I nodi delle vigne: su “Quest’ora dell’estate” di Carla Saracino

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

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          È notevole l’eleganza stilistica e l’impostazione di pensiero dell’opera Quest’ora dell’estate (L’Arcolaio, Forlimpopoli 2022) di Carla Saracino; articolata in due parti (LA CASA, L’ESTATE), essa è un dittico di mediterraneo senso del tempo e della memoria, di greca cura dell’ospitalità e dei morti, di salentina sensibilità per la terra e i legami sia familiari che amicali; dire in poesia è, in questo libro, dire in versi (spesso lunghi e sempre armoniosi, ma mai, mai banalmente o facilmente cantabili) la nascita dell’io alla scrittura attraverso una separazione radicale e la maturazione di quell’io a un tempo e a una stagione impareggiabili perché concessi una sola volta a una sola vita che, quindi, acquista consapevolezza della preziosità e dell’irripetibilità di un tale vivere proprio secondo una visione mediterranea di destino quale assunzione consapevole ed etica di un modo preciso di condursi rispetto al mondo e agli altri. 

Il tempo declina e la spiaggia nasce sulla pagina.
Vedo le dune approssimarsi al dito che sfoglia.
La pianta del ginepro
accasciata alla riva pungola il suono.
Non si tratta di una casa o dell'estate che affolla i pensieri.
Si tratta di una pena e del suo impossibile.
Del vedere prima di patire.
Si tratta dell'irredimibile.
(p. 17)

          Il tempo, una delle presenze determinanti dell’intero libro, apre già subito il primo testo, poi si assiste al coincidere tra atto della scrittura e luoghi (qui è la spiaggia, poi sono le dune mentre il dito sfoglia); e certamente uno degli errori di distrazione che un lettore può compiere è quello di dimenticare che il testo scritto è, anche, suono, che ogni testo andrebbe compitato a voce alta per rendergli compiutamente giustizia: i luoghi legati alla biografia dell’autrice (Maruggio, suo paese di nascita, le campagne circostanti fino a Manduria, il tratto di costa affacciato sul Golfo di Taranto e quel mare ch’è anche il mare del mito) sono già contenuti nella pianta del ginepro e nella riva anche se, viene subito specificato, il luogo e il tempo vengono come superati da ciò che è pena ed è impossibilità di evitarla o dimenticarla o ripararla, si tratta, addirittura, di una capacità di pre-veggenza rispetto al patire, «Si tratta dell’irredimibile» dichiara l’ultimo verso del testo e non a caso Carla Saracino e Andrea Leone nell’intervista pubblicata sull’Estroverso splendidamente riflettono proprio su di una parola-chiave del libro che è “remissione”. Sostengo qui, infatti, che altro motivo del valore non comune di Quest’ora dell’estate sia il suo assumere l’atto della scrittura quale visione e accettazione di una storia individuale E collettiva che hanno direttamente a che fare con la maturità, con il coraggio, con l’etica del vivere, con la forza interiore, con l’amore e con la cura, con la scelta di preservare e difendere, con il legame avvertito e liberamente consacrato che unisce alla propria terra e ai propri antenati (e tutto ciò non è reazionario, non è nostalgico, non è passatista, ma è scelta ferma di vivere il proprio presente, di riconoscersi: di essere).

Da queste case disposte in fila nel mio sogno di crescere ed invecchiare
sento arrivare un vento che porta con sé l'odore della brace.
Sono i fuochi appiccati nelle campagne abbandonate.
Non sono la sola a guardare tutto questo con la malinconia del sud.
(p. 20)

        saracino

        Chiunque abita o ha abitato le terre del Sud riconosce quest’odore di bruciato che appartiene intero al ciclo di coltivazione e lavorazione dei campi e sa anche la malinconia che pervade la mente (Saracino ha illustri predecessori che hanno cantato il medesimo sentire: Raffaele Carrieri, Vittorio Bodini, Claudia Ruggeri tra i molti) – anche a partire dalla foto di copertina del libro, uno splendido bianco e nero scattato da Carla Saracino in Contrada Marchese nei pressi di Manduria, il senso profondo di una casa e di una campagna meridionali si fa versi che, torno a ripetere, dicono di un destino radicato in un’origine, ma poi liberamente scelto, accettato, amato e, quando necessario, sofferto nella sua dolorante necessità.

