Scoccare il dardo della parola: su “Sagittario in amore” di Pietro Cimatti

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

Sagittarius

 

         Mi accingo a scrivere del libro Sagittario in amore. Poesie postume (Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2015) di Pietro Cimatti, ma premettendo che non mi soffermerò più del necessario sul rapporto pur determinante con Roberto Setti, fondatore e animatore del “Cerchio Firenze 77”, né sugli interessi di ricerca spirituale e medianica legati a Setti e all’attività del Cerchio – com’è mio costume cercherò di “attraversare” questo libro interpretandone stile, temi, struttura, linguaggio, rimanendo cioè sempre fedele a un’analisi di carattere testuale e critico; la Prefazione di Ludovico Griguoli Lanza, le due Note conclusive rispettivamente di Davide Argnani e Stefania Porrino che completano il volume forniscono ampi spunti a chi desiderasse approfondire gli orientamenti non strettamente poetico-letterari di Cimatti i quali però, è corretto sottolinearlo, si riflettono in molti dei testi presenti nel libro e non vanno assolutamente frettolosamente liquidati come “derive irrazionali” o simili data invece la serietà e la passione con cui Cimatti entrò in rapporto di amicizia con il fondatore e animatore del gruppo (Setti, appunto) e dato il notevole spessore di ricerca personale e intellettuale che quell’esperienza significò per Cimatti. 

         Sagittario in amore si compone di due parti: Oltraggio alla memoria (Poesie 1988) – titolo a mio avviso zanzottiano con quel suo “oltraggio” che significa un andare oltre – e Progessive occasioni (Poesie 1958-86) – titolo questo a sua volta forse vagamente montaliano – e si tratta di testi in gran parte inediti fino alla morte del poeta (da qui il sottotitolo di poesie postume), ma che coprono un arco temporale ampio, coevo, si osservi, alla gran parte dei libri in poesia di Cimatti, ormai di difficilissima reperibilità nelle librerie – Sagittario in amore si offre dunque anche come un’occasione per tornare a leggere i testi di un autore di grande originalità e forza espressiva.

         Pietro Cimatti nacque a Forlì il 29 novembre 1929, sotto il segno zodiacale del Sagittario; indipendentemente dal fatto che si reputino attendibili o meno le caratteristiche attribuite ai singoli segni zodiacali, già questo punto di partenza giustifica parte del titolo del volume, ma, se si volesse assumere come significativo il valore simbolico dei segni zodiacali (in tale ambito si pensi agli studi sui simboli dello zodiaco di Aby Warburg) e del sagittario stesso, ecco che si potrebbe prendere in considerazione la duplice natura del sagittario-centauro (animale e umana), ecco che la sua postura di arciere inteso a tendere l’arco per scagliare la freccia potrebbe rivelarsi la postura del poeta stesso che tende l’arco della lingua, che scaglia il dardo del pensiero in direzioni che la traiettoria stessa della freccia traccia e indica – non è affatto un caso che un altro poeta, Paul Celan, faccia del proprio segno zodicale (il Sagittario) l’indice della sua ricerca poetica (si veda, a titolo di esempio, il dodicesimo testo del ciclo Atemkristall – Cristallo del respiro), ricerca poetica che coincide, senza scarti né residui, con la propria ricerca umana, cosa che puntualmente accade anche per Pietro Cimatti.

         In Sagittario in amore accade poi che una lirica come Inaugurazione dell’ariete (p. 27) ribadisca questi riferimenti zodiacali e astrali, veicoli della percezione dell’unità e dell’armonia del tutto le quali si riflettono anche in sede stilistica e ritmica (intendo nella liricità, nella rima, nello strofismo, nella perfetta strutturazione prosodica e musicale dei testi) : «Oggi le vie del cielo sono aperte / […] / Da altitudini immote, dai magneti / planetari, dai soli, fili d’oro / legano l’uomo, il fiore e la stagione / a un’unica ragione. Un solo cuore / batte, in un solo grembo si matura / tutto il vivente. L’esistente è un coro / di voci: è danza, numero e misura» – “ danza, numero e misura” sono proprio le definizioni perfette di una poesia che vuol essere (ed è) intimamente vitale, armoniosamente strutturata e riflesso di dimensioni cosmiche.

