche il vocabolo-chiave, il vocabolo-senhal, il vocabolo-cifra che, come dilatandosi, dà significato a tutto il libro nel quale lingua e sintassi sono ramificazioni nervose attraverso cui vengono percepiti i movimenti dell’io dentro un mondo (uno “scenario”, appunto) contemporaneamente straniante e attraente, talvolta malato eppure invitante, stratificato, complesso.

          Scenario è la ricognizione di un’estraneità (dell’io rispetto al mondo e viceversa) e anche la registrazione caparbia in forma di ritmo (intendo: con cambi di versi e cesure interne, forti e fortissimi enjambement) d’inesausti movimenti vitali dentro lo scenario al fine di penetrarne resistenze ed enigmi, vaste zone d’ombra e snodi inestricabili o taglienti. 

          Risultano allora suggestivi i pochi nomi geografici sparsi per il libro (Canneto, Montrone, Casamassima, le Murge, Japigia, Acquaviva) e i pochissimi accenni al paesaggio (olivi, rosmarini, una campagna appena accennata) i quali, suggerendo l’entroterra barese, fanno immaginare uno “scenario” estremamente sobrio, quasi morandiano, l’unico capace di far muovere il pensiero in tutta la sua evidenza (e, anche, nelle sue convulsioni e nei suoi fallimenti), dal momento che mi sembra questa la maggiore cifra stilistica di Riccardo Benzina, un montare le espressioni-concetti in catene coerenti non tanto per logicità del discorso, quanto per una (miracolosa, oserei scrivere, quindi di valore e di forte incisività) coerenza dettata dall’emozione e dallo slancio espressivo, dalla forza dell’analogia e dell’inventività, dal rampollare dei concetti (e delle proposizioni) l’uno dall’altro, talvolta senza un legame che si dimostri immediatamente perspicuo.

          Valgano i versi seguenti a molto migliore illustrazione di quanto ho tentato di dire:

 

Sono giorni di pioggia ho camminato. Addio
Canneto e Montrone
e altre perse latitudini. La pelle
stiro per il matrimonio, o per il colloquio del funerale:
solo fumo e sterpaglie dove andavo.
Chi disse per primo il mio nome era mio padre adesso non è più.
Con la bocca aperta arida
il verbo cade, e sta cantando.
Lo sento nella voce quando dico:
dolori grandi come apocalissi
e curiosare per l'inferno io.
Che d'estate camminavo la pianura, e sempre
scollinando fino all'entroterra
non mi attendeva nulla. Proseguivo. Apertesi
le Murge come ultimo confine
terrestre prima della vita
arrivano le doglie, e presto il feto smetterà la sua natura.
(p. 9)

          Scenario è, infatti, anche una sorta di poema che narra il faticoso e doloroso itinerario verso la maturità attraverso la consapevolezza che «Noi / siamo consumati da una morte / che sta di dentro e non verso la fine. / E però non c’è resa in questa morte, / e vicina mi bisbiglia / e la comprendo» (pp. 9 e 10) ed è continua variazione tutta affidata all’espressività di un linguaggio che sembra essere il solo scenario sul quale (o contro il quale) l’io possa trovare senso rispetto alla resistenza del reale ad accogliere le istanze dell’esistere.

          Se Scenario è anche il referto di una lotta, quest’ultima avviene da parte del linguaggio e per il linguaggio: «E non si tollera, non / si lascia dire, al chiuso da millenni che assomiglia / a un calcolo ingombrante questo / rimasuglio d’inquietudine…» (p. 12); fare rasura per recuperare un’origine che consenta un nuovo cammino: «Del presente di cui parlo ho bruciato tutte le etichette / duramente, guardando / la gente cadere, i figli revocarsi / tornare a prima della vita» (p. 14). La scrittura è, infatti, il luogo del conflitto e dell’impossibilità a dire il mondo proprio mentre il desiderio di dirlo giustifica, avvia e determina l’atto poetico stesso, aprendo così quella lacerazione che, del resto, caratterizza tanta poesia contemporanea:

 

Madre io vorrei 
scrivere il pensiero di un cavallo
che corre, di un uccello che vola.
Ma non ci riesco, e il mio dono
d'amore si fa ogni giorno più grande. Si fa
un inferno affamato una rappresaglia
l'ispirazione di una promessa dico. Quasi che
la bocca nascondesse per davvero ciò che parla
quasi che
la spina potesse per davvero continuare
a reggere gli eccessi della carne.