        E infatti:

La partita avvenne.
Io sostavo appoggiata a questo o a quel muro.
Fui guardata da tutti, entrando.
In quella casa, orfana di opportunità, ero una visitatrice perduta.
Nel sortilegio pensavo: a quali dolori dovrò ricongiungermi adesso,
nel mito della calura, della proposizione dura, del fango finale.
(p. 21) 

Nelle stanze si accalcavano amici, parenti, conoscenti.
Uno di loro, prendendomi per mano, lesse lettere aperte
sul dorso della mia figura.

Mi vide in lacerti di vetro, specchiata in ovali sulle pareti lontane.
Era il dolore.

Andò. Penetrando nel taglio di un mio riflesso adolescente,
crebbe nella pianta, affossò la radice, vagò impietrendosi.
(p. 22)

        Una morte, la separazione, l’assenza, l’ingresso nella vita adulta: ecco la svolta radicale e, contemporaneamente, la nascita alla scrittura (splendido e indimenticabile il sintagma del “leggere lettere aperte sul dorso della figura”) la quale scrittura approda a questo libro totalmente privo di sentimentalismi e di vagheggiamento del sé; si avvia, anzi, un Leitmotiv anch’esso di matrice mediterranea, vale a dire il riunirsi per mangiare insieme: «Certe pentole in branco sul fuoco / il noviziato di un pranzo / i convitati riuniti» (p. 23) ché occorre davvero apprendere l’arte del cucinare per altri e di gestire il pasto comune (anche la scrittura in poesia è sapienza del preparare, dell’apparecchiare, del servire, del donare la propria cura ai commensali convitati).

        E riconosco subito dopo, sul finire del testo di pagina 24, l’intonazione destinale dell’intero libro:

[…]

Dice questo il verso: ritornare,
rinterrarsi.
Dice che è fondamentale essere nati,
aspettare delle ore, gocciolare tra le stanze vuote.
Dice il verso che l'anima ha impegnato.

Un tempo, nel tempo dei predoni e dei deportati,
la morte suonava sul gradino delle case e si annunciava
come un animatore nel fogliame.
Era un fischio o un sibilo sonnambulo.

*

Ma arriverà l'estate. Per ridarci tempo e giovinezza scritta a 
             [mano sulle tende delle finestre, alle boscaglie
della casa che crescono selvagge nelle crepe del muro.
È per questo che il desiderio chiama la grazia e la grazia risponde con 
                         [l'eleganza del cuore solo, seduta al
tavolo nei panni cangianti di una sprovveduta.
(p. 27) 

        Verso e tempo danno vita a uno spazio della scrittura che, materiato di elementi paesistici deprivati di ogni decorativismo e descrittivismo, Carla Saracino costruisce secondo il ritmo di un respiro lungo e profondo ma non prolisso; la voce della poetessa si fa udire da un lato in maniera del tutto originale e inedita rispetto alla tendenza post-barocca e rigurgitante di colori e di suoni di tante scritture d’origine meridionale (a me essa appare nella forma di una sorta di bianco e nero capace di tutte le infinite e sottili, eleganti e solenni sfumature dei due colori appaiati e intersecantisi e capace anche di dire con pochi, efficaci tratti di penna), dall’altro in diretta filiazione da poeti come Leonida di Taranto e Raffaele Carrieri se soltanto si riflette, per esempio, sull’esplicita nominazione dei grilli nel testo seguente:

Questi grilli sono gli stessi di dieci secoli passati.
Uguale la distanza fra il verso dell'uno e dell'altro.
Uguali le vicende che portarono l'orecchio a farvi attenzione.
Così, all'altezza del pomeriggio, quando si scava nella memoria
			[più d'ogni altra ora,
l'estate brucia nelle serre, mare intorno alla terra, esempio di volontà
			[che non cede e dura
oltre la vergogna e il pianto.
(p. 28)

        e commuove pensare quanto possa essere potente ed efficace una definizione della scrittura in poesia quale “portare l’orecchio a far(vi) attenzione” o, anche, quale «dubbio offerto alla parete / bianca di calce e di invenzioni» (p. 30), non disgiunto tutto questo da un preciso invito: «Siate esperti di cose immature» (p. 31) poiché Quest’ora dell’estate è un amplissimo, musicale movimento che ha a proprio tema conduttore l’addivenire alla maturità. È questo il motivo per cui la casa è presenza, luogo, segno, indice, lessema fondante del libro ed è una casa porosa, attraversata dal vento, dalla luce, dalla notte, sempre capace di dilatarsi a comprendere la campagna all’intorno, la litoranea nelle diverse stagioni dell’anno per ritornare a essere pareti, campiture di calce, fessure, suoni, sequenza di stanze, come, per esempio: «Ho aspettato delle ore che il tempo gocciolasse nelle stanze vuote» (p. 34).

