Quando i passi si fanno versi: su “La volontà dell’ovest” di Salvatore Smedile

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

 

          «Mi stavo perdendo in un sonno silenzioso, quando ho deciso di partire. Dapprima furono passi, poi parole che disegnavano labirinti antichi come il mondo. L’ombra che mi precedeva è diventata qualcuno con cui interloquire. Ogni volta che mi sembrava di toccare la fonte del discorso altri passaggi ridefinivano i confini di tutte le anime transitate per la via di Compostela. // Tornato a casa, nelle sere alimentate dai ricordi, il canto ha composto la sua trama. Gli opposti si sono incontrati e hanno ripreso la loro vecchia intesa, hanno trovato una forma dentro cui poter stare in armonia. Si sono riallineati sull’asse del tempo che tutto assorbe e restituisce, come un fiume in cui risuonano antichi adagi che continuano a parlarmi». Comincia così, con una breve introduzione intitolata L’ombra che mi precedeva (p. 11) il libro in poesia di Salvatore Smedile La volontà dell’ovest (Book Editore, Riva del Po 2024) e termina con le parole:

          «Dieci anni fa ho compiuto un viaggio a Santiago di Compostela. Da allora alcune cose sono rimaste immutate e altre si sono messe in movimento per divenire, infine, questa memoria in versi. Non c’era altra via per riassumere e significare l’esperienza di un popolo in cammino verso l’Atlantico. Finisterre chiamavano gli antichi quella cosa oltre la quale vedevano solo l’oceano e le sue leggende. […] Dopo il percorso fisico di 800 e più chilometri in condizioni climatiche sovente avverse, dopo gli incontri con altri viandanti spartendo gioie, fatiche e sofferenza, il percorso interiore si è avviato con modalità e tempi suoi. […] Quotidianamente appuntavo su un foglio luoghi, persone e avvenimenti ch mi colpivano. Mi sono trovato così con l’indice di un atlante che chiedeva di essere riempito da una storia. Perché tutte le anime che transitano per la via di Compostela lasciano tracce sulla terra. Ieri, oggi e domani. […] I passi sarebbero diventati versi, la loro cadenza respiro, ritmo di una voce interiore. Perché scrivere è dare ascolto e forma a quel suono che circola nell’anima e nel corpo. // E sono iniziate le parole. Ordinate, composte, fluide, anche discontinue, guidate da una geografia interiore […] Non si conclude mai un cammino, piuttosto, prosegue in altri cammini. Perché la vita non è soltanto quella che viviamo» (E sono iniziate le parole, pp. 81 e 82, passim). Tra le due prose ci sono 33 testi in versi liberi ognuno contrassegnato da un titolo e dal nome di una località del Camino de Santiago – si comincia da Saint Jean Pied de Port in territorio francese proprio a ridosso dei Pirenei Atlantici e si conclude a Fisterra/Finisterre, l’estremo Occidente europeo.

          La volontà dell’ovest è libro limpido ed emozionante, la cui scrittura è, con umiltà e gioia esemplari, totalmente al servizio del racconto non di un viaggio, ma, appunto (e la differenza non è da poco, si badi) di un cammino. Non è un diario, non un resoconto, né una cronaca, bensì il ritmo di un cammino essenzialmente interiore anche se i passi (e le vesciche ai piedi, il freddo e le piogge subiti, i momenti di scoraggiamento, ma anche i felici momenti comunitari, gli incontri e le scoperte) sono stati ben concreti e veri; non è un indulgere a una moda (e il Cammino giacobita rischia talvolta di essere trasformato in moda, anche se la sua natura più profonda è capace di salvaguardarlo già di per sé da una simile offesa), sì invece, per Salvatore Smedile, un completare il cammino intrapreso un decennio prima per riavviarlo come scrittura da affidare ai lettori – la poesia nasce spontanea dai versi brevi che, rievocando i passi e anche le annotazioni prese durante l’itinerario, non abbisognano di abbellimenti né di figure retoriche, ma si dispongono sulla pagina con la medesima (e potente) semplicità di quando il corpo concretamente compie il pellegrinaggio che consiste (si sia credenti o meno in questo caso non ha importanza) in un atto continuo di profonda spiritualità e in un materialissimo respirare la polvere delle strade, sentire i lati aguzzi dei sassi, desiderare una panchina di pietra su cui riposare, assaporare con voluttà una tazza di cioccolata calda o essere felici di un materasso per quanto duro o pieno di gobbe…