Ieri ho fatto un sogno in cui ero vivo
ancora, già,
e non di questa strana silice
che sono. Ho avuto assai paura
e grande ebbrezza.
Idillio e dissolvenza.

Ma lo spettacolo è finito, e deve continuare.
(p. 17)

          Castronuovo, Donaera, Vetrugno potrebbero essere nomi da accomunare a quello di Riccardo Benzina sia per vicinanza anagrafica che geografica, ma, soprattutto (ed è questa, ovviamente, la ragione più persuasiva) per modalità di governare la propria scrittura caricandola di una tensione spasmodica espressa in versi lunghi e lunghissimi capaci talvolta di spezzarsi in unità, viceversa, minuscole, così che il singolo verso può ampiamente travalicare oppure infrangere l’unità sintattica (si veda, per esempio, il quarto verso del testo su riportato interrotto dal forte enjambement che dà vita al quinto verso all’interno del quale il punto fermo segna la fine del periodo sintattico per avviarne uno nuovo a sua volta subito spezzato dal nuovo enjambement verbo-soggetto e così via).

 

 

          E non sembra estraneo per tematica (il mondo-clinica) neanche Marco Giovenale se in Scenario si può leggere: «È questo sopravvivere in degenza: / digerire un pasto azzurro» (p. 22), benché mi sembri prossimo di nuovo Andrea Donaera con il tema della dolorosa e dolorante corporalità e di un Sud per niente idilliaco: «Dopo il ponte e i fantasmi è Japigia – / invasa dal vento che ci passa, e passa come nulla. / In un transito immobile, tutto contenuto / nel grigio, l’addio / che non si trattiene nelle fibre» (p. 25), «Dolore alba incerta in una primavera / di possibilità. / Dolore sottopassaggio / verso il lungomare dove tutto è crollato. / Dolore linea / spezzata mista che si adagia e cede. / Dolore / che respiri dentro una pace meridiana» (p. 29), «[…] Lascia / che pianti pietre sotto questo piccolo deserto, / che una volta dentro / mi spogli, mi tolga le ossa» (p. 35).

 

Tua la veglia, trepidare assiduo dei giunchi.
Dove? In questo campo eterno del nascondino
dove, da morosi, abbiamo fatto lezione
e che adesso conosciamo tutto quanto ma
vorremmo non conoscere: vorremmo perderci
e non ce la possiamo fare. C'è
la mappa, l'algoritmo, il come viola
della ripetizione, la
fame fame fame che decide.

Dico ognuna
di queste bambole ha un prezzo, ognuna
di queste strade un muro. Solo il dirupo
è libero, è
un portale di santi, un paradiso
che va in automatico e scavalla.
(p. 32)

          Il “dirupo” del vivere (accompagnato quest’ultimo dalla morte e dal dolore – ma, tengo grandemente a precisare, nulla di luttuoso né di funereo oscura questo libro, bensì una lucidità e un coraggio rari in anni coalizzati a rimuovere tali temi e presenze, anzi, in apparente paradosso, proprio il vivere assume più slancio e viene di conseguenza amato in maniera totalizzante), il “dirupo” del pensare e dello scrivere spalancandosi, vera e propria gravina nel paesaggio emotivo-concettuale di Scenario, conferma la natura intima di movimento e trasformazione che sottende l’andamento dell’intero libro; scrive infatti Benzina: «Vorrei passare, finire un attimo all’altro legando / inoltrare la mia solitudine / in case-radure, preparate» (p. 46) e

          «[…] Succede / che le scritture si allontanino / e corrano / come tori per le grotte e c’è qualcuno / che finge un dolore, o fa un verso / ma nessuno riesce a indovinare» (p. 47) – là dove “fingere” può anche significare “rappresentare, mettere in scena” e “fare un verso” avere la duplice accezione di produrre rumori o comporre versi; siamo così nel centro della questione dello scrivere, che Benzina non elude, ma affronta a viso aperto:

 

Non  è il passato. Poco più di nulla
è passato.

