Letture impastate di spazio: su “Migrazioni” di Kadhim Jihad Hassan

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

          So perfettamente che non si tratta di categorie critiche, ma in questo momento scrivo da semplice lettore che si lascia coinvolgere dalla lettura dei libri che lo raggiungono: Migrazioni di Kadhim Jihad Hassan (Book Editore, Riva del Po 2024, a cura di René Corona) è libro emozionante, commovente e attraversato da un calore intellettuale e umano di grande forza e bellezza.

          Nato a Nassiria nel 1955, K. J. Hassan ha vissuto la storia recente dell’Iraq, l’emigrazione in Germania, Italia e Spagna per stabilirsi dal 1976 a Parigi dove a tutt’oggi dà vita a un’opera di studioso, traduttore e poeta di riconosciuto valore internazionale – Migrazioni fa finalmente udire anche in lingua italiana, grazie alla limpida e precisa traduzione di René Corona, una voce veramente degna d’ascolto. 

Letture

Letture larghe e accoglienti
Letture impastate di spazio
Letture preoccupate e accigliate
Letture di portata esatta
Letture che aprono sul nulla
Letture portatrici del grano dell'essere
Letture mai contratte come un dito sul grilletto
Letture amanti calamitate come la mano del sarto
Sulla giacca nuova
Letture che incantano voci venute da mille cavalcate inutili
Letture che si annusano come un'acqua perfetta
Letture che sposano i giorni con le notti
Letture-lavori
Letture appollaiate in alto sui viaggi
Letture di tuffi lunghi nelle acque vive della memoria.
(p. 48)

          Letture non è il testo con cui si apre Migrazioni, ma mi sembra esprimere con efficacia il pensiero sia esistenziale che poetico di Hassan il quale, ancor prima di scrivere, ha letto (e legge) la realtà e gli altri poeti, la memoria tanto personale quanto collettiva e itinerari reali e immaginifici, conserva la fiducia che la parola in poesia possa risuonare chiara e pregnante, capace di essere, contemporaneamente, voce-orecchio-e-occhio – voce che risuona e si fa udire da chi voglia ascoltarla, orecchio che, a sua volta, ascolta intento e occhio che guarda, così che occhio e orecchio tornano a consegnare alla voce quello che hanno visto e ascoltato.

          La matrice determinante di una tale postura è l’antica (e sempre moderna) tradizione della poesia araba gemellata, però, con la tradizione (altrettanto moderna) della poesia francese e, più in generale, occidentale. Migrazioni è infatti un libro mobilissmo non solo nel titolo (sul quale ritornerò alla fine di queste riflessioni), ma nelle sensazioni che trasmette, negli spazi, nelle situazioni e nelle stratificazioni della memoria che attraversa.

          Hassan crede che «Il fervore di una folla di popoli / Scorre e accorre nelle sue vene» non appena il poeta «traccia una parola sulla pagina bianca» (Arte poetica, p. 13) e in tal senso egli si ascrive alla tradizione araba che vede nel poeta la voce della comunità capace di esprimerne sentimenti e aspettative; la memoria, che va indietro fino all’infanzia e alla giovinezza vissute nell’amata campagna sud-irachena, si configura quale vivificante fondamento del presente, tant’è che Sud (pp. 14 e 15) dedicato “Ai miei” è un testo in versi nel quale Hassan, rievocando i suoi familiari («Li vedevo che si allontanavano / Che oltrepassavano il muro, / Presto nascosti da un orizzonte di palme») ne ricorda «[…] le loro parole laconiche» per riempirne «il vuoto con parole mie» in un’esplicita dichiarazione di poetica che si conclude con la strofa: «Come un’arancia in fondo all’acqua / Riposa in me il Sud. / Senza di lui vado avanti nel mondo / Amputato di una parte di me stesso / Probabilmente la più bella». La poesia nasce dunque da una separazione e da un allontanamento («Nacque amputato di una pare del suo essere. Poi trascorse la maggior parte della sua vita in tentativi abortiti cercando invano di recuperarla. Nel suo essere incompiuto, quei tentativi finirono per accumularsi» – p. 59) che, per apparente paradosso, è presenza e consapevolezza costanti non espresse in melensa o sentimentalistica nostalgia, ma che, proprio nel dolore di un ritorno impossibile, trovano energia e rinnovato slancio vitale dal momento che Migrazioni celebra e festeggia la gioia del vivere e dell’imbastire relazioni (comprese quelle erotico-amorose), dello scrivere e delle erranze del pensiero e dell’immaginazione («inventare / Lunghe erranze sul posto» – p. 75).