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        Carla Saracino dimostra di padroneggiare perfettamente la ῥητορική τέχνη, l’arte del dire bene che è, appunto, grazia ed eleganza non fini a sé stesse, ma connaturate alla scrittura la quale è nobile postura intellettuale ed etica:

Non piangere, mia ostinata eleganza.
Dimmi, seriamente:
è stato un fallimento il tuo intento di erranza? 
(p. 35)

        anche perché un altro polo dialettico è quello tra restare e partire, tra andare via e ritornare attuando, mi sembra, una restanza (prendo in prestito il concetto, inutile dirlo, da Vito Teti) che è proprio questa scrittura, questo libro, questo fare della scrittura la casa della propria estate cioè della propria maturità di persona e di poeta.

         Si comprende allora bene in quale senso i “capodanni” e le “vigilie” siano termini-chiave ricorrenti, ché Carla Saracino vive e attraversa un calendario interiore nel quale il capodanno nella sua connotazione di cambiamento e di nuovo inizio coincide con l’estate del ritorno alla propria case d’origine, la vigilia, anche nella sua etimologia di “veglia”, è il lungo tempo che prelude al cambiamento, specialmente se, viceversa, la stagione invernale (e quindi il capodanno del calendario ufficiale) significa lontananza dai propri luoghi d’origine: «Lontane da me, litoranee desolate […] Ho sempre creduto nel vostro linguaggio / desolato e umido, diluito nella sequenza dei capodanni» (p. 36).

         Il movimento pendolare tra altrove (da ricondurre, se si vuole, alla Milano in cui vive e lavora Carla) e Sud, tra inverno ed estate, tra memoria e presente, tra assenza e presenza prepara la possibilità di poter finalmente scrivere:

La bellezza fu nella remissione. 
[...] 
Da ogni parte, tra i frammenti delle parole 
una selvaggia inclinazione a desistere. 
Ma ai piani alti, nel silenzio dei corridoi,
tracce di una gioia irremovibile continuavano ad assumere
l'aspetto di una forza protetta.
[…]
C'era, non visibile, qualcosa di perduto e riavuto.
Il nostro attrito governato, l'incipiente tempo
miracolosamente illeso dentro l'altro tempo.
Un suono imputabile al pensiero.
Il governo della remissione.
(p. 39) 

        terra d'otranto

        La seconda parte del libro, quella più propriamente consacrata all’estate, conferma uno spirito che ho già chiamato “greco” e che, in più, consiste nella carnalità dell’anima vale a dire in una potente valenza terrena e materica del sentire e del pensare e che si esprime nell’insistita, convincente personificazione dell’estate stessa, oltre che del coincidere tra paesaggio e stagione:

Ma l'erba era secca, il paesaggio brullo. Qualcuno la chiamava
scolpita nel chiaroscuro di un'anima carnale.
Lei rispondeva, poi di soppiatto ritornava nelle stanze ventose
accartocciate dal verdastro e dal nero dell'inchiostro della sua pianta
la pianta del corpo eretto, suo ultimo esecutore.
(p. 49)

Poi la vedemmo andare per strade sterrate
che portavano a sprofondati paesi d campagna
dove in piccoli antri scavati nella pietra
raggianti di oscurità vivevano arredi malconci, inceneriti dal grasso
sui muri in cerca di sopportazione, amore, incantesimi blandi
attraverso cui sopravvivere, e dire.
(p. 51)

          È nel dire che si perpetua quest’estate-esistere, è nel pasto in comune che le si associa la presenza delle “ombre” le quali fanno pensare anch’esse alla matrice greca e al legame, tenace nella cultura popolare salentina, con i propri morti i quali, anche in virtù della derivazione diretta dall’ellenismo, si muovono tra i vivi, li assistono e non sanno staccarsi dal mondo:

Anche io ho amato la vita,
senza ipotesi di scambio.
Sono stata nelle spiagge dell'adolescenza
e ho temuto per gli altri, prima che per me.
Ho seguito chi poteva restare, e sono rimasta.
Ho cenato nelle contrade più belle, con i commensali
migliori. Avevano ragione di starmi accanto: per le loro ombre.
Le vedo oggi, allineate, nella luce della casa. Irrompono
alla vista, scadono nel perdono, irradiano i primi anniversari.
(p. 57)

          E si pensi in questo caso anche al testo magistrale, indimenticabile, di Leonardo Sinisgalli La più bell’aria (contenuta nella raccolta La vigna vecchia) nel quale l’intera famiglia, secondo una sorta di rito neopagano, si riunisce a mangiare per rendere onore alla madre defunta compartendo il proprio cibo tra i commensali e con i morti.