          Esiste un libro bellissimo di Cees Nootebom (Verso Santiago) recentemente riedito da Iperborea, ne esiste un altro ben diverso e altrettanto coinvolgente di Werner Herzog (Sentieri nel ghiaccio edito in Italia da Guanda), ci sono i diari di viaggio di Matsuo Basho, esiste un capolavoro come Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald (Adelphi) e altri libri potrei ancora citare in cui la scrittura racconta un cammino a piedi esperito sempre seguendo l’idea che camminare significhi attraversare sé stessi, cercarsi, liberarsi di egoismi ed egocentrismi, imparare l’umiltà, nella fatica scoprirsi vivi e semplicemente grati di esserlo; il libro di Salvatore Smedile appartiene a buon diritto al novero di libri come questi, raggiunge una simplicitas che, accennavo poc’anzi, può anche avere il nome di gioia e sapienza. Liberarsi del superfluo, imparare l’essenziale è diventare semplici; averne consapevolezza genera gioia, quest’ultima è la sapienza del vivere accettando il mondo e riconoscendosi esseri umani tra gli altri esseri umani. Ma si rifletta sul fatto che La volontà dell’ovest abbia avuto bisogno di dieci anni per venire alla luce e offrirsi così limpido alla lettura, che si sia stratificato verso dopo verso, scrittura-esperienza e scrittura-vita: cammino nel tempo. Libro necessario per chi lo ha scritto e anche per chi lo legge, se leggerlo significa ripercorrere il cammino con empatia e se si è convinti che ogni giorno dell’esistere sia un cammino faticoso ed esaltante di cui la scrittura rende consapevoli.

 

 

          «[…] È un’arte tenere il filo / del dire e del non dire: / l’ombra rimane ombra / anche se dichiara / quello che non è. / […] / Hai tenuto tutto per te / eppure ogni cosa / è leggibile e corporea, / le superfici hanno / un fondo che le muove, / un vento che le increspa , / le scuote e le risveglia / […]» (Il filo del dire – Saint Jean Pied de Port, p. 13) – vale per il cammino e vale anche per la scrittura, è dichiarazione di poetica, ma è anche dichiarazione di poetica nell’intraprendere il cammino se il cammino stesso è poesia in atto (poesia dei passi e del corpo che si farà poesia di parole).

          «[…] / Dobbiamo parlare, Vasilij, / guardarci negli occhi, / capire cosa c’è che ci unisce / e ci divide. / Due notti vicini di branda / non sono un caso / […]» (Certezze e fronde – Roncesvalles, p. 15) – incontri (tanti) con sconosciuti, eppure appartenenti allo stesso popolo in cammino, esseri che non si rivedranno più eppure come uniti per sempre e parlare guardandosi negli occhi è ritrovare la propria umanità.

          «[…] / La discesa è lenta tra radici / contorte di alberi secolari. / Ci fermiamo, ascoltiamo / la preghiera della terra, / onoriamo l’anima gentile / di un giapponese morto / sulla via dell’ovest, figlio / del mondo come noi / […]» (La preghiera della terra – Zubiri, p. 17) il cammino ricorda a ogni passo la nostra filiazione dalla terra, sembra di sentire risuonare qui Das Lied von der Erde e onorare una tomba è anche onorare la vita.

          «[…] Come trattenere quello / che ci accade? / A volte tutto fugge / senza lasciare tracce; / a volte tutto rimane / senza che si perda nulla. / […] / Tutto è un insieme / di sorprendenti forme» ( Sorprendenti forme – Pamplona, pp. 19 e 20) – questa è la verità (e la difficoltà) anche della scrittura, il suo legame col mondo.

          «[…] / Calpestiamo la terra degli avi / su visioni interne che mutano / di giorno in giorno, ogni sosta / è un passaggio spalancato / o chiuso, un bivio, una via / […]» (I confini degli occhi – Puente la Reina, p. 21) – il cammino ( e la scrittura) sono tempo nella sua abissale profondità; è nei passaggi, nei bivi, nelle stretture che il cammino ha il suo senso.