         Ci si soffermi, per esempio, sul componimento che segue:

 

Cosa accade

Cosa accade nel sonno?
                                       Già un lucore
sarà dietro i palazzi, oltre le altane
arcuate. Verrà l'alba, il suo tremore:
è l'ultimo silenzio,
                            è notte ancora.

Chi viene a questo foglio?
                                          È mia l'impresa
di scrivere, ma accorrono lontane
attese senza mani: c'è un'intesa
a me ignota che freme,
                                      e aspetto ancora. 

Chi domanda parole?
                                  Già un lucore
d'alba tinge i palazzi: oltre le altane
la prima luce, già il primo fragore
sulla città. Chi aspetti?
                                    È notte ancora.
(p. 17)

         Si tratta di un testo non soltanto da leggere e da ascoltare, ma anche letteralmente da “guardare” perché i rientri degli emistichi e i salti strofici costituiscono uno degli elementi decisivi nella strutturazione dell’intero componimento: partendo dal verso più nobile della tradizione poetica italiana (l’endecasillabo), qui Cimatti spezza già il primo verso nel settenario (con accentazione piana) che ne costituisce la prima parte e, non accontentandosi dell’a capo, fa rientrare il secondo emistichio fino all’altezza della conclusione del primo, creando così, anche visivamente, una sospensione, una sorta di vuoto, una visualizzazione dell’enjambement il quale ultimo s’impone con forza ancora maggiore di quanto possa fare la sola inarcatura da un verso nel successivo; dal punto di vista concettuale è l’attuazione del silenzio che segue alla domanda con cui inizia l’intero testo; la presenza assidua delle interrogative dirette caratterizza, stilisticamente e anche dal punto di vista espressivo-concettuale, tutto Sagittario in amore creando di testo in testo quello che mi azzarderei a chiamare un “dialogante monologare” ché, partendo dall’uso reiterato della prima persona singolare (senza però che l’io risulti mai ingombrante né ipertrofico e neanche lontanamente narcisisitico, bensì, direi, fenomenologicamente necessario e irrinunciabile) Cimatti concepisce e attua la scrittura in poesia quale incessante interrogare, dialogare – è uno “scoccare il dardo” in direzione dell’altro (che spesso in Cimatti può anche essere il proprio doppio, il proprio specchio, l’altro sé stesso), del silenzio, dell’ignoto, dell’inatteso, dell’enigmatico e anche dell’attraente, del fascinante, del parlante il quale ultimo può essere, in apparente paradosso, il silenzio stesso (non si dimentichi però la straordinaria espressione “la voce incomparabile del silenzio” di cui siamo debitori ad Andrea Emo), il mondo circostante, un altro essere umano (anche defunto come accade nelle liriche dedicate a Roberto Setti), tutto quello che sfugge ai sensi e alla ragione.

 

da_vinci

 

         E torniamo a Cosa accade; anche il quinto verso è un settenario che, terminando con la parola “silenzio”, la rende effettiva (e “visibile”) nel rientro tipografico dell’emistichio-verso successivo: è interessante la persistente ambiguità nel conteggio dei versi, per cui ci si dovrebbe chiedere se si debba considerare già il primo verso un intero (esso è, a tutti gli effetti, un settenario) oppure un emistichio, e a maggior ragione visto che esso è seguito da un quaternario che, in realtà, porta il settenario a conchiudersi in endecasillabo – di conseguenza la coppia «è l’ultimo silenzio / è notte ancora» va considerata quali versi 5 e 6, oppure 4 e 5, o, anche, soltanto 4?; si tratta di un eloquente slittamento-ambiguità di natura metrica che investe l’intero componimento e che perfettamente riflette la situazione psicologica ed esistenziale rappresentata nel testo, quell’oscillazione tra sogno e veglia, tra alba e notte, tra visibile e invisibile; la presenza della rima (frequente in Cimatti e spesso anche come rima interna) salda ritmicamente e concettualmente le parti della lirica: “lucore” / “tremore”, “impresa” / “intesa” e (seppure i termini siano più distanti tra di loro, ma forse proprio per questo congiunti in una rima ancor più significativa) “altane” / “lontane” / “altane” come a voler suscitare, nell’orecchio di chi legge, più che una rima vera e propria un effetto di eco la quale ultima si riverbera e nella pronuncia e nella memoria; si osservi inoltre che “lucore” torna a rimare, nella seconda parte, con “fragore”, tutte rime in -ore assonanzate con “parole”, mentre l’avverbio “ancora” s’impone quasi fosse un ritornello, ma non quale semplice gioco sonoro o ornamentale, ma quale giuntura di forma e di concetto – tutto questo per evidenziare la sapienza e lo studio di natura tecnico-ritmica da parte di Pietro Cimatti che non sono mai fini a sé stessi, ma costituiscono il versante stilistico di un pensare e di un sentire capaci d’imporsi con determinante vitalità; nel testo s’incontrano infatti temi e immagini molto cari al poeta: la dialettica luce/buio, notte/giorno, l’enigma mai risolto di chi sia il vero autore dello scrivere (spesso Cimatti si concepisce quale uno scriba che agisce sotto dettatura), l’attesa/Erwartung quale essenza profonda dell’esistere.