         Le scansioni del tempo, già lo sappiamo, appaiono peculiari in Quest’ora dell’estate:

Quest'ora dell'estate chiami vigilia,
benché si ripeta allo stesso modo, da anni.
Benché in ogni favola o storia da raccontare 
ritorni la morte, che non vive di sole macerie.
C'è del rossore cupo a offesa del sangue
sulla cima di un desiderio terreno.
Io lo vedo e per amore dell'estate sono inerme.
(p. 60)

         Si noti come non sussistano mai toni di autocompianto o luttuosi anche se il tema della morte è uno degli assi portanti del libro e nel testo di pagina 60 esso sia esplicitato in maniera diretta e pure tramite il paradosso ossimorico di una morte che “vive” (più esattamente essa “non vive di sole macerie” e vive, dunque, anche di altro). Un’ora precisa dell’estate è annuncio e veglia, consapevoli della morte e del dolore susseguente, ma anche per questo votati alla vita che è desiderio e amore talmente soggioganti da rendere inermi – e forse bisogna arrendersi alla vita per maturare a essa, forse occorre deporre tutte le armi di una ragione vanamente raziocinante e ritrovare la ragione (le ragioni) di un pensiero meridiano, direbbe Franco Cassano, che non ha reciso i propri legami con la terra, neanche con l’oscurità, né con il proprio passato, né tanto meno con i cicli di una naturalità all’interno della quale l’umano può riconoscersi tale. Non a caso una precisa citazione dal Camus “meridiano” funge da esergo alla seconda parte del libro di Saracino (Ma dall’altra parte della città, / l’estate già ci porge in contrasto le altre sue ricchezze) proprio perché si vuol dire di dicotomie e polarità distinte eppure necessarie l’una all’altra, di luce e di buio, di morte e di vita che, pur non armonizzandosi né pacificandosi, materiano il nostro vivere e sentire, il nostro stesso scrivere.

        Giunge infine il sigillo al libro che è “libertà del dolore”, libertà data, cioè, dall’esperienza del dolore e che chiude un cerchio apertosi col testo di pagina 21:

Mediterranea era la speranza, corrente e bianca come il rifugio dell'ospitato.
[..]
Né l'estate né il tuo nome, potendo prolungarsi all'infinito, rivelarono la sostanza
					[di quanto udimmo tra le 
schiere dei nodi delle vigne e dei tuoi ossari di giugno, frequentati dalla luce,
					[bevuti dal ricordo, eserciti
inquieti sotto i passi e gli esercizi.

Dall'altra parte del mondo […] 
tu dei campi rincorrevi l'aria come ultimo annuncio alla libertà del dolore.
(p. 61)

         Quel che si trova “in mezzo tra le terre”, che giace in una “parte del mondo”, quel ch’è mediterraneo è, in Quest’ora dell’estate, il farsi di una vita e di una scrittura all’interno delle quali l’io non è né ingombrante né narcisista, ma necessaria polarità dell’esperienza, pur mentre la “sostanza” di quanto fu udito (ricordate? occorre “portare l’orecchio a far(vi) attenzione”) rimane inesprimibile; e mi preme tornare a far notare la capacità di Saracino nel dire in pochissime parole, per cui chiunque conosca le vigne salentine subito riconosce quelle “schiere dei nodi delle vigne” e quegli “ossari di giugno” (Brancale, lucano, intitola un intero libro in poesia Gli ossari del sole) – il Salento è scarne, bianche pietre, terra rossa affiorante, bassa macchia mediterranea, linee euclidee dei fabbricati antichi, lezione di laconicità e serietà del vivere, cerchio di tempi compresenti che si alimentano a vicenda e che collassano se uno di essi viene meno.

          «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado» scrive Vittorio Bodini: ed ecco che una casa, «Nell’estate dei contrasti / […] / La calce occupa il terrazzo» (Quest’ora dell’estate p. 19), viene a continuare, rinnovandolo e promettendo nuove riuscite, un itinerario di alta poesia. 

Nota: la foto in apertura  è di Marcello Moscara e rimane proprietà dell’autore.