          «[…] / Siamo solo all’inizio / di un movimento / che sarà, che capiremo / negli anni. Siamo dentro / un viaggio che non finirà» (Vi aspettavo maledette – Torres del Río, p. 26) – il libro matura nel tempo, non è detto che il viaggio porti al libro, ma in questo caso sì e il viaggio è cammino concreto di passi e di corpi e cammino di parole, di ricordi, di emozioni: è senz’altro vero che il viaggio non finisce.

          «Il cammino è un mistero / sotto cieli di memorie / che rinnegano sé stesse. / Siamo dentro storie / che ci precedono / ma il dolore è personale / e lo teniamo per noi / […]» (Cause e meraviglie – Santo Domingo de la Calzada, p. 29) – si percorre il mistero (si percorre la vita), si è un popolo in cammino e si è, nello stesso tempo, soli; si conversa in silenzio col proprio dolore, ci si riconosce dentro la catena delle generazioni, si continua a camminare.

 

L'ovest è una pulsione
(Belorado)

L'onda più alta
mi avrebbe sfiorato
senza ferirmi.
La questione mi batteva
in petto, la sentivo
pulsare nelle tempie.
Il viaggio in aereo
aveva messo da parte
le gradualità,
vicino al confine
affioravano voci soffocate
da anni di distanza.
Sono qui per tutte
le ragioni che ho segnato
su un pezzo di carta
volutamente perduto.
Come si può stare
lontano dalla Spagna
per tutto questo tempo?
Gli anni hanno prodotto
una coscienza nuova,
hanno inchiodato attese
a una ciudad che non è
più.
Siamo forme incompiute
di un'anima più estesa,
siamo dove siamo,
non possiamo essere
in nessun altro luogo.
L'ovest è una pulsione,
un modo di intendere la vita.
Il viaggio ha una direzione
che non cambia mai.
(pp. 31 e 32)


– lo stare e l’andare sono la volontà (cioè la decisione di, l’impulso a, lo slancio a, il bisogno di) andare verso Occidente, lì dove finisce la terra, tramonta il sole, si stende l’Oceano, mistero e attrazione, pulsione e illimite.

 

 

          «[…] Tutti abbiamo dentro / un sapere antico / che è stato dimenticato. / Esco ed entro nel país. / Sono stato qui altre volte, / sono parte di un’archeologia / non visibile. / Riconosco questa terra / e i suoi dolori» (Usura e carne – Agés, p. 34) – dopo essersi fatti curare i piedi piagati e doloranti da una donna del luogo che conosce l’arte antica praticata da sempre lungo il Camino si torna sulla strada, nel paese da attraversare, si riconosce sé stessi, la propria antichità non più, ora, dimenticata.

          «[…] / […] tutto è vero / e si può toccare. / Tutto è qui.» (Una trama che si compone – Burgos, p. 36) – perché il cammino, come la scrittura, è coincidenza di tempo e di spazio, accoglie tutto, il tutto sta in essi.

 

Le rotte dei contemporanei
(Castrojeriz)

Siamo parte del paesaggio,
il grano verde è la nostra età
che attende di maturare.
Ho già abitato queste terre:
ogni giorno uguale all'altro
come un rito propiziatorio.
Ci ritiravamo all'alba
sfiniti dal tumulto,
pronti a far esplodere
le forze che sentivamo
in fondo all'anima.
Che rimarrà di quelle notti?
Nelle orecchie una voce
che cerca di svegliarmi
da un oblio che dura
da una vita.
All'arrivo sarà
più comprensibile
questa opposizione;
per ora è solo l'accenno
di una storia che chiede
di venire fuori.
Una porta aperta
e una ciotola di legno
con dentro biscotti
e ciliegie mature,
un biglietto scritto
a mano: servitevi.
Come sono dovuto entrare
sento che al più presto
dovrò uscire.
La padrona di casa
si fa avanti,
mi legge nel pensiero,
mi stringe la mano
e mi rassicura. Davvero,
le rotte dei contemporanei
sono quelle degli antichi?
(pp. 39 e 40)


– la generosità silenziosa di una ciotola piena di biscotti e ciliegie, noi contemporanei che riguadagniamo il senso della profondità del tempo, l’ospitalità che ci fa tornare umani.