         Non è infatti casuale che Sagittario in amore si apra con una lirica (Alba di gennaio p. 15) che accoglie in sé l’idea del cominciamento, dell’avvio e, anche, della pagina intonsa ancora da scrivere («Alba senza colore, / benvenuta!») e che segua Dialogo del mattino (p. 16) nel quale il Leitmotiv della luce investe tutto il testo – Sagittario in amore potrebbe essere letto anche come una partitura perfettamente coerente al suo interno e che celebra l’empito vitale, l’amore per l’esistere, la fede totale nell’energia e nella luce promananti dalla vita.

         Si legga, a mo’ d’esempio, il componimento di pagina 18:

 

Interno alba

La sedia accanto è vuota. Chi è seduto
lì, invisibile? e vede, non veduto,
mentre mi credo solo? Sedia vuota
è la mia per qualcuno che è entrato
in questa stanza chiusa? Sono stato
seduto lì? Qualcuno mi ha chiamato
nel sonno. Eccomi.
                               Immobile, seduto,
mi guarda, e non lo vedo. Gente ignota
va per le stanze. Sono stato alzato
di notte. Eccomi. Sono qui, venuto
ad ascoltare. Ma la sedia è vuota. 
La stanza è slenziosa. Chi è seduto
sulla mia sedia, in questa stanza ignota? 
Cosa mi sarà detto? Chi ha chiamato
nel sonno? Chi mi guarda, non veduto?
La casa è vuota. Qualcuno ha parlato? 
Eccomi. 
              Cosa ho scritto?, chi ha creduto
di scrivere? La sedia è vuota. Vuoto 
è il foglio.  All'alba sono stato alzato,
portato qui. Qualcuno mi ha chiamato.
Era seduto, l'ho veduto: ha scritto.
Non mi ha guardato.
                                 Ignoto dice a ignoto: 
eccomi, sono pronto. Sono vuoto.