 

 

          Vivissime sono infatti le figure del padre che «Appassiva nell’aridità dei suoi giorni» a causa, s’intuisce, di una realtà dura e impietosa, «Ma il suo viso brillava di una luce di cui nessuno sospettava la provenienza. Lui solo ne conosceva il segreto: sua madre cantava a lungo per lui bambino. Diceva che lo addormentava negli abiti del canto. Con la sua voce incantatrice, lei gli aveva ricamato quello scudo, quello scudo solido con il quale si sarebbe protetto nel più cupo dei suoi giorni» (Ritratto di mio padre da giovanotto, p. 37), della madre («Sola, sei partita verso i campi innevati. Sola, hai nutrito i tuoi tirando un velo di rispetto sulla malattia del padre. Sola, hai saturato le terre con il sangue dei tuoi piedi e con le tue lacrime versate per ogni creatura. Sola, adesso invecchi forte e nella speranza, e così come sei stata sola in una miseria vittoriosa, eccoti sola nella tua grandezza senza limiti» Femminilità, p. 49), dell’amato cognato morto in trincea («Il giorno della sua morte, aveva ottenuo una licenza. Nello stretto della trincea aveva trovato il modo di ripulire la sua uniforme. Fu il tempo a dimostrarsi più avaro. La granata venne da qualche pare della montagna, come se gli fosse destinata. […] Mio cognato. Che in un giorno di alluvione mi fece dono del suo grande sorriso e di un pezzo di pane azzimo, distribuito ai soldati, e che io amavo così tanto» Elegia del cognato, p. 43) e della sorella che cerca di mettere in salvo le ceneri del marito perché è stato deciso di radere le file di tombe del cimitero di Najaf; è lei che incarna la nobiltà di un dolore che ha dovuto fare esperienza della guerra tra Iraq e Iran, della dittatura del partito Baʻth e di Saddam Hussein, delle cosiddette Guerre del Golfo.

          E c’è anche l’amico d’infanzia Haydar Salih («[…] Hai preso come pseudonimo Haydar quando, a Beirut, hai aderito ad una resistenza palestinese in seno alla quale come arma avevi soltanto il tuo delirio di bambino del sud iracheno e la tua risata mezza scema mezza sveglia. […] Sapevi a memoria il contneuto intero della rivista Shi’r (Poesia) e tutta la tua cultura stava lì. Hai mescolato delle pagien di Rimbaud con quelle del Mestiere di vivere di Pavese e ti sei sposato per abbandonare poi moglie e figlio. […] E ignoriamo sempre il segreto della tua improvvisa scomparsa. […] Perché lo sai, la patria non avrà potuto contenere le tue folli visioni. Avresti saccheggiato la saggezza dei benpensanti. Quella patria che per te si riassumeva in un pomeriggio pieno di allucinazioni e un pugno di ravanelli che rimasticavi prima di ruttare tutto il giorno, ridicolizzando come un giovane Rimbaud le rime dei versificatori» – Ad un amico d’infanzia, pp. 34 e 35), c’è Serge della Yonne («[…] era un poeta metafisico e pescatore con la lenza. Ci parlava tranquillamente dell’induismo, dell’amicizia con Michaux e dei differenti modi per pescare i pesci con la draga. […] Amico incupito da un grande sole interiore quando ci rivedremo? Nell’ultimo tuo tuffo che cosa ci hai riportato a riva?» Serge della Yonne / per Serge Sautreau in memoriam, p. 44) e c’è il grande poeta-medico Lorand Gaspar:

Dedica
per Lorand Gaspar

Il suolo assoluto nasce da un rifugio interiore
Dove trascorriamo degli anni
A scolpire un focolare di luminosità
Il suolo assoluto nasce da un'aridità
A lungo benedetta
Il suolo assoluto nasce da lunghi lavori
Che non conducono da nessuna parte
Il suolo assoluto nasce dal nulla
Il magnifico nulla da dove procede il cuore.
(p. 63)

          Mi si perdoni il dato personale, ma proprio Sol absolu occupa da gran tempo una posizione privilegiata nella libreria del mio studio ed è il libro che mi ha rivelato un Vicino Oriente israelo-palestinese abitato dal dialogo e dalla poesia, dalla parola scambiata tra uomini di buona volontà, dalla bellezza del deserto e di Gerusalemme… e se mi vengono in mente anche i nomi di Edmond Jabès, di Juan Goytisolo, di Paul Bowles è proprio per questa capacità che hanno i poeti e gli scrittori di annullare i confini tracciati dal potere e dalla violenza – le migrazioni sono questa volontà appassionata e amorosa di abitare la terra (non porzioni di terra recintate col filo spinato), di udire parlare lingue diverse, di dileggiare l’ottuso fascismo dei burocrati, dei poliziotti, dei servi del potere.

A un censore

Invano hai voluto proibirmi il canto. Probabilmente, eri esperto in perseczioni e quando vuoi impadronirti di qualcuno possiedi molteplci talenti. Ma dimentichi che il canto obbedisce a impulsi ignorati dallo stess cantore e che è lui che viene eletto dal canto più che sceglierlo. Il cantore è colpito dai suoni e tormentato dall'impossibile. Con tutto il proprio essere egli è ancorato alla dolcezza della parola, quella che permette di cuocere il pane delle offerte e di rianimare l'immaginazione dell'uomo fino alle più dure prove.
(p. 39)

         

 

          La poesia di Kadhim Jihad Hassan è tutta attraversata dalla luce del sorriso, dall’amore per la parola rivolta agli altri esseri umani (cui non dev’essere estranea sia la sua attività di professore universitario che di traduttore) senza mai dimenticare (né tacere) del dolore e della violenza – dell’Iraq si sa, in Italia, generalmente molto poco (o, preferirei polemicamente dire, si vuol sapere molto poco – benché l’Italia sia stata coinvolta in pieno nei conflitti e abbia pagato un alto tributo di sangue sia tra i suoi militari che tra i civili impegnati ad aiutare le popolazioni della regione); la voce transnazionale di Hassan squarcia invece il silenzio, ci conduce a immaginare una campagna irachena piena di vita, certo faticosa, ma dove la solidarietà e la sapienza coltivata nei secoli avevano creato un mondo di luce ora distrutto; è così che Migrazioni diviene anche testimonianza e dichiarazione d’amore, occasione per fare piazza pulita di stereotipi e ignoranza, ripensando, tra l’altro, i rapporti tra Europa e Vicino Oriente, per cui gli sfruttati e i disprezzati di ieri riconquistano identità e voce, dicono di una civiltà altissima e di possibilità differenti di vivere e di pensare:

          : etica della libertà.

Prigioni

Era all'inizio della mia infanzia. La scuola è stata trasformata in prigione e le classi in camera di tortura. Molto tempo dopo, sentirò lo stesso gemito infinito di cui le nostre madri ci dicevano e che tutte le notti risaliva la strada che una volta seguivamo. Un gemito che, nei giorni successivi, proveniva dalla terra e cadeva dalle grondaie; scuotevamo a lungo i nostri vestiti, per vederlo cadere in fini particelle di polvere. Così scoprivamo anhe che il gemito rimaneva impigliato alla radice dei nostri capelli ed era diventato una parte di noi stessi.
Solo la mia disperazione di vedere ammessa un giorno la favolosa idea della condivisione universale mi impedì di raggiunfìgere i Rossi. Ma il loro gemito, sopraggiunto dalle pieghe del silenzio, mi proibì allora di aumentare il numero dei loro detrattori. Così rimasi fedele a qualsiasi spirito di rivolta senza mai proclamarmi di una bandiera o di uno slogan. Che cosa vale in effetti uno slogan, rispetto ad un gemito che tua madre ha sentito per te (perché dormivi) e che è rimasto impiantato nelle tue cellule?
(p. 54)