          «[…] / Ci salutiamo un’ultima volta / sapendo che non ci rivedremo. / Ma non perderemo gli sguardi / e quanto ci siamo detti / o abbiamo taciuto / nelle brevi soste / di una sera dove / ci siamo conosciuti / per sempre / […]» (Non perderemo gli sguardi – Frómista, pp. 41 e 42) – incontrarsi sul cammino è non perdersi più, anche se non ci si incontrerà di nuovo; l’altro ti rimane dentro per sempre, l’incontro con l’altro non va perduto (le parole e gli sguardi, il volto dell’altro diventano noi ed Emmanuel Lévinas ce l’ha insegnato).

          «[…] / Siamo parte di una comunità / che non si può fermare / perché non si chiude / l’orizzonte che ci vede / […]» (L’orizzonte che ci vede – Terradillos de los Templarios, p. 45) – allora è vero: il Camino è orizzonte in continua apertura, l’ovest non è confine, è mèta, ma non limite. L’ovest si muove continuamente davanti a noi, mano a mano che gli andiamo incontro.

          «[…] / C’è chi spurga vesciche / dentro comuni bacinelle. / Acqua aceto e sale. / Niente di più / e niente di meno» (Acqua, aceto e sale – El Burgo Ranero, p. 48) – non c’è prosaicità in questi versi, bensì la poetica semplicità del cammino: niente di più e niente di meno.

 

 

          «[…] / Si dialoga con l’orizzonte, / si riempiono i quaderni / di note che diventeranno / parole. / Siamo un popolo / camminante: / manca sempre meno / e manca sempre più. / […]» (Amuleti celtici – Villafranca del Bierzo, pp. 57 e 58) – “camminante” fa eco al castigliano caminante (viandante), andare a piedi (camminare) è dialogare con ogni tratto di strada, di terreno, di villaggio; si va, ci si avvicina a Satiago de Compostela, ma avvcinandosi la meta si allontana perché ogni cammino prelude al cammino successivo.

          «[…] / Oltre la sierra la lingua / assume forme allungate / e strette, perde il ritmo / del castigliano. / Il paesaggio cambia, / il cammino diventa / il nostro cammino / che procede verso / il mare. / Nasce il titolo, / si fa strada l’intenzione / del poema: / cos’è e dov’è / l’ovest? / […]» (Nasce il titolo – Vega e Valcarce, p. 61) – e ora che il libro è nato, ora che ha un titolo esso rimane orizzonte aperto, domanda aperta, instancato interrogare e andare e infatti «[…] / Il poema della terra / sotto i nostri piedi / avanza silenzioso. / I corpi e gli sguardi / hanno capito prima di noi / che il nostro destino / è ripartire» (Il poema della terra – Triacastela, pp. 66), «Sentiamo che il viaggio / proseguirà, che / porterà lontano / e non si chiuderà / in questo angolo / di Spagna. / Non può finire / in questo modo. / La polvere / il silenzio / le nuvole / la luce / il sogno» (Il mare è nell’aria – Hospital de la Cruz, p. 69).

          «[…] / L’esultanza di essere / nel cuore dell’arrivo / ha bisogno di tempo. / […] / Siamo dentro vortici / senza nome, figure / che ci abitano senza / respiro. / siamo spaesati / come se avessimo / un’altra identità. / […] / Lo spirito del cammino / è il vero profumo dell’esistenza / dove l’eterno ritorna / quello che era» (Nel cuore dell’arrivo – Santiago de Compostela, pp. 73 e 74) – è una nuova nascita, lo spaesamento il sintomo dell’arrivo.

          E infine: «Un’antica pulsione parla / più forte dle cuore: / la mèta di oggi è la fine / e l’inizio del viaggio. / […] / […] Il tempo / è sovrano, cura ferite / immerse in un mare / che non ha contorni. / Non mi rimangono / che queste parole / per non farle svanire. / […] / Ora capisco / che sono nel posto / giusto, che posso dire / dove mi hanno portato / i miei piedi straziati» (Un’antica pulsione – Fisterra, pp. 77 e 78) – il cammino non è disgiunto dal dirlo, percorrerlo è affidare il corpo allo spazio e al variare degli elementi, del giorno e della notte, dirlo è ripercorrerlo con uno degli strumenti più umani che esistano (il linguaggio), raggiungere la poesia è annodare insieme i due cammini, iniziare il nuovo.