         A preferenza del lettore Interno alba può essere interpretato sia quale espressione degli interessi di carattere esoterico-medianico di Cimatti, sia come referto della condizione esistenziale del poeta e la poesia stessa può apparirvi come sensitiva e medianica capacità di annullare il tempo e lo spazio, di avvertire il mondo nella sua complessa pienezza: è necessario il vuoto (della pagina, del testo stesso) perché il mondo vi possa essere accolto, sono necessarie le forti cesure (anche stavolta spesso rese evidenti tramite il punto fermo in mezzo al verso) per creare l’effetto contrappuntistico dell’interrogare e del dubitoso rispondere e altrettanto necessari sono gli a capo e i rientri tipografici che, spezzando l’endecasillabo, rendono ascoltabili e visibili il vuoto, la pausa, l’attesa; lo stesso vale per altri testi come Comunicazione (p. 19) che descriverebbe un’esperienza mistica (anche in questo caso la luce è presenza forte e semanticamente sfaccettata), come La parola del maestro (p. 24) esplicitamente dedicata a Roberto Setti, Ignoti ospiti (p. 56) o L’amico invisibile (p. 57) colmi di presenze extrasensoriali, oppure Scirocco (p. 33) e Carta d’identità (p. 58) il cui tema è la reincarnazione e che sono, contemporaneamente, testi sul farsi della scrittura in poesia, sul suo essere percezione ebbra del mondo, corrispondenza d’amorosi sensi, capacità di rendere visibile l’invisibile, potenza immaginativa, di nuovo sospensione del flusso temporale; non si trascuri tuttavia il fatto che interessi e convinzioni d’ambito esoterico e medianico uniti alla vicinanza a dottrine di provenienza orientale caratterizzano anche la vita e l’opera, per esempio, di Giacinto Scelsi e di Lucio Piccolo e proprio perché già da tempo la europaea ratio aveva smesso di fornire risposte soddisfacenti a tanti artisti e intellettuali che affrontavano la crisi di un’intera civiltà – da parte mia preferisco leggere l’intero Sagittario in amore quale celebrazione dell’energia vitale e riflessione intorno alla scrittura in poesia capace di mediare (nel senso di stare in mezzo e mettere in comunicazione) l’io e il mondo, il visibile e l’invisibile, il vissuto e l’atteso, il sognato e l’esperito; è poesia-soglia quella di Pietro Cimatti da attraversarsi in entrambi i sensi, aperta alle più diverse possibilità, ebbra di vita e si leggano a tal proposito versi letteralmente dionisiaci come i seguenti (non a caso è Dioniso dio dell’ebbrezza e anche dell’estasi, dell’uscire da sé per attingere a una realtà altra): «C’erano glicini, grappoli lilla / nel sogno meridiano, aprile bianco / di ciliegi e di polvere. / Su, dilla / la tua poesia! finché ne sei pregno . / Questo è il tuo regno: primavera brilla / solo per te! » (in L’ora di Dioniso, p. 25) o, più in là nel libro, questi altri versi colorati anche dall’ironia e dalla giocosità (pure questa caratteristica della scrittura di Cimatti): «Nasce ubriaco il poeta e vive come l’eterno innamorato. / Come un ebbro cammino / […] / (La balia contadina / turgide poppe aveva, / capezzoli turchini: / era latte, era vino?) / […] / (Oh i capezzoli d’oro / a cui m’appesi, pargolo ubriaco. / Sempreridente, fu il mio primo amore: / non ho bevuto mai più dolce vino / da più dolce bicchiere) / […] / – sono un poeta o tutta la poesia? // Nasce ubriaco il poeta / e la vita si inventa / (un po’ sogna, un po’ mente). / Un po’ sogno, un po’ mento / […] / Io sono un contadino / vestito da signore / (bevo acqua e limone)» in Canzone alla balia (pp. 44 e 45) – in una sorta di giuoco il lettore può pensare a degli accostamenti sul tema novecentesco del poeta e della sua identità, della poesia e del vino, del poeta e dell’eros: Palazzeschi, Carrieri ed Esenin potrebbero essere nomi in questo caso affini per concomitanza di autoironia e di capacità nel condurre un serissimo giuoco musicale, ma anche dirompentemente provocatorio perché fuori dagli schemi e dalle convenzioni, si potrebbe forse pensare anche a Dylan Thomas per quel suo senso panico ed erotico del vivere, ma corre comunque l’obbligo di sottolineare quanto la scrittura di Pietro Cimatti sia peculiare e svincolata da mode, da appartenenze a scuole e a gruppi, da vezzi e da maniere.

 

Pietro-Cimatti

 

In Carinzia

Sotto l'antica quercia, dea
mater con lunghe braccia spalancate,
acquetati il serpente della fame
e i draghi della mente, o vita mea! 
godo il trionfo dell'alba d'estate.

Laggiù il lago si scioglie dalle brume.
Cori di galli. Tutto è chiaro, quieto.
Odo il canto segreto delle valli. 
Godo la meraviglia, essere vivo
tra le divine braccia. Besten danke!
(p. 30) 