Segni asciutti fino ai dendriti la
risulta di cose che accado-
no e non
sono messe a diario. Un po' ne rimane
sotto le gengive, parole nuove
che a nulla rassomigliano di nostro.

Ai nostri inni interrotti.

Sono ben formate, serie
grammaticali.
E non stanno più assieme
alla meraviglia
che tutta esplodeva è stata persa -
al suo calcolo da cui non viene più
nessuna chiarità nessunissima
lezione.

Le abbiamo allevate in segreto.
Le abbiamo replicate o fatte a mezzo
nel grigio, come limite che cade. Siamo
stati inconsapevoli padroni: la
violenza scaturita da un ammanco, il
minore dei fuochi, il fuoco più grigio.

Da una sola lettera
inizia l'alfabeto,
a una lettera muore.
(p. 50)

          Dunque Scenario è, anche, meditazione intorno al rapporto tra scrittura e mondo, lucida (torno a proporre convintamente questo aggettivo) coscienza e appassionata presa di posizione in favore del vivere, benché mai la scrittura riuscirà a essere parola del reale: «La punteggiatura finisce per terra / prima della fine. Che nel bosco / è incompleta, il bosco / parla quando ce ne andiamo solamente. // […] // Non sappiamo, non / sappiamo. Se da un luogo interno viene il cielo / per cancellare le occasioni buone / col gerundio» (p. 51).

          – e si diceva del male e del dolore che accompagnano l’esperienza esistenziale: le poche figure femminili, discretissime e indimenticabili, sanno essere ferita profonda e vitale nel libro: «[…] insieme a te che vieni / con il rossetto malva sulle labbra / in un vestito nero / e mi parli di cellule e chemio, esitando – / e l’esitazione / è comprensibile, possiamo farne una koinè» (p. 54) – esitare, cioè fermarsi tra silenzio e parola, attendere, non risolversi a una parola definitiva, riflettere su quello ch’è giusto dire o tacere potrebbe essere la koinè poetica capace di accomunare chi vuole scrivere di anni segnati da dolore e isolamento, reclusione forzata e dissolvimento del senso di comunità.

          Scenario, che possiede una struttura tripartita dai titoli emblematici (Madre di nessuno, La fame, Nero), si chiude con Nero che significativamente presenta un solo testo (l’ultimo del libro), doloroso eppure non privo di luce: «Verso Acquaviva. L’ora smossa, il corridoio serale / a cui m’attengo / sono questi: della visita all’ultima sorella, tracciavo / ancora una volta una linea / sul cranio, cicatrice. / Suo. / Le rifacevo il letto» (p. 69). La visita alla sorella ammalata («[…] Andavo / a lei ricoverata in una siccitosa valle coi cardi a perimetro») si trasforma nell’addormentarsi insieme e in un sogno in cui i ruoli sembrano invertirsi, ma per riaffermare il dialogo tra “tu” e “io” e se il “tu” svanisce e muore “io” continua ad affisare lo sguardo nel luogo dell’assenza affermando «Ma ci sarai ancora, ci saremo / ancora, ci / saliranno in testa le cicale appena dopo / il tramonto. Lunga estate. Noi andremo / per i paesi in festa nascondendo il nostro male / in uno scherzo. Fumando polline. Avremo / luminosi accenni che daranno un attimo / di senso, un piccolo orientarsi / dentro il mondo, cosiddetto, lo / scenario» – perché non c’è disperazione, ma, ribadisco, la consapevolezza del fatto che l’esistere s’affermi per “attimi di senso”, anch’essi, mi vien fatto di chiosare, indugi del sentire e del pensare, dello scrivere e del dire, lingua comune dell’umano finire, ma non senza aver vissuto momenti di meraviglia e di amoroso sentire.