          Accade così che l’istanza libertaria faccia di Migrazioni un atlante di luoghi e di personaggi felicemente eccentrici e, allo stesso tempo, splendidamente umani, magneti di speranza e di poesia, là dove la poesia è l’atto politico che salva e riafferma l’umano:

La suonatrice di arpa

La suonatrice di arpa in un corridoio del metrò parigino
La sua arpa più grande di lei
E forse più vecchia
Si può a malapena distinguerle l'una dall'altra
L'arpa chissà
Se appoggia sul petto della musicista
O forse la sostiene con tutto il suo essere
Come una preziosa reliquia?
Potremmo pensare al Centauro
Dove il cavaliere (qui la cavaliera)
E la sua cavalcatura sono diventati tutt'uno
O evocare
Un angelo con due ali
Così pesanti
Che non riesce più a staccarsi dal suolo.
Quanto a me preferisco pensare ad un'onda
Che si inabissa e poi risale
Fondendo i nervi della musicista, il suo sangue
Con il legno dello strumento reso più leggero
dal suono diventato più grave.
(p. 74)

          Kadhim J. Hassan è fratello dei poeti del deserto, di Mahmoud Darwish, di Adonis, dei poeti arabo-andalusi e di quelli arabo-siciliani, dei poeti francesi (Char, Saint-John Perse ch’egli stesso cita in Migrazioni) poiché è la lingua la sua vera patria, quella araba in cui scrive, ma non senza che manchi di tradurre lui stesso i propri testi in francese (e Hassan ha tradotto in arabo tra gli altri la Commedia dantesca, Deleuze, Derrida, Rimbaud, Rilke) – René Corona, che traduce Hassan fin dal 2009, mettendosi al servizio della scritura di Hassan ha ulteriormente inverato il senso profondo delle migrazioni che, come suggerisce Char riferendosi all’atto del tradurre, hanno bisogno di due rive (l’una per l’andata e l’altra per il ritorno) e, in più, nel volume pubblicato da Book Editore il poemetto in chiusura (Reinventarsi la campagna, pp. 100-117) è la traduzione in italiano dalla versione francese approntata da André Miquel, l’arabista e storico autore anche della breve Prefazione e dedicatario in memoriam insieme con Philippe Jaccottet, Jacques Lacarrière e Pierre Oster di Migrazioni.

          Migrare (a parte il dolore che comporta il dover abbandonare una terra che si ama) è viaggiare dentro sé stessi, cambiare, evolvere, pensare il proprio cuore in forma di mashhouf, l’imbarcazione sumera da cui discendono ancora oggi le snelle imbarcazioni usate per navigare il Tigri e l’Eufrate.

 

Migrazioni

Sarebbe stato necessario raggiungere la fonte innominata sul bordo della quale nessuno sacrifica il proprio doppio.
Sarebbe stato necessario cantare a squarciagola nel temporale.
Sarebbe stato necessario che i poeti si disfacessero dei boia che operavano ancora dentro di loro.
Sarebbe stato necessario festeggiare come si deve gli youyou delle nostre madri che ci conducevano verso un avvenire senza fine.
Sarebbe stato necessario che il cuore sposasse la forma di un mashhouf e facesse rotta senza voltarsi mai, verso il Sud.
Sarebbe stato necessario mantenere tutta la serenità.
(p. 55)
 
 
NOTA: le immagini che corredano il saggio sono riproduzioni di opere di Pierre Tal Coat.