         Ammetto che mi è impossibile dimostrarlo, che questa mia è una suggestione cui come lettore volentieri cedo, ma non riesco a non pensare ai versi montaliani di Dora Markus («Ormai nella tua Carinzia / di mirti fioriti e di stagni, / china sul bordo sorvegli / la carpa che timida abbocca / o segui sui tigli, tra gl’irti / pinnacoli le accensioni / del vespro e nell’acque un avvampo / di tende da scali e pensioni»). La Carinzia di Cimatti si trova, rispetto a Forlì, proprio là dove Dora Markus da Porto Corsini di Ravenna indica con la mano la propria terra («Con un segno / della mano additavi all’altra sponda / invisibile la tua patria vera» che potrebbe essere sia la Carinzia che la Palestina, è vero, ma comunque una terra in cui l’identità della donna possa riconoscersi) – per Cimattti la regione austriaca è terra ospitale di pace, “patria” d’elezione e, come sempre in Sagittario in amore, i sentimenti vengono esplicitati senza remore: «godo il trionfo dell’alba d’estate» scrive Cimatti (ancora l’alba!) e reitera nella strofa successiva «godo la meraviglia, essere vivo», strofa in cui le cesure forti, marcate anche dal punto fermo nel mezzo del verso, restituiscono il ritmo pausato e contemporaneamente ebbro di bellezza e di vita. Non sfugga inoltre il suono della seconda sillaba di “quercia” richiamato e rafforzato in “braccia” del verso successivo, che “galli” forma quasi una rima al mezzo con “valli”, si osservi l’estrema vicinanza sonora delle forme verbali “odo” e “godo” e come “braccia”, ricomparendo nell’ultimo verso, sembra appunto, come la grande solenne quercia (solennità accentuata dall’apposizione in latino), abbracciare la situazione estatica e l’intero componimento.

         Il congedo-ringraziamento in tedesco esplcita un altro aspetto di questo libro, vale a dire il suo essere una resa di grazie all’ebbrezza del vivere e alla bellezza del mondo (e liriche come Studio di paternità a pagina 53, Casa di notte a pagina 54 e Piccolo dio a pagina 55 tematizzando la paternità e il delicato, tremebondo farsi del rapporto con il figlio appena nato s’inseriscono anch’esse in questa celebrazione della vita).

         Assai interessanti sono alcuni passaggi di Giovani iddii (p. 47); eccoli: «Giovani iddii camminano le foglie / – sento il fremito lungo che le coglie. / Voi dei liberi iddii siete viventi / orme, erbe d’aprile, indietro e avanti / v’inchinate obbedienti. Passa il vento / sulla vostra vicenda e sulla mia / […] / – fibra e luce, vivete solamente. / Io dallo stesso vento scompigliato / tutto ricordo, e non so niente. Vedo / come danzate, e non ho mai danzato […] Non ha nomi la vita, immensamente / sapiente e ignara: e il passero al suo nido / e il pesce che ritrova la corrente / e la foglia che torna al suo colore / niente sanno, e non hanno mai dolore. / Io che invento parole, mi divido». Annoto: anche in questo caso non posso dimostrarlo, né, magari, è neanche lontanamente così, ma mi piace immaginare che qui possa esserci un punto di contatto tra la visione cimattiana del vivente vegetale e animale, del suo rapporto con il vivente umano e gran parte delle ricerce filosofiche di Felice Cimatti, uno dei figli del poeta e anche con il libro di Giorgio Agamben che è L’aperto. L’uomo e l’animale (Bollati Boringhieri, Torino 2002) e spiego: ovviamente il volume agambeniano (così come i primi volumi di Felice Cimatti dedicati al tema dell’animalità) compare anni dopo la morte di Pietro Cimatti, ma intendo dire che esso già appartiene a una costellazione di libri e di studi, a una temperie culturale che investe anche le arti (e che si va facendo sempre più vasta) dedicata allo “sguardo animale”, alla “coscienza animale”, al rapporto con l’essere umano e si pensi soltanto agli universi installativi di Pierre Huyghe, ai saggi di Emanuele Coccia o di Gilles Clément – nei versi da me citati, scritti molto prima delle opere cui ho or ora accennato, Pietro Cimatti sembra possedere uno sguardo a noi contemporaneo ed entro una visione non romantica e non antropocentrica, forse anche leopardiana e lucreziana, del vivente; la sua poesia si apre costantemente al non umano e all’oltreumano, essa conosce quest’empito vitale che va oltre le categorie tradizionali del pensiero occidentale ed eurocentrico, venendo a essere attualissima anche in virtù del suo ripensare atteggiamenti, abitudini, pre-giudizi che ancora condizionano il nostro rapporto con il mondo e, appunto, con l’animalità e il non-umano, cose comprese.

         «Pietà per quella foglia / che il tramontano strappa via dal ramo / lassù, ma di volare non ha voglia / dal platano ospitale» scrive Cimatti nei primi versi di Dialogo con la foglia (pp. 51 e 52) esprimendo una pietas profonda e commovente anche per quello che apparentemente è più debole e trascurabile per poi affermare in Capodanno (p. 60): «È giunta / l’ora del tuo tacere. / Scrivere solo lettere d’amore, / scrivere solo amore. / Altro non conta».

         La scrittura in poesia come atto d’amore nei confronti di tutto quello che vive è la cifra profonda di Sagittario in amore: «Sospendi la tua mente. Non pensare. / La realtà è presente. […] / […] / Se veramente vivi, è oltre la mente / e le sue vanitose crudeltà. / Dove tace il pensiero, parla amore. / […] / […] La realtà è amare, / interamente darsi. È l’ora zero / sempre: l’ora nascente. Eterna aurora / è l’esistenza […] / […] / Essere è dare, come la natura. / Tutto al presente, che niente sia fuori / da ogni attimo (è qui l’eternità)» si legge nel Poeta e la vita (pp. 62 e 63) e anche in questo caso è possibile interpretare sia seguendo le convinzioni spirituali del tardo Cimatti, sia leggendo in trasparenza una concezione della poesia quale, appunto, “oltranza oltraggio” rispetto al razionalismo di derivazione aristotelica il quale categorizza e notomizza il mondo, istituisce dualismi (potenza e atto, materia e forma, corpo e anima, sentimento e ragione, per esempio), mentre Cimatti scorge nella poesia il momento in cui si manifesta “la vita che vive” per dirla con il titolo di un recente, bellissimo libro di Emanuele Dattilo dedicato a Spinoza (Neri Pozza Editore, Vicenza 2022); «Io che invento parole, mi divido» aveva scritto Cimatti, come già sappiamo, ma egli rovescia sempre l’assunto cercando nella scrittura in versi l’unità infranta – la poesia di Pietro Cimatti, in quanto luogo dell’accadere del linguaggio, vive consapevolmente dell’antinomia di parcellizzare il mondo nel momento in cui attraverso l’atto della nominazione ne distrugge l’unità e di volere ristabilire questa medesima unità tramite uno slancio pienamente erotico, si carica, anzi, della tensione che scaturisce tra queste due polarità, ne riconosce la propria ragione profonda. Non è un caso, allora, che Definizione dell’attimo (p. 20) sia dedicata a Giorgio Colli, lo studioso di Eraclito e dei sapienti greci: «Attimo, verticale / fremito. / […] / Attimo è l’immortale, senza tempo. / La mente non può coglierlo e lo inventa / come memoria […] / […] / La mente ignora il fremito, non sente / l’attimovita, giunge sempre tardi, / quando il presente è passato e sorride / divinamente […] / […] / L’attimo è verticale: / […] / È il sentirsi di esistere, è il vivente»; né è sorprendente leggere nel testo senza titolo a pagina 31 dedicato a Krishnamurti affermazioni di chiara suggestione orientale: «Felicità […] / […] Abita qua, / nel corpo nudo, nella mente vuota, / nel desiderio senza oggetti» – la poesia è anche, in Sagittario in amore, espressione di ricerca interiore, registrazione del proprio cammino spirituale.

 

Being

 

         Desidero terminare questo mio “attraversamento” di Sagittario in amore proponendo un altro testo in cui la presenza dionisiaca torna a essere decisiva e in tal senso potrebbe non risultare del tutto peregrina l’ipotesi che nella poesia di Cimatti abbia luogo anche una sorta di warburghiano (e sempre consapevole) Nachleben di antichi miti entro i quali s’incontrano e si risolvono le tradizioni orientali e quelle occidentali:

 

Frammenti dalle “Baccanti” di Accio

Vanno matrone invase da furore
per siti ignoti e selve solitarie,
inseguono le fiere per i monti
calpestati dall'unghia delle capre
- d'uomo o di toro feroce progenie?
Si strappano le chiome lamentando,
ora intonano aspre melodie,
quindi si coprono il petto con glauchi
pampini che ricadono dal collo
di morbida lanugine fiorente
- non vedi come l'empietà le stimola
né timore le modera? Lampeggiano
fiammei rossori dagli occhi. Nell'ansa
di acque remote i corpi oscuri immergono
e si sfregano e inseguono gridando...
(p